Una ventina d’anni orsono, a Dayton nello stato dell’Ohio, uno di
quelli che fanno parte degli Sati Uniti, del Nord-America, sbocciarono alla
luce come vaghissimi fiori due simpatiche creature.
Esse dovevano, nel mondo, assumere il nome di Liliana e Dorothy: dalla
famiglia proveniva loro il cognome di Gish. Queste due elette creature dovevano
diventare – come tutti i nostri sanno al pari di me – due fulgide stelle
cinematografiche. Belle, eleganti, piene di grazia; dotate di vivido ingegno e
naturalmente disposte all’arte, esse tengono oggi un posto cospicuo nel cielo
dello schermo e hanno interpretato con sentimento e con maestria molti films
che hanno valso a dar loro la notorietà e la fama in tutto il mondo civile, ché
soltanto nel mondo civile si proiettano le pellicole e più esattamente le
pellicole ben riuscite. Molto spesso Lilian e Dorothy hanno lavorato insieme,
dividendosi fraternamente le difficoltà e il merito del successo che non è mai
mancato alla loro collaborazione e alle singole interpretazioni. Fra le più
importanti vogliamo ricordare con vero compiacimento: Le due orfanelle in cui partirono l’onore di rappresentare le parti
delle due infelici e suggestive piccole protagoniste e Romola, una grandiosa ricostruzione storica.
Liliana che è la maggiore delle
due sorelle ha, per proprio conto, partecipato egregiamente a: Giglio infranto, Giù la maschera!, Agonia sui
ghiacci, Le lave del Vesuvio o Suora bianca, La Bohéme e Madame de
Pompadour. Dorothy ha interpretato in separata sede: Lo scialle lucente, Lupi di
mare e Londra.
Lettori d’ambo i sessi, siete liberi di sentire e di prodigare la
vostra più profonda ed entusiastica ammirazione per ambedue queste stelle; ma,
ai lettori appartenenti al così detto sesso forte – che subisce ahimè! Troppo
di frequente la dominazione dell’altro sesso, che si definisce debole – mi
permetto di fare una raccomandazione nel modo più discreto, versando loro con
la massima circospezione in un orecchio quanto appresso: Se siete giovani,
simpatici e milionari, vi è permesso innamorarvi di Liliana la leggiadrissima
attrice dell’arte muta che andiamo illustrando, poiché ella è tuttora libera e
– possedendo le qualità sopradette – potreste forse riuscire ad impalmarla.
Guardatevi bene però dall’innamorarvi di Dorothy, l’altra deliziosa artista di
cui ci occupiamo, poiché essa è sposata, felicemente sposata con James Rennie,
e … non potrebbe darvi retta. E’ ben vero, mi obbietterete, che in America i
divorzi sono all’ordine del giorno e magari della notte; ma riflettete
ugualmente e ponderatamente; tengo ad avvisarvi per vostro bene e col più
disinteressato senso di altruismo. L’amore è composto di miele e fiele; ora il
fiele sarebbe per voi, mentre il miele se lo gusta James Rennie.
NICOLA CANE’, I grandi artisti del cinemaLILIAN E DOROTHY GISH, “Gloriosa” Casa
Editrice Italiana - Milano
Ovviamente non c'è nulla per attribuire questo prossimamente ad Iginio Lardani. La grafica, le animazioni, il montaggio scandito sulle note del Maestro - une partition de six notes tout au plus écrite, devine-t-on, sur une nappe de pizzeria après avoir abusé de Limoncello * - appartengono a Lardani. Molto probabilmente anche i titoli, dagherrotipizzati, del film sono suoi.
Correva l'anno 1970 e il cinema era ancora bello, come Lucia Bosè.
Via Maddalena è a lutto. Da qualche giorno, in essa, non brillano più i
globi elettrici annunzianti la continuità di spettacoli che il più bel ritrovo
cittadino, il Cinema Teatro Trinacria,offriva al pubblico messinese.
Ieri, con la rapidità di diffusione caratteristica delle cattive nuove,
si propalava la notizia che ad istanza dei creditori all’elegante ritrovo di
Giovanni Schepis erano stati apposti i suggelli.
Tale dichiarazione fallimentare, per quanto fosse notoria la precaria
condizione finanziaria dell’azienda, specie in questi ultimi tempi, ha destato
un senso di stupore, nel pubblico, poiché non ignora vasi che, mercé trattative
condotte con alcuni importanti aziende bancarie, si sperava una radicale e
benevola soluzione della crisi.
La sorte è stata madrigna verso la tradizionale impresa che la dimane
del disastro, a furia di sacrifici e con audacia effettivamente poco comuni –
ci perdonino i capitalisti messinesi – dotava la nostra città di un ritrovo
modesto dapprima che ha prosperato sino
al punto da trasformarsi in un locale affatto secondo ai migliori del genere. E
la “ debacle “ attuale è una evidente prova del cattivo apprezzamento di ogni
iniziativa che esca dal normale e che avrebbe diritto a maggiore
incoraggiamento e non ad opera annientatrice.
Il bilancio dell’azienda “ Cinema Teatro Trinacria “ a quanto risulta da
una recente convocazione di creditori, potrebbe essere compendiato nelle
seguenti cifre:
Attività £. 4.591.815.13
Passività ipotec. £. 1.587.000.00
Passività chirograf. £. 2.756.907.95
Non vogliamo entrare in merito se finanziariamente la dichiarazione
fallimentare possa essere vantaggiosa o meno per la massa creditrice. La
risoluzione dell’attuale crisi d’altro canto, presenta delle difficoltà enormi:
infatti il prosieguo della procedura fallimentare ed una conseguente
liquidazione porterebbero allo sfacelo, a nostro modo di vedere, in quantoché un curatore dottore in scienze commerciali o avvocato che esso sia, non
potrebbe trasformarsi da un giorno all’altro in impresario teatrale.
Certo che, ci furono i vampiri (intendiamo parlare degli strozzini che
dal Cinema Trinacria attingevano senza pudore come dal pozzo di S. Patrizio) vi
saranno gli sciacalli, ma vogliamo augurarci ed in ciò abbiamo fiducia
nell’Autorità Giudiziaria che un esatta valutazione dei crediti ed una perfetta
conoscenza di alcuni creditori non sconosciuti alla P: S: porti, nell’interesse
stesso dei creditori onesti, ad una perfetta chiarezza di situazione…
Corriere di Calabria e di
Messina 11, 12 Luglio 1927
Al suo primo apparire il cinema o, per intenderci, i film, dal mondo
cristiano in generale furono identificati con il Diavolo. Era inevitabile però che
chi metteva in scena i lavori visionati dai pubblici più disparati facesse
ricorso a storie bibliche, alla vita del Salvatore ed a qualche casta
fanciulla. A deprimere i sospetti delle alte gerarchie ecclesiastiche
intervennero da subito Enrico Guazzoni e
David W. Griffith. In Italia videro la
luce la censura e il Centro Cattolico Cinematografico. Quest’ ultimo non erano
altro che la versione aggiornata del tribunale della Santa Inquisizione che
apponeva i suoi sigilli sulle opere che venivano date in pasto ad un pubblico
sempre più numeroso: E – escluso per
tutti -, A – adulti, T – tutti. Col tempo le gerarchie vennero a patti con i
produttori concedendo abbondanti
scollature, vestiti aderenti, approcci amorosi espliciti con dissolvenza in
chiusura. A patto che tutto venisse suggellato da un’enorme Croce - vera o in
trasparenza, di legno o incandescente – finale: in hoc signo vinces. Tra i primi beneficiari ci furono, tra i
registi, Mario Bonnard e la nota ditta Ponti-De Laurentis i cui dirigenti in
mattinata visionavano i giornalieri nelle sale messe a disposizione dagli studi di Cinecittà, di
notte frequentavano i bordelli della capitale, per scoprire nuovi talenti.
Questa che segue è una delle prime pubblicazioni, come critico
cinematografico, di Sandro Anastasi, meglio noto come docente di diritto del
lavoro. Per molti la sua garbata figura è legata, oltre che alla sua attività giornalistica,
ad un momento irripetibile della cultura cinematografica messinese, gli anni sessanta/settanta
del Festival Cinematografico di Messina e Taormina, stagione che egli portò
avanti dapprima con la Settimana del
Filmnuovo all’interno del Festival
delle Nazioni e successivamente con l’esordio di Taormina Arte.
Oggi a sollevare le sue riserve al film di Sergio Leone ci
hanno pensato il tempo intercorso dalla prima apparizione e le innumerevoli
edizioni del film: dal 16 mm della Sanpaolo Film alle ultime edizioni in
digitale.
LE PRIME DEL CINEMA
C’era una volta il West
Sergio Leone, antesignano del «western all'italiana››, si è
impaniato in una narrazione complessa, involuta, sproporzionata e, se vogliamo,
narcisistica: con «C'era una volta il West», infatti, il regista italiano si
dilunga in uno spettacolo che si protrae per tre ore, nel
quale si diluiscono (fino a scomparire)
i dati positivi della sua fatica, senza che, peraltro, emerga la
impronta decisa dell'opera di valore.
Con film quali «Per
un pugno di dollari» e «Per qualche dollaro in più» l'ex ciacchista di Soldati
ha portato una ventata innovatrice nel genere western. Superati i moduli consolidati
dalla tradizione hollywoodiana, Leone è riuscito a realizzare lavori
stringenti, decisi, aggressivi, in una parola adeguati ai tempi, nel rifiuto di una vieta retorica
manieristica. Non si è trattato di opere d'arte, ma a Leone va ascritto,
comunque il merito di questa sua
sostanziale e comprovata capacità di superamento dello schematismo, in un
coraggioso(e riuscito) tentativo di modernizzare un parametro in sé
cristallizzato dal tempo. Questo suo slancio iniziale, tuttavia, si è andato
scemando; e la verifica che viene offerta da <<C'era una volta il West»,
trova riscontro, (a ben guardare) già ne «Il buono, il brutto, il cattivo››.
In realtà il limite di Leone (non sembri un controsenso) ci
appare quello di aver tentato (specie in questa ultima fase del suo impegno
cinematografico) di superare se stesso, rinunciando alla sua vocazione originaria e originale e, quindi, alla sua genuinità.
«C'era una volta il West», mentre si propone intenti di
analisi psicologiche, non regge al proposito; mentre nasce come western,
firmato da Sergio Leone (e ormai... «noblesse oblige»), si appesantisce involvendosi
in un ritmo, esasperatamente lento; mentre propone un tema narrativo, si
dissolve in piani diversi, che frazionano quella che dovrebbe essere la
sostanziale unitarietà della vicenda. In definitiva le cose buone, pur presenti
in questo film, vengono sommerse o non sono adeguatamente valorizzate,
disperdendosi nel complesso magmatico di situazioni,fatti e figure
rappresentati. Inoltre il tessuto connettivo del filmmostra l’usura delle
vicende, in fondo piuttosto comuni e ricorrenti nell’epica del western.
Ci troviamo, infatti, di fronte a due temi fondamentali,
dalle reciproche implicazioni: l’ansia dei cattivi di appropriarsi dei terreni,
il cui valore è destinato a salire in vista del giungere della ferrovia, e il
desiderio di un soggetto, «Armonica», di vendicare la morte del fratello.
Naturalmente il regista, che in effetti conosce il mestiere,
sfrutta lino in fondo le possibilità offerte da questi spunti; ne nasce un
intreccio elaborato che si sviluppa, giungendo infine ad una inevitabile
conclusione.
Ma vediamo, un pò più dettagliatamente la trama dei
soggettisti Argento e Bertolucci, avendo
cura di ricordare che in questa sede non è possibile precisare i diversi
passaggi filmici.
La vicenda è ambientata nella seconda metà del XIX secolo;
una donna deve difendersi dalle mire di un individuo senza scrupoli, che vuole
appropriarsi delle terre altrui, con evidenti intenti speculativi. Alla
poveraccia, rimasta sola perché il marito (che l’ha sposata in seconde nozze,
consentendole di rifarsi una vita) è stato ammazzato da un fuorilegge non mancherebbero le protezioni, però non del
tutto disinteressate. A sistemare la situazione ed a punire il cattivo,
sopraggiungono finalmente due strani figuri, dei quali uno è <<
Armonica», cosi trasparentemente battezzato perché suona sempre un'armonica a
bocca. Giustizia sarà fatta; molti moriranno e <<Armonica›>, per di
più potrà vendicare l’impiccagione del fratello, al quale - dopo la morte - era stata messa in bocca
proprio un'armonica.
Come traspare da questi brevi cenni, relativi alla storia
sviluppata in «C'era una volta il West», l’aspirazione di perfezionismo del
regista non trova riscontro nel fatto filmico. La confezione elaborata e poco spontanea, anche se elegante, non può
sanare le palesi deficienze di struttura e contenuto; in sintesi, Sergio Leone
può essere accusato di aver lavorato senza volgere lo sguardo al passato. In
vista di una, prospettiva, indimensionata, proponendosi obiettivi di ampio
respiro il regista ha reso opaco lo smalto che aveva caratterizzato sua m
migliore produzione senza acquisire gli elementi di una nuova, autonoma
vitalità narrativa
Gli interpreti, almeno per la maggior parte, hanno sostenuto
il peso di un lavoro che, su questo piano, può essere ritenuto più che
soddisfacente. Ottimo Henry Fonda, alle cui indubbie capacità si accoppia un apprezzabile senso di misura; gli specialisti (Charles
Bronson, Jason Robards, Frank Woolf e Woody Stroode) hanno lavorato con
inusitata sobrietà, mentre Gabriele Ferzetti e Paolo Stoppa sono incisivi
quanto basta. Claudia Cardinale, invece, ci sembra legata ad un cliché dal
quale - a nostro avviso - riesce a svincolarsi solo in qualche momento e con
molto sforzo.
Sandro Anastasi
GAZZETTA DEL SUD, Sabato 28 dicembre 1968
Il prof. Sandro Anastasi alla destra di Roger Corman
a lui è dedicata questa che è ormai la più riuscita cover del celebre tema musicale