lunedì 13 aprile 2015

Le dive dei nostri nonni (1)

 L’addio al cinema muto fu dato in Italia da Alberto Cecchi, in modo solenne e non malinconico, in accenti ricchi di speranza, con una protesta motivata contro le parole che venivano appiccicate a un”arte che sembrava non ne avesse affatto bisogno. Alberto Cecchi veniva dalle eleganze teatrali e il cinema di allora, cioè il cinema muto, rappresentava per lui la libertà, la natura, la poesia dei sentimenti primitivi e soprattutto il silenzio. Quanto a noi, che si era allora assai giovani, assistemmo al fattaccio con sgomento, incomprensione e malessere; e dopo lo straordinario Ombre bianche che non era parlato ma sonoro, e dopo alcuni film buoni che erano stati camuffati all’ultimo momento da sonori e parlati, per quasi due anni non andammo al cinematografo.
Quando i ragazzi di oggi vedono in qualche retrospettiva uno dei capolavori del muto e mandano gridi di doveroso entusiasmo, non possono capire il curioso effetto che fa ad uno della vecchia generazione il vedere isolato, messo sotto spirito, spiegato ed illustrato uno di quei film che gli accadde di vedere da giovane, magari con la fine prima del principio, in mezzo soprattutto a una catasta di altre pellicole, e
non tutte spregevoli, di cui s’è perduto persino il ricordo.
Con questo non si vuol dire che il tempo e la critica non abbiano isolato a dovere i film memorabili da quelli che non lo sono: si vuole affermare soltanto che fra quelli caduti in oblio ce ne sono molti che avrebbero meritato di restare.
Nel cinema che chiameremo per comodo primitivo, ma allo stesso modo in cui nel campo delle arti figurative lo scultore del Duomo di Fidenza è un primitivo rispetto a Dupré, avvenne che molte pellicole furono opere di scuola, uscite cioè da una stessa matrice ideale nella quale, nell'entusiasmo della creazione comune, qualcuno, magari l'elettricista, fungeva da capo e gli altri si mettevano entusiasticamente ai suoi ordini nell'allegra consapevolezza di partecipare a un`opera febbrile e comunque non duratura. Ma non è detto che ciò che è destinato a perire sia per questo meno bello, e la retorica classicista ha commesso uno dei suoi soliti errori eloquenti quando ha associato, male interpretando il legittimo desiderio che ogni artista ha di vincere il tempo, solidità con bellezza. Per nostro conto non siamo affatto persuasi che gli scomparsi tempietti greci di legno, di cui parla Lawrence in una pagina famosa, fossero meno belli di certi capolavori che resistettero al tempo.

Ci accade dunque, quando una nostalgia cui è vano resistere, ci conduce in certe salette fuori mano dove i filologi dei cine-club offrono antichi film muti, di trovarci nella medesima posizione spirituale di Eugenia di Montijo, diventata imperatrice dei francesi, quando nel museo di Grenoble le fecero vedere un ritratto del famoso scrittore Stendhal. 
<< Ma questo non è uno scrittore, >> avrebbe detto la bellissima e romanzesca spagnola, << questo è il signor Beyle che mi raccontava le avventure di Napoleone quand’ero bambina. >> Così noi potremmo dire che questo che vediamo più di vent`anni dopo non è il capolavoro di Ford o di Murnau, ma un certo film visto nel 1925 in un pomeriggio caldo di giugno, quando si usciva dal ginnasio che il sole era ancora alto (si andava a scuola pure nel pomeriggio, in quei tempi) e si mettevano le assicelle dei libri a fare da piedistallo per diventare un pochino più alti della calca ondeggiante negli ultimi posti.
 Pietro Bianchi, Maestri del cinema, 1972


domenica 12 aprile 2015

Quanto bene funziona la natura



Ehi, qualcuno è morto dopo tutto
Il fumo è in aumento
Sì, è così
E' pietoso
se si tratta di una persona giovane ...
... invece di qualcuno vecchio
Sì, ma una nuova vita ...
... successivamente sostituisce quella
che muore

Quanto bene funziona la natura

Yasujiro OzuL'autunno della famiglia Kohayagawa (小早川家の秋 Kohayagawa-ke no aki)


giovedì 9 aprile 2015

Ramon Rojo. in memoriam


Gian Maria - Ramon - Volontè
09/04/1933 - 06/12/1994

mercoledì 8 aprile 2015

martedì 7 aprile 2015

Acid, electric, strangest of all, Elvin Jones: Zachariah


By Daniel Spicer
The psychedelic period of the late 1960s/early 1970s produced a number of movies that sought to incorporate youth music with film. From the elegiac tragedy of Easy Rider to the Monkees’ Day-Glo comedy Head, the best of these represented and reflected the era’s curious mix of turbulence and naïveté.
And then there was Zachariah. This head-scratcher from 1971 was directed by George Englund (who’d previously worked with Marlon Brando on 1963’s The Ugly American) and featured a script by cult US comedy troupe The Firesign Theatre, with a storyline loosely based on Herman Hesse’s hippy-pleasing novel of spiritual discovery Siddhartha. It tells the tale of the improbably beautiful and white-toothed Zachariah (played by John Rubinstein) who, with his equally dreamy young friend, Matthew (a 21-year-old Don Johnson, later of Miami Vice fame), sets out to pursue the glamorous life of a gunfighter. Clearly, the film broadly falls into the genre of Acid Western, alongside classics such as Peter Fonda’s The Hired Hand, released the same year, and Sam Peckinpah’s Pat Garret and Billy the Kid from 1973: movies that attempted to address countercultural concerns (Zachariah and Matthew’s first scene together has them sharing a joint), within the Western milieu. But, while most films of this genre explored serious themes and maintained an element of verisimilitude, Zachariah blasts off somewhere else entirely. Almost singlehandedly creating a new genre, the publicity blurb excitedly trumpeted it as ‘the first and only Electric Western.’
In this instance, ‘electric’ essentially means ‘psychedelic rock.’ The opening scene captures power trio The James Gang rocking-out in the desert with huge amps plugged right into the sand, while Zachariah runs around firing a pistol into the air. It’s the kind of temporal incongruity you might find in Thomas Pynchon’s epic Western novel Against the Day, in which dynamite-chucking anarchists get bombed on peyote and hallucinogenic explosive putty. But Zachariah becomes still more disorientating as its protagonists’ adventures lead them into surprising encounters with a range of real-life musicians. San Francisco’s psychedelic pioneers, Country Joe and the Fish, play The Crackers – a gang of inept outlaws whose performances induce unrestrained go-go dancing in respectably attired frontierswomen; fiddler Doug Kershaw – aka The Ragin’ Cajun – makes a lightning cameo with a yodelling piece of plot exposition; and, strangest of all, Elvin Jones, arguably the greatest jazz drummer of all time and veteran of the late John Coltrane’s Classic Quartet, turns up as the suave gunslinger, Job Cain, shooting a man dead before bashing out a drum solo.
The result is oddly surreal – but not in the way that Jodorowsky’s nightmarish Western allegory, El Topo(released in 1970) is surreal. In tone and execution, Zachariah seems closer to the closing scenes from Mel Brooks’ screwball Western spoof, 1974’s Blazing Saddles, in which the cast spills off the set and into the bustling streets of downtown 1970s Burbank. Zachariah’s fairly negligible storyline makes a half-hearted lunge at profundity – clumsily advocating pacifism and brotherhood – but it’s so flimsy that, in the end, all that’s left is the music: an eclectic mix of rock, pop, folk and jazz that fails to hang together with the conviction of the equally wide-ranging soundtrack to Antonioni’s 1970 countercultural lament Zabriskie Point.
Ultimately, the fact that the soundtrack to Zachariah has been out of print and unavailable for so many years hardly seems to matter. You probably had to be there.
L'originale è qui:
http://www.soundandmusic.org/features/sound-film/found-soundtracks-zachariah


lunedì 30 marzo 2015

Asili in Calabria

OGGI
in contemporanea con
http://daplatiaciurrame.blogspot.it/2015/03/bambini-del-sud-reg-michele-gandin-1959.html
L'asilo di Platì




Bambini del Sud (tit. originale), 1959
Soggetto:  Umberto Zanotti Bianco
Sceneggiatura: Paolo Balbo, Michele Gandin, Giuseppe Isnardi
Organizzazione: Luciano Pesciaroli
Commento: Stelio Martini
Fotografia: Dario Damicelli (A. I. C.)
Musica e adattamenti: Mario Nascimbene
Voce: Riccardo Cucciolla
Regia: Michele Gandin

giovedì 26 marzo 2015

Western Siddharta




La visione di Zachariah (1971) di George Englund fa ergersi nella mente del mangiatore di film tutta una serie di accostamenti con altre opere cinematografiche  sue contemporanee o anteriori. Esse abbracciano lavori di autori intellettuali europei come di abili commercianti hollywoodiani. Ma questo dato è comune a tutti i film della counterculture  sia che venissero realizzati nella coste west o  east  statunitensi.  Zachariah è pressoché inedito in Italia. Non attirò dapprima i distributori italici come successivamente i canali televisivi. Per fortuna c’è il “ vostro/nostro tubo “.
Per alzare il tono gli autori fanno ricorso a Herman Hesse, scrittore molto in voga tra i giovani di allora. Zachariah cerca l’avventura e il rischio per colpa della sua pistola comprata per corrispondenza, finendo col meditare sulla vacuità e vanità degli uomini.
Oggi a noi interessa l’aspetto musicale del film che si amalgama bene col progressivo svolgimento delle immagini, facendo  uso ora di partiture originali di Jimmie Haskel, ora di musica roots alla maniera di Dug Kershaw, ora di un arrangiamento velocizzato dell’overture del Guglielmo rossiniano, ora della folk-psichedelia di Country Joe and the Fish, dell’acid rock della James Gang e, infine, data la presenza del bronzeo Elvin Jones  esecutore  di un tellurico assolo di tamburi, del jazz d’annata. Non poteva essere altrimenti data la mole di contaminazioni dissipate nell’opera da parte di chi ha scritto e sceneggiato Zachariah.