La
critica cinematografica, inaugurata da poco nei quotidiani, incoraggiò come
poté l'epifania di Blasetti, il quale tuttavia fu soprattutto aiutato dalla
rivoluzione che avvenne allora nel cinema, l’avvento del film sonoro e parlato.
Il pubblico internazionale, che affollava le sale oscure sempre avido di nuove
favole, che comprendeva benissimo il linguaggio dei suoi mimi, e che non
sentiva affatto il bisogno che essi parlassero, fu sconvolto, atterrito e in
parte disperso dall'avvento del film parlato. Non solo i nuovi film erano tanto
più scadenti degli antichi; ma apparivano lenti là dove gli altri erano rapidi;
dialettici e difficili da comprendere, là dove gli altri eran trasparenti e
leggeri come acqua di fonte.
Le produzioni locali e nazionali, schiacciate senza
remissione dall’imperialismo del cinema americano, capirono subito che il
gigante di Hollywood nella sua smania agitatoria e nel suo acrobatico attivismo
s'era tagliato le ali da solo. I film americani, che non si capivano, nessuno
li voleva più vedere (l’espediente del doppiaggio era di là da venire); le sale
erano deserte, ma le masse degli antichi spettatori non aspettavano che un
cenno; Inghilterra, Germania, Francia e Italia allestirono in fretta, chiamando
tecnici da fuori, stabilimenti cinematografici e in brev’ora nacquero, meglio
rinacquero, le cinematografie nazionali.
S'è accennato prima che, al tempo della dissoluzione
del primo cinema nostro, registi e attori avevano preso le vie dell’esilio.
Appoggiato dallo Stato, che sentiva l’importanza politica del nuovo linguaggio,
e dagli investimenti capitalistici che giocavano sul velluto nella contingente
carenza della produzione straniera, il cinema italiano aveva fame di gente.
Inghiottiva tutti, registi e belle amiche dei produttori, scrittori riusciti e letterati falliti, indigeni e
barbari. Per una sorta di capriccio, il produttore più importante aveva chiamato,
come direttore generale, un letterato finissimo, e non troppo in odore di
santità politica, Emilio Cecchi, che, studioso di letterature straniere e
viaggiatore, aveva una certa esperienza delle cose di fuori e che si era fatto
notare con note critiche informate a un originale ed illuminato amore per il
cinema. La gestione Cecchi fu caratterizzata da un film, sbagliato come
impostazione e come interesse spettacolare, ma ricco di germi, Acciaio, di un documentarista tedesco, Walter Ruttmann, su uno
scenario originale di Pirandello, e da un paio di film di Camerini, in sé eccellenti
quanto caratteristici della produzione di questo direttore artistico. Gli uomini, che mascalzoni! fu la
pellicola di Camerini che risultò più accetta al pubblico. Ebbene, ne Gli uomini, che mascalzoni! c’è in gran
parte il mondo, la concezione popolaresca, e l’uso dei mezzi tecnici che piaceranno
tanto agli << aficionados >> del nuovo cinema italiano del secondo dopoguerra. Ne Gli uomini che mascalzoni! la periferia di Milano coi tram saettanti
nei mattini chiari di primavera; la Fiera Campionaria, la piccola gente colta
sul vivo delle proprie ingenue passioni e scoperti difetti, il commento
musicale, ispirato da quelle canzoncine, patetiche, melodiche,
condotte -sembra - sul filo di un rasoio,
che gli americani, sbarcati a Salerno poco più di dieci anni dopo, scopriranno
con tanto entusiasmo; attori e attrici quasi nuovi nel cinematografo (dei
protagonisti, De Sica veniva dalle scene di prosa, e la ragazza, che si chiamava
Lia Franca, era al suo primo film). Come non riconoscere in tutto questo gli
elementi, anche se privi delle acute droghe della disfatta, che il mondo
celebrerà più tardi in Sciuscià e in Vivere in pace?
Vennero
poi per il cinema italiano anni di grande felicità materiale, quanto di intima
povertà spirituale. Lo stesso precursore Blasetti non era riuscito che a un
quasi capolavoro, 1860, in cui però,
caratteristicamente, e ancor più che nel film di Camerini, sono riconoscibili i
motivi della << nuova scuola ››: gli attori non di professione, gli
esterni naturali; e addirittura l'espediente, che poi sarà usato da Rossellini,
dei protagonisti che parlano la lingua che è loro propria, anche se è un
dialetto quasi incomprensibile allo spettatore comune.
Quasi alla vigilia della guerra intanto, ma con molta
più coscienza e preparazione culturale, s’era formata un’altra <<
chapelle >> di giovani intellettuali, fanatici del cinematografo, che s’erano
raccolti attorno a una rivista, in parte dottrinaria e in parte d'informazione,
che si chiamava << Cinema>› e che era diretta dal figlio del
dittatore, Vittorio Mussolini. I giovanotti erano tutt’altro che degli
entusiasti del regime, in quegli anni del resto in netta involuzione, ma il
paravento serviva ottimamente. Nel gruppo erano fermenti vitali, nascosti, come
accade, da astratte ideologie. Ma il terreno era buono; e nei paraggi, se non
proprio tra
le pagine della rivista, dovevano svilupparsi le tre
personalità da cui la << nuova scuola >>avrebbe preso lo slancio
per gli ulteriori voli. Alludiamo al comandante di marina Francesco de
Robertis, i cui Uomini sul fondo e Alfa Tau son nelle memorie di ognuno; il
Visconti di Ossessione; e il Rossellini
di Un pilota ritorna.
L’autarchia cinematografica italiana non aveva
aspettato il conflitto del ‘40. Già alla fine del '38, con uno di quei colpi di
testa che son caratteristici delle dittature, si era deciso all’ostracismo ai
film americani. Se il provvedimento risultò subito esiziale alla cultura del
paese e alla fame di verità degli spettatori, oppressi dalla chiusa temperie
del ventennio, i registi giovani più spregiudicati e coraggiosi ne ebbero un
innegabile giovamento (qualcosa di simile capiterà in Francia ai Clouzot e ai
Becker durante l’occupazione nazista). Esperimenti come quelli di De Robertis,
e soprattutto come quello di Ossessione,
non sarebbero stati altrimenti possibili.
Quando,
subito dopo l”epifania della Liberazione, spunteranno, come i funghi dopo le
prime piogge di settembre, il Rossellini di Roma,
città aperta e di Paisà e il De
Sica di Sciuscià, pochi penseranno a
riconoscere nel primo lo sviluppo del regista di Un pilota ritorna e nel secondo la logica conclusione di certe
premesse delle sue ultime pellicole.
Poi è venuto il successo internazionale: Roma, città aperta, Sciuscià, Vivere in pace,
Paisà han tenuto gli schermi a Parigi,
a Londra, a Nuova York, tra l’ammirazione universale. La << nuova. scuola
>› è stata dappertutto imitata e sin dai maestri di Hollywood.
1948
Pietro Bianchi, Maestri di Cinema, Aldo Garzanti editore,1972
Nella foto in alto il critico cinematografico Pietro Bianchi, 1909 - 1976, seguono screenshot da
Sciuscià di Vittorio De Sica
Pietro Bianchi 1909 - 1976