domenica 1 febbraio 2015

Fratello Connery

OGGI

Grazioso filmetto … è OK Connery. Diremo subito che il nostro giudizio, nel 2015, è viziato  dalle musiche della coppia Morricone & Nicolai a cominciare dalla title track cantata da Khristy (altre volte Christy) al secolo Maria Cristina Brancucci, con le parole stupidelle di Audrey Nohra - He freels me - He keels me / He gives me the feeling that maybe it's love / He tarms me / Disarms me, When he looks in my eyes and tells me it's love / He hownts me / He won'ts me / He knows how to make a girl fall in love - . In questi suoni risento l’odore dei pomeriggi domenicali trascorsi dentro il cinema Orfeo di via Nino Bixio e rivedo Lolli in cabina di proiezione, mitico antro di Efesto, che se la diverte a gesticolare con lo zio Peppino. E quanti altri motivetti felici nello scorrere della pellicola, come il passaggio con i capelloni nostrani, beatniks  all’italiana, nel disco il pezzo si chiama Allegri Ragazzi. Neil Connery sfotte il suo fratello più ricco e la coppia Morricone-Nicolai  sfotte la coppia John Barry- Monty Norman . Alberto De Martino da par suo deride Terence Young e tutta una sfilza di attori motteggia se stessi a cominciare da Adolfo Celi e cosi Lois Maxwell  con la sua salda classe british, Anthony Dawson e Bernard M Lee. Ah, c’è anche una Bond girl vera che è Daniela Bianchi.  E ricordiamo ugualmente i doppiatori: Adalberto Maria Merli per Neil Connery e Riccardo Cucciolla per Adolfo Celi. Meglio ebbero cercato di fare Franco Franchi, Ciccio Ingrassia e Mario Bava con Le spie vengono dal semifreddo.



mercoledì 28 gennaio 2015

Caro, caro Signor Francesco Berté


Apprezzamenti per l'Orione
Gentile Direttore, accolgo l'invito per un dibattito sui Cineforum messinesi lanciato da un vostro lettore nel numero scorso.
Non sono più molto giovane ed il cinema è uno dei miei svaghi preferiti. Ho accolto quindi con viva sorpresa le critiche rivolte nei confronti del Cineforum Orione. Seguo questo circolo ormai da diversi anni e non posso parlarne che bene. Se non ci fosse stato l'Orione, penso spesso, che sorte avrebbe avuto
la cultura cinematografica cittadina? A chi sarebbe stata affidata? Al circolo Barbaro che un anno fa
attività in posti per me inaccessibili e per tre anni scompare? Oppure al circolo che svolge attività al cinema Olimpia?
A questo proposito inviterei il lettore critico a fare una visitina a questo Cineforum, di cui ho commesso l'errore di comprare la tessera. Vedrà il sig. Mittiga gente stipata all'inverosimile per colpa degli organizzatori che hanno pensato solo agli incassi; soci abbandonati a se stessi senza nessuno che li
guidi per una buona cultura cinematografica; giovani e giovanissimi che vengono solo per fare caciara con
gli amici. Durante la proiezione del film «La caduta degli dei» ho avuto l'«impudenza›› di chiedere silenzio ad un gruppo di giovinastri. Non l'avessi mai fatto, sono stato sepolto d'insulti e ho dovuto abbandonare la sala. Ho visto in pace il solo «Flauto magico» perché in sala eravamo una decina di spettatori. E vogliamo mettere questo con l'Orione, ma non scherziamo! Al cineforum Orione ho sempre trovato gente educata, ben disposta, competente di cinema, in un ambiente accogliente, con tante ed interessanti attività collaterali e schede esplicative molto chiare.
Quando ha cominciato l'Orione a Messina c`era il nulla. Poi ci sono state decine di tentativi di imitazione, ma nessuno ha avuto la vita e la serietà dell'Orione. Anche quest'anno all'Olimpia si tenta di imitare l'Orione: tessere simili, impostazione dei programmi simili, molti film già proiettati gli anni scorsi all'Orione. Per questo so già in partenza che l'Olimpia prima o poi finirà, nonostante il successo di quest'anno così come sono finiti il Barbaro, l'Achille Grandi e tanti altri. E poi non si può dimenticare che l'Orione ha portato il cinema in periferia  che ogni estate ci consente di vedere gratuitamente la rassegna del Filmnuovo.
Ma forse il sig. Mittiga non si occupa di cinema, perché nella sua lettera era tutto preso dalla politica. Io vorrei consigliargli invece di fare la tessera dell'Orione e vedere i film: non si può dire che un circolo che ha dato tanto alla città non sia valido solo perché un organizzatore ha dato un giudizio su un film che, Mittiga mi consentirà, era molto bello, ma anche un po' spinto». E poi per la gioia della sinistra l'Orione ha organizzato pure un ciclo per le femministe. Mi creda, sig. Mittiga, a Messina chi ama il cinema non può non amare l'Orione.
Francesco Bertè

Pubblicato sul settimanale Il soldo il 23 Dicembre 1978

martedì 27 gennaio 2015

40 Childrens

The Best Performances by Children 12 and Under

By Film Comment

Paper Moon Tatum O'Neil
1. Tatum O’Neal Paper Moon, age 10
Meet Me in St. Louis
2. Magaret O’Brien Meet Me in St. Louis, 7
Alice Doesn't Live Here Anymore
3. Jodie Foster Alice Doesn’t Live Here Anymore, 12
Bicycle Thieves
4. Enzo Staiola The Bicycle Thieves, 9
Let the Right One In
5. Kåre Hedebrant Let the Right One In, 11
Spirit of the Beehive
6. Ana Torrent The Spirit of the Beehive, 7
Welcome to the Dollhouse
7. Heather Matarazzo Welcome to the Dollhouse, 12
Wild Child Truffaut
8. Jean-Pierre Cargol The Wild Child, 12
The Addams Family
9. Christina Ricci The Addams Family, 11
ET Drew Barrymore
10. Drew Barrymore E.T.: The Extra-Terrestrial, 7
The Piano
11. Anna Paquin The Piano, 9
The Bad Seed
12. Patty McCormack The Bad Seed, 11
Bigger Than Life
13. Christopher Olsen Bigger Than Life, 10
National Velvet
14. Elizabeth Taylor National Velvet, 12
Night of the Hunter
15. Sally Jane Bruce Night of the Hunter, 5
I Was Born But
16. Tomio Aoki I Was Born, But... , 6
Let the Right One In
17. Lina Leandersson Let the Right One In, 11
Bright Eyes
18. Shirley Temple Bright Eyes, 6
The Other
19. Chris & Martin Udvarnoky The Other, 11
Ponette
20. Victoire Thivisol Ponette, 5
Good Morning
21. Masahiko Shimazu Good Morning, 7
Interview With the Vampire
22. Kirsten Dunst Interview with the Vampire, 12
The Innocents
23. Martin Stephens The Innocents, 12
City of Pirates
24. Melvil Poupaud City of the Pirates, 10
The Fallen Idol
25. Bobby Henrey The Fallen Idol, 9
Zazie
26. Catherine Demongeot Zazie in the Metro, 12
Tiger Bay
27. Hayley Mills Tiger Bay, 12
Whale Rider
28. Keisha Castle-Hughes Whale Rider, 12
River's Edge
29. Joshua John Miller River’s Edge, 12
The Kid
30. Jackie Coogan The Kid, 7
Near Dark
31. Joshua John Miller Near Dark, 12
Gloria
32. John Adames Gloria, 6
To Kill a Mockingbird
33. Mary Badham To Kill a Mockingbird, 10
Witness
34. Lukas Haas Witness, 9
Tarnished Angels
35. Christopher Olsen Tarnished Angels, 12
The Boy With Green Hair
36. Dean Stockwell The Boy with Green Hair, 12
Secret Garden
37. Kate Maberly The Secret Garden, 11
Alice Doesn't Live Here Anymore
38. Alfred Lutter III Alice Doesn’t Live Here Anymore, 12
Little Miss Sunshine
39. Abigail Breslin Little Miss Sunshine, 10
The Shining
40. Danny Lloyd The Shining, 7
L'originale è qui:
http://www.filmcomment.com/article/film-comments-trivial-top-20-expanded-to-40-the-best-performances-by-childr

domenica 25 gennaio 2015

Provvidenza per Iginio Lardani

Soltanto raffrontandolo ad altri si può attribuire questo prossimamente ad Iginio Gigi Lardani. La grafica e i fermo immagini rielaborati sono inconfondibilmente Lardani.


mercoledì 21 gennaio 2015

Al di sotto di ogni teoria, sul piano della cronaca letteraria o meglio dei piccoli con sigli:lo stato della critica cinematografica

 DIECI SUGGERIMENTI 
diEMILIANO MORREALE


Le osservazioni disordinate che seguono si mantengono al di sotto di ogni teoria, sul piano della cronaca letteraria o meglio dei piccoli consigli. Si tratta in breve di una guida personale, di buoni propositi, in cui si mescolano idee semi-teoriche e brute analisi di costume. Piccole regole da riscrivere e riverificare a seconda delle situazioni, anche se le linee di fondo mi pare valgano in generale per una situazione che è quella emersa dagli anni ‘80, ossia la definitiva entrata della cultura nella “società dello spettacolo”, il trionfo della comunicazione, l’ineludibilità della dimensione di massa fin dentro gli angoli dell’opera più altera e solitaria. E, secondariamente, c’è alla base la constatazione che oggi, in Italia e non solo, la situazione della critica sia gravissima. Le periodiche diatribe sulla crisi della letteratura e del cinema e sulla loro rinascita, ad esempio, nascondono un dato di fatto brutale: che a essere in una crisi irreversibile, anzi quasi scomparsa, è proprio la critica. Non sono certo gli artisti a mancare, oggi in Italia, ma gli interlocutori, i mediatori–non–funzionari. Una cosa che chi non frequenta le raccolte di saggi, le antologie e le emeroteche non può immaginare, sono le dimensioni della scomparsa della critica. Se ci si trova a leggere recensioni cinematografiche e letterarie anche italiane fino a un paio di decenni fa, ci si trova spesso davanti a descrizioni articolate e soprattutto nette, leggibili. Riflessioni, personali e discutibili certo, ma nel merito del lavoro degli artisti. Anche gli onesti artigiani settimanali della critica letteraria o cinematografica o teatrale vedevano come compito il raccontare e valutare in maniera appropriata, precisa. Chi si sforza di leggere, capire e spiegare un’opera si trova in un’oggettiva situazione di minorità e di opposizione rispetto al sistema della comunicazione.

1. Una certa mobilità intellettuale. Per decenni, le generazioni di giovani critici e intellettuali si sono formate quasi esclusivamente a contatto con veri feticismi metodologici, e quindi con una secca separazione tra i testi e la vita. Personalmente ho avuto a che fare con giovanissimi aspiranti specialisti, talvolta semplicemente inorriditi all’idea di una qualche prosecuzione (conseguenza, applicazione) di ciò che studiavano nella loro maniera di vedere le cose, di leggere la realtà, di muoversi nella società. Il tentativo di rifuggire dagli specialisti è doveroso per tutti – tranne forse che per i giornalisti, per i quali dovrebbe essere un dato di partenza da emendare – ed è stato più volte invocato negli anni, ma lo si potrebbe anche declinare in maniera più precisa, comportamentale, nel senso di tenersi al di fuori delle logiche autoreferenziali, di non farsi intrappolare nelle polemiche e gratificazioni dei propri micro-ambienti. Per evitare di impantanarsi nello specialismo e nel discorso delle conventicole, di scrivere lanciando messaggi trasversali, bisognerebbe anche praticare una certa mobilità intellettuale. Essere davvero competenti in un settore aiuta a capire cosa è la serietà, e a capire cosa significa studiare prima di parlare. Ma bisognerebbe coltivare delle posizioni esterne da cui guardare al proprio lavoro, se non altro per sentirsi lievemente a disagio, estranei in ogni situazione troppo chiusa. L’ideale sarebbe sentirsi per qualche secondo un po’ sociologi quando si è tra i critici letterari, o, quando si guardano i film, ricordarsi che alcune cose le dice meglio il fumetto. Anche per non accontentarsi della realtà delle singole arti così come sono. Detto in altro modo, e ampliando lo sguardo, questo si potrebbe anche chiamare radicalità. Appunto: non accontentarsi dell’esistente. Chiedere molto al proprio oggetto di studio (che è, si spera, anche un oggetto di amore e talvolta d’odio), atteggiamento che può addirittura essere salutare come visione del mondo, e che dovrebbe essere l’atteggiamento nei confronti del mondo che ci circonda, nel suo complesso.

2. I ferri del mestiere. In apparenza, le due grandi vie quando si fa critica sono o la via interna (smontare l’opera, spiegarla iuxta propria principia, mostrarne il meccanismo) o quella esterna: chiarire il contesto, trovare efficaci punti da dove guardarla e collegare con altri testi, altri luoghi, momenti storici. Un metodo diciamo analitico e uno comparativo. Ma a ben vedere, si può azzardare che la critica è sempre comparativa (il celebre “only connect”). Solo che nel caso della critica analitica i termini di paragone sono stati raccolti, asciugati e ridotti a strutture o a funzioni. Gli strumenti dell’analisi non discendono per via deduttiva dall’ordine delle idee, ma hanno a monte un lavoro di raccolta, analisi: impuro e storico. Allora la conoscenza dei “ferri del mestiere”, delle correnti e dei gerghi letterari, è spesso solo una scusa per non incontrare direttamente le opere ma i loro fantasmi. E le connessioni che si possono fare direttamente hanno sempre un altro sapore, un’altra sorpresa, rispetto a quelle comparazioni mediate e raffreddate che sono le sussunzioni in un sistema.

3. La curiosità necessaria. Siccome non c’è da fare molto affidamento sulla virtù sublime e pressoché estinta della generosità (e anzi l’egoismo e il narcisismo temo possano essere considerati, nel campo di cui parliamo, quasi alla stregua di malattie professionali, o di prerequisiti), rimane pur sempre molto da puntare sulla curiosità. La capacità di trovare cose nuove, che ci sono, di muoversi. Anche fisicamente: è incredibile quanto poco si spostino all’interno dell’Italia gli intellettuali. Credo che la metà dei critici cinematografici non sia mai stata in Sicilia o in Calabria per più di un weekend. I registi e gli scrittori comunque si spostano di più, e forse è uno dei motivi per cui sono spesso più reattivi.

4. Un dovere morale. Non so se gli artisti debbano preoccuparsi della coerenza personale; forse possono farne a meno, e talvolta possono veder riscattare le miserie personali dagli esiti della propria arte. Ma credo che gli intellettuali, i commentatori e i critici, proprio perché non hanno l’alibi dell’arte, abbiano qualche dovere morale in più. (Forse anche per questo motivo, sempre più critici amano vedersi come artisti: perché immaginano segretamente che con questo avrebbero meno piccole responsabilità quotidiane, personali). Con un paradosso si potrebbe dire: per essere artisti non è necessario essere brave persone, ma per essere degli intellettuali sì. Mi spiego: civettare con i media, la politica, le conventicole forse fa male a tutti, ma è immediatamente esiziale per chi cerca di capire le opere, perché lo rende terminale e referente di idee ricevute. Perché in qualche modo quando frequenta, discute, spiega sta già facendo il proprio lavoro. Ed è molto difficile che i piccoli compromessi che il salotto, l’istituzione o il mercato istillano periodicamente restino senza conseguenze per l’igiene mentale.

5. Contro il neo-dandysmo. Va di moda oggi il terzismo, l’intellettuale che spiazza (magari citando Camus e Simone Weil e avendo buon gioco contro i peccati degli intellettuali comunisti del secolo scorso), o civetta con il cattolicesimo come i decadenti francesi di cent’anni fa. In questi casi viene brutalmente da chiedersi quanto sia comodo questo atteggiamento, che cosa ci guadagna e cosa rischia chi lo pratica. Se rinascessero oggi, i salutari immoralisti, i dandy e i camp d’un tempo, sarebbero dei moralisti addolorati (in parte lo sono anche diventati, come Arbasino da Un paese senza in poi). I grandi critici, da Flaiano a Edmund Wilson, da Chiaromonte a Frye, da Garboli a Kracauer, sono stati insieme degli spiriti liberi e dei grandi moralisti. Negli anni ‘50, e ‘70, e magari ‘80, rifiutarsi alle ideologie più invadenti e alle “grandi narrazioni” era un gesto coraggioso. Ma oggi il neo-dandysmo è, semplicemente, l’atteggiamento più conformista e remunerativo per chi scrive di cultura e d’arte.

6. Una questione di stile. In tempi di Internet, può risultare strategico tornare a curare lo stile. La scrittura, intanto, giacché bene o male il critico attraverso le parole si esprime. Il rifiuto della frase morta. Ma anche il passo, il tempo del proprio pensare. Stile è una bella nozione, perché in sé riunisce l’estetica e l’etica. Ed è una dimensione che, dopo il crollo delle Grandi Teorizzazioni e dei Super Metodi, dalla semiologia allo strutturalismo, finisce con assumersi un carico fin troppo pesante. Non quindi cercare una propria cifra riconoscibile, un marchio, ma piuttosto avere la responsabilità della propria retorica, delle proprie retoriche, stare attenti a tic e automatismi e darsi un minimo di pazienza nei percorsi mentali, nelle associazioni. Una moda del tempo dei blog è quella della scorciatoia, della battuta tutta rivolta all’immediata definizione, allo slogan. Si tratta certo di esibizionismo, che riguarda le patologie della folla solitaria davanti al computer: e magari, la ricerca di piccole tribù attraverso il gergo. Ma in questo modo Internet ci mette anche davanti al problema, sempre presente per un critico, di gestire le proprie idiosincrasie e i propri narcisismi. La rete ha dato sfogo in maniera diffusa al lato oscuro della pratica critica. In questo modo, possiamo vedere con particolare chiarezza quali sono i rischi: in qualche modo siamo tutti blogger, in potenza o per pochi minuti al giorno. Il che dovrebbe suscitare un impegno nella direzione opposta, ossia nel riempire di spessore, argomentazione e raziocinio il proprio lavoro. 

7. Nemici. Non si è mai troppo superiori ai propri nemici, diceva uno scrittore. Per questo bisogna sceglierli con intelligenza e passione. Sono molto tristi certe battaglie di fioretto e di sciabola che i critici intraprendono, sprecando salve di indignazione, contro nemici di cartone, tanto da dare l’impressione di pure esibizioni, anzi di storno d’attenzione del lettore. Spesso la polemica migliore è con chi ci è quasi vicino, quella che contiene dei grani d’autocritica o che quanto meno non spinge a sentirsi troppo separati e migliori.

8. Rivendicare radici locali. La generazione dell’Erasmus e dell’Inter-rail ha prodotto una sorta di fascia trasversale di simili, indistinguibili da nazione a nazione, più o meno con la stessa cultura, gli stessi gusti, le stesse facce. A questo punto, può essere salutare rivendicare delle radici locali, l’interesse verso le realtà più prossime. Il “di più” che gli uomini di cultura italiani possono dare sta proprio nel peso che portano in quanto italiani, nella necessità di decifrare i cortocircuiti e le interazioni tra le pratiche artistiche e un luogo. Occuparsi dell’Italia è, per i critici, anche un dovere. Una prospettiva internazionale (e storica) serve ancora una volta a ridimensionare la portata dei dibattiti interni, ma i grandi maestri della critica sono stati anche e soprattutto, con fastidio e con angoscia, uomini di questo paese. 
L’essere italiani dà poi, a saperlo sfruttare, un altro vantaggio. Quello di provenire da un paese di recente modernizzazione, in cui i conflitti tra il vecchio e il nuovo si possono sentire fino alle ultimissime generazioni. Anche i ventenni sono cresciuti a contatto con lacerti ultimi di realtà quasi pre-moderne, unite a versioni da terzo mondo dei media. E questa è una grande fortuna, in fondo: perché ha prodotto una dolorosa coscienza di sé, anche in artisti e critici delle ultime generazioni. L’essere semi-cyborg è qualcosa che può essere una tragica fortuna (e che, ormai, si ritrova con più facilità tra gli italiani del Sud, o della provincia). Sapere con precisione chi si è, quanto si è provinciali, aiuta a non farsi illusioni e a creare strategie di riacquisizione e “riuso creativo” di quelle merci culturali che invece ormai sono, lo si voglia o no, uguali per tutti.

9. Un punto di partenza. Lo stesso discorso fatto sul dandysmo intellettuale vale per l’atteggiamento nei confronti della cultura di massa. Chi si illude oggi che sia ancora eretico gridare “La corazzata Potemkin è una cagata pazzesca”? Il nuovo conformismo prevede mille cautele e qualche amo gettato per le rivalutazioni in vita, perché domani non si sa mai, un libro, una retrospettiva, il recupero di un fenomeno paraletterario... Anche qui, l’indifferenza o l’ironica delibazione dei prodotti di massa non è segno di apertura mentale. Il fatto che, come diceva a suo tempo giustamente un grande critico, “i film nascono liberi e uguali”, non è una conquista da affermare, ma un dato di fatto, dal quale partire, per discernere. Altrimenti il rischio è quello del Manifesto o di Extra, la grande pappa. E come far capire, allora, che i Simpson, i cartoni della Pixar sono un grande prodotto culturale, la serie Boris è una commedia acuta e intelligente, mentre il 99% della musica pop, del cinema italiano e americano, delle sitcom e fiction e miniserie è tranquillamente immondizia?

10. Per chi si fa critica? E con questo ci avviciniamo a quello che è forse il tema decisivo: il pubblico. È un problema, temo, che artisti e critici hanno in comune, ma è anche quello che segna una delle più istruttive differenze tra loro. L’esistenza di una fitta rete di destinatari ideali, generazionali o sociali, e dello scopo che si cerca di ottenere. A questo punto, però, per i critici si impone, lo si voglia o no, il problema della comunicazione. Che è, come sappiamo, spesso fonte di impedimento e corruzione per gli artisti più radicali (a meno che non tentino quella via encomiabile del confronto con il pubblico di massa, e ci riesce uno su un milione). Ma è anche, invece, la ineludibile dimensione dei critici, il cui compito paradossale è anzi forse di difendere, attraverso la comunicazione, gli spazi di “fuga dalla comunicazione” e dallo spettacolo degli artisti migliori. 
Per chi si fa critica, dunque? Verso chi, o in nome di chi o di cosa? Cosa valuta i giudizi, li fonda idealmente? Certo, il super-Io è passato di moda da diversi decenni, il “mandato dell’intellettuale” ci fa sorridere, ma il problema rimane. Ed è comune, anche stavolta, a critici e artisti, e in molti sani casi nutre sensi di colpa, indignazione, moralità, ricerca. Non ci si può trincerare (per fortuna) davanti all’idea di un’alleanza con coloro che un tempo si chiamarono gli oppressi. Il che significa in qualche caso meno alibi e meno malafede, ma anche il rischio di altri e nuovi alibi alla propria chiusura, morale e culturale. Alcuni libri possono, o potevano, fondare una percezione del mondo che diventava più importante delle ideologie. Si può dare corpo e sangue alla propria visione degli uomini leggendoMartin EdenLa StoriaIl primo uomoL’isola del tesoroLa classe operaia in Inghilterra... o guardando Zero in condottaLo zio di BrooklynNostra signora dei TurchiEuropa 51. Ma è possibile oggi dare una qualche consistenza a coloro che ci sembrano i destinatari di un discorso sensato? La prima risposta che mi viene in mente giace nel paradosso, ed è: i futuri cittadini, i “nuovi arrivati”. Ossia: da un lato le nuove generazioni, e dall’altra gli immigrati. Coloro, tra l’altro, che non hanno voce in capitolo e che sono più fuori dal circo dei media e nello stesso tempo ne sono più vittime. E se, in questa direzione, il problema della critica non fosse troppo dissimile dal problema di cosa significa essere di sinistra? Critica e sinistra come due concetti del secolo scorso, coi quali non sappiamo più bene cosa fare? 
Una premessa pessimistica che può paradossalmente consolare viene proprio dalla constatazione della vanità della lotta politica attuale. Il lavoro culturale sembra più decisivo e perfino più urgente della lotta politica, perché la barbarie che ormai serenamente accettiamo e alla quale in varia misura contribuiamo non può in nessun modo essere eliminata con l’arma diretta del confronto politico (e da chi, poi?). E la dilazione o la rimozione di un lavoro culturale profondo e paziente rischia di trasformare ogni eventuale piccola vittoria della politica e della società civile sul peggio del nostro tempo in un’illusione, o addirittura in un involontario passo verso un disastro umano, che lascia sempre meno margini di intervento, di pensiero, di vita.

(originariamente pubblicato in "Lo straniero", 118, aprile 2010)

L'originale è qui:
http://www.filmidee.it/article/196/article.aspx

martedì 20 gennaio 2015

Il disgustoso mondo di Amélie


di Elisa Cuter

Feuchtgebiete potrebbe avere come sottotitolo “Il disgustoso mondo di Amélie”. Il riferimento al lezioso film caposcuola di Jeunet sembrerà fuori luogo per parlare di quello che è stato considerato il film scandalo di Locarno, ovvero le disavventure di un'adolescente che vive la sua ribellione verso i genitori incompetenti e infelici godendosi il sesso con deliberata noncuranza igienica, narrate con voluta nonchalance per il buon gusto dello spettatore. È proprio l'inconsapevolezza della protagonista a fare di lei un personaggio memorabile, in cui tenerezza e disgusto si fondono evitando l'ingenuità kitsch dell'Amelie Poulain di cui sopra. Allo stesso tempo, è questo stesso suo rimando naif a rendere fecondo il film: la sua forza sta proprio nel saper restare a cavallo tra un tipo di narrazione mainstream e un punto di vista inedito come quello di una ragazza capace di ignorare tutte le convenzioni che normalmente a una ragazza vengono imposte.
Più che un film che punta a scandalizzare il grande pubblico, Wnendt sembra voler far storcere il naso a certa critica snob. Non solo narra di tavole del water incrostate ed emorroidi sanguinolente, ma lo fa seguendo anche nella messa in scena un cattivo gusto demodé (si pensi agli imbarazzanti titoli di testa animati) e un frenetico stile registico da video-clip che poteva forse essere provocante negli anni '90, ma ora non fa che circoscrivere un target. Il film, però, ha senso proprio in relazione a questo target giovanile: non è un film scandalo, né un pamphlet “per imparare divertendosi” (anche se in questo caso centrerebbe il bersaglio in pieno), ma piuttosto un raro esempio di film che comprende profondamente il suo pubblico e allo stesso tempo punta ad educarlo. Perché di questi tempi c'è sicuramente bisogno di prodotti che indaghino il lato “sporco” del corpo (e dello sguardo) femminile, a maggior ragione senza morbosità né ammiccamenti “artistici” ma con spirito giocoso, celebrativo, verrebbe da dire punk (pensando ai Ramones).
Parte del merito dell'operazione va attribuito alla promettente attrice protagonista Carla Juri, cui basterebbe il fascino candido per spingere lo spettatore ad empatizzare con il personaggio; ma si farebbe volentieri a meno degli psicologismi un po' superficiali che tentano di  giustificare il desiderio di libertà per mezzo di traumi infantili, tradendo in parte gli intenti dell'omonimo bestseller di Charlotte Rocha da cui il film è tratto. Come il libro, il film restituisce comunque la voce di una nuova generazione tedesca attenta a formarsi ribaltando quelle che nel corso dello scorso secolo sono state le sue fatali debolezze: se lo spirito tedesco è stato a lungo dominato da un'analità nevrotica e ossessiva - in termini freudiani -, ecco una celebrazione della fecalità come fulcro dello humor, stavolta però in chiave ironica, non morbosa né subita - infantilismo abbracciato con consapevolezza.
Una generazione di cattivi maestri che sa scendere a compromessi (l'innegabile avvenenza di Juri ad esempio sembra purtroppo confermare la massima secondo la quale “a woman is allowed to be crazy, as long as she's hot”), perché ambisce a parlare a tutti, e ci riesce.

L'originale è qui:
http://www.filmidee.it/archive/37/article/521/article.aspx

lunedì 19 gennaio 2015

Helen è Carla

OGGI
al Circolo di Cultura Cinematografica “ Yasujiro Ozu

Figlia di genitori inetti Helen è una ninfa in stato di grazia che ha bruciato tutte le tappe della sua giovane età. In clinica per un … incidente?... ripercorre la sua ribellione prima di entrare pure lei nella normalità.
Feuchtgebiete (2013) è un’opera che si rivolge ad un pubblico under 20 pressappoco come Pretty in pink (1996), made in Germany questa volta. Senza un attimo di tregua, rapido, le sequenze fuggono con musica, canzoni, Helen sullo skateboard lungo i corridoi della clinica pavimentata da GOING UP THE COUNTRY dei Canned Heat, e Carla Juri che mette ko molte sue colleghe di tutto il globo. David Wnendt non sarà Marcel Proust ma nel tratteggiare e frantumare i caratteri se la cava; non sarà Leo Carax ma il mestiere è nelle sue mani per cui alla fine il film scuote pure i meno giovani e quelli più grandi di loro.  Non so perché: ma la Helen di Carla Juri mi fa ronzare in mente la Valentina Gherardini di Monica Vitti in La notte (1961) di Michelangelo Antonioni. E comunque l’unica pellicola che vi possiamo accostare, per quanto ci riguarda, è Io sono curiosa (Jag är nyfiken , 1967) dittico di Vilgot Sjoman, per il realismo con cui le due protagoniste,  Carla Juri e Lena Nyman, aggrediscono la vita a loro contemporanea.