domenica 8 settembre 2013

Verismo e tragedia in Aspromonte



   La retrospettiva sulla Calabria nel cinema prende avvio, è un dovere, con Patto col diavolo diretto nel 1949 da Luigi Chiarini e scritto da Corrado Alvaro; lo scrittore frequentò per qualche tempo, era il 1935, il Centro Sperimentale di Cinematografia al suo nascere e diretto dal Chiarini stesso. L’opera ebbe la sua prima alla Mostra del Cinema di Venezia di quell’anno.
   La pellicola, qualunque sia il suo valore artistico,  irreperibile, perché i dirigenti del Centro Sperimentale di Cinematografia, della Cineteca Nazionale ed i programmatori dei palinsesti RAI lo snobbano, portò male al regista come allo scrittore.  La critica lo stroncò ed i parlamentari calabresi quanto mai solleciti ne chiesero il sequestro per aver recato
 “ offese all’onore e alla dignità del popolo calabrese “.
   Lo scrittore tentò di ammalgamare il verismo verghiano con la tragedia greca, mentre Luigi Chiarini anticipò, quasi, le ricerche di Ernesto De Martino e Diego Carpitella. L ‘Aspromonte ed i paesi alle sue falde furono cinematografati per come erano allora: indietro nel tempo. Tutto questo lo si intuisce dai pochi documenti scritti e dalle foto di scena reperibili nel web.
   A questo punto mi sorge una proposta: dato che esiste un mezzo gratuito e divulgativo come You Tube, perché i capi del Centro Sperimentale e della Cineteca non editano periodicamente i film in loro possesso, anche per un breve periodo di tempo, come già fa l’Istituto Luce con i suoi documentari. A loro non costa niente digitalizzare le pellicole ed uploadarle nel tubo.

mercoledì 22 maggio 2013

Per una storia del cinema in Calabria


fotogramma del film Terremoto in Calabria del 1905
 Lo sceneggiatore: “ Scusi sa, ma, quella sarebbe una contadina delle Calabrie? “
Il produttore: “ Guarda che  se il pubblico si facesse domande  di questo genere noi ci potremmo anche sparare “
Dialogo tratto da La signora senza camelie di Michelangelo Antonioni del 1953


Tutto cominciò con Spartacus ( 1960 ) di Stanley Kubrick, ma la Calabria in quel tempo era la Puglia di oggi. Del resto il cinema i fratelli Lumière ce lo regalarono alla fine del diciannovesimo secolo. La prima città calabrese che fece da modella, deturpata dal terremoto, fu Reggio nel 1905. Ancora la fiction non esisteva e nemmeno la figura del regista. Le riprese di Terremoto in Calabria furono eseguite da Roberto Omega che lavorava per conto di Filoteo Alberini. Più tardi quando si cominciò ad improvvisare una trama con degli attori che gesticolavano, il tutto era ripreso alla luce del sole con i fondali dipinti a mano, Ernesto Maria  Pasquali, era il 1910,  diresse Eroina calabrese. Ernesto Maria ( anche lo zio Ernesto si chiamava Ernesto Maria ) non immaginava di certo di stare precorrendo i tempi immettendo eroina calabrese sul mercato internazionale, ma la sua non si sniffava o iniettava nelle braccia, si assorbiva con gli occhi – se cercate su Google il film di Ernesto Maria, col solo titolo, vi esce tutt’altro -. Gli spettatori erano come bambini, meravigliati da come la vita veniva riprodotta sotto un profilo artistico; ma ancora il cinema non era considerato arte. La chiesa cattolica osteggiava il cinema considerandolo una pensata del diavolo, una volta tanto Lucifero ebbe una bella pensata; peccato che l’invenzione dei Lumière non abbia preso il suo nome, sarebbe stato più seducente: colui che porta la luce, si preferì il movimento. L’ostracismo della Commissione Episcopale Italiana del resto durò poco. Sorsero gli studios, nacquero i tycoons ed i registi; si chiamavano scrittori di fama a scovare sempre nuovi soggetti; si impose soprattutto il divismo. In epoca di divismo quelli che svilupparono soggetti calabresi furono i Notari che erano di Napoli: Elena ed Elvira nacquero Coda, diventarono Notari quando Elvira sposò Nicola Notari che era un fotografo. Le due sorelle ebbero il merito di precorrere il neorealismo, non era difficile visto che operavano stabilmente a Napoli. Elvira girò nel 1916 Carmela la sartina di Montesanto, ambientato tra la Campania e la Calabria. Elena nel 1924 portò sullo schermo per la prima volta Le geste del brigante Mugolino. Erano film pensati per una platea popolare dove le azioni sceniche di natura melodrammatica sollevavano rumorosamente gli spettatori. Il film su Musolino fu per molto tempo messo al bando in America perché si pensava che gli italoamericani prendessero a modello la vita di Peppe Musolino, portando nuovi adepti alla Mano Nera. A questo punto l’interesse per la Calabria da parte dell’industria cinematografica segna una battuta d’arresto. L’avvento del sonoro, ma soprattutto la presa del potere da parte di Sua Eccellenza  il Capo del Governo Benito Mussolini ( vero brigante di chiara fama mondiale ) sposta l’interesse del cinema verso le grandi città e verso la propaganda. Solo a guerra finita e con la caduta del regime le cineprese ritorneranno in Calabria, ed è da qui che parte il mio escursus sul Bruzio nel cinema. Sarò molto di parte perché lascerò fuori nomi noti a me antipatici per prendere in esame solo quanto mi sta a cuore, a volte con opere che sono state ritenute indegne di fare parte della storia del cinema, ma che al loro apparire ebbero un fascino che solo la nostalgia subentrata con la distanza da quegli anni ingrandisce. La Calabria rispetto all’Isola che le sta di faccia, e che viene dopo, è stata povera di fatti noti come di noti uomini di spettacolo. Solo il paesaggio che accomuna entrambe le regioni, è stato percorso dall’obiettivo cinematografico. Gli accadimenti che attraversarono la Sicilia sono stati, a volte, laceranti e, a volte, si sono ripercossi sul territorio nazionale. Ciò nonostante e soprattutto in questi ultimi tempi la Calabria, rispetto all’Isola, ha apportato un vento fresco dento il cinema nazionale e mi riferisco ai film di Michelangelo Frammartino e di Alice Rohrwacher come con alcuni documentari di Felice D’Agostino e Arturo Lavorato,  questi ultimi soprattutto hanno ripercorso la storia della Calabria a partire dagli anni sessanta del secolo scorso senza rimpianti, sovrapponendo le immagini vecchie, a volte drammatiche, alla realtà di oggi che vede la Calabria sempre più deturpata nel paesaggio come nei suoi abitanti.

lunedì 20 maggio 2013

Bellocchio vs Bertolucci


Marco Bellocchio e Bernardo Bertolucci a Taormina ( polaroid Mittiga)

I film di Marco Bellocchio mi sembrano i soli, con quelli di Bertolucci,  a proporre una doppia lettura di se stessi: come opere ma anche come operazioni. I soli a mettere in relazione concetti come autore, pubblico, popolarità, industria, spettacolo, mercato, cinema italiano.
Enzo Ungari


I quasi adatti

OGGI
AL CINEFORUM PEPPUCCIO TORNATORE
Questo gran bel film di Ingmar ve lo propongo con un commento molto appropriato di Leonardo Persia; io aggiungo solo che l'opera in questione di Bergman, con Crisi ( 1945 ) dello stesso Bergman andrebbe inserita in un gruppo comprendente Gioventù perduta ( 1947) di Pietro Germi, I vinti ( 1952 ) di Michelangelo Antonioni e Rebel without a cause ( Giventù bruciata, 1955 ) di Nicholas Ray, ma anche quale anticipatrice del free cinema inglese.

Hamnstad (Città portuale/Città nella nebbia)
regia di Ingmar Bergman (Svezia/1948)
recensione a cura di Leonardo Persia

Dopo i film acquei per la Sveriges Folkbiografer (Piove sul nostro amore, La terra del desiderio), opere sul viaggio come stato dell’essere, Bergman arriva, per stabilizzarsi, a Città portuale (titolo originale) o Città della nebbia (titolo italiano), che segna il ritorno alla Svensk Filmindustri di Crisi.
Entrambi i titoli della pellicola, su soggetto (romanzo) di Olle Lansberg, esprimono un sentimento liquido persistente, si tratti dell’acqua sospesa e condensata della nebbia oppure della struttura posta sul litorale del porto. La nebbia simbolica è quella afferente alla zona profonda e non del tutto a fuoco della psiche. Patina e oscurità, problemi che continuano a essere insolubili. È lo stato brumoso della coppia di amanti protagonisti del film, Berit e Gösta (Nine-Christine Jonsson e Bengt Eklund), il cui passato oscuro e indelebile, costituisce un (re)iterato motivo di sofferenza.
Ma in Bergman il negativo è positivo, così non solo i due si incontrano per via del tentato suicidio della donna al porto, ma è l’approdo-sfida (piuttosto che la fuga inquieta dei vecchi film) a definire l’opera, punto fermo della coppia proletaria, decisa a non lasciarsi travolgere dal disegno scritto della loro esistenza, fino ad allora viaggio perpetuo nella delusione e nel vuoto. «Se vai per mare vedi tante di quelle cose, ma hai sempre la sensazione che stai perdendo qualcosa». Lo dice Gösta, ma potrebbe essere anche il punto di vista di Bergman su una possibile scelta stilistica del suo cinema.
Il regista ricordava il film come quello in cui ebbe modo di sperimentare e apprendere definitivamente la tecnica, in un momento in cui, dopo tanti esercizi estetici più o meno provvisori, il giovane autore auspicava per sé un risultato stilistico definitivo. La vicenda dei due ragazzi adombra un dato autobiografico traslato, una volontà dei personaggi e del cineasta ancora più scoperto che altrove e forse, proprio per questo, meno ispirato e sincero.
Il dato artificioso si coglie nel soggetto in questione, che riprende, nel tentativo di migliorarla, una narrazione assai simile a quella de La terra del desiderio, l’opera primissima fase di cui, fino a quel momento, Bergman era rimasto maggiormente soddisfatto. Come rifacitura ufficiosa di quell’opera, il lavoro svela per primo il gusto del cineasta per la serializzazione, o per la ripresa di situazioni e personaggi, un work in progress di battute e di contesti, su cui poco si è riflettuto.
L’eccentrico autobiografismo si coglie nell’età del protagonista, più o meno la stessa del regista (classe 1918), che lui urla disperato a una prostituta, dopo aver lasciato Berit: «Lo sai quanti anni ho? Ventinove: non ci si crede, eh? Anch’io non riesco a crederci». In quanto al periodo di tempo passato per mare, Gösta riapproda in città otto anni dopo, un anno in più rispetto al protagonista dell’altra pellicola (venuto pure dall’India). Si vuole alludere probabilmente all’anno intercorso tra questo e il precedente film.
Il conflitto del vecchio personaggio con il papà diventa adesso scontro con la mamma da parte della ragazza di cui si l’uomo si innamora. Entrambi i personaggi schiaffeggiano, rispettivamente, padre o madre, genitori rivali che hanno riservato ai figli l’odio per loro stessi. Vi si coglie il risentimento edipico dell’autore, costante esistenziale e del suo cinema.
Non a caso, la scena più bella è un flashback di Berit da piccola, costretta ad assistere alle liti dei genitori. Si sveglia, li osserva, rimane attonita. Il papà la prende in braccio ma la madre cerca di strappargliela via. I due continuano a darsele, ognuno rivendicando per sé la bambina strattonata e stretta tra i due corpi. Quando la poverina riesce a fuggire e nascondersi sotto il letto, abbracciando una bambola (il rifugio bergmaniano nella finzione), ecco la madre pronta a trascinarla per i piedi, buttandole via il giocattolo e mettendosela in braccio, in una violenta ed egoistica simulazione di affetto, ripicca algida nei confronti del marito.
I maschi, nel film, sono deboli, sfuocati, pavidi e insicuri, privi di spessore e personalità, persino da un punto di vista drammaturgico. Sono pettegoli e vuoti, si consideri l’accoglienza che, da un tavolo da gioco, fanno al protagonista appena sbarcato. Il personaggio più interessante è l’amico incupito e deluso di Gosta, una caverna profonda di frustrazione e di isolamento dal mondo (dall’altro sesso), a cui giova probabilmente il rapido accenno riservatogli dallo script. Mantiene un tono misterioso ed economo, che ne esalta il ritratto. Anche nei film precedenti, soprattutto con le coppie, Bergman si era rivelato un maestro nel tratteggiare psicologie cupe e disperate en passant, quasi sempre più riuscite di quelle dei personaggi principali, evidentemente inficiati da residui letterari manieristici.
Nei tratti di quest’uomo si ravvisa ancora l’ambiguità produttiva dei personaggi negativi bergmaniani. È lui, con le sue contraddizioni, a spingere il protagonista, ancora indeciso, tra le braccia dell’amata («Va sempre tutto a rotoli, è tutto orribile. Sempre e solo egoismo» – «Non c’è nulla che non possa durare?» – «Non chiederlo a me» – «E allora a chi?» – «Idiota! Chiedilo alla tua ragazza. Se hai bisogno di stringere una mano, allora stringi la sua. Nessun altro si offre volontario».)
La centralità del personaggio di Berit attesta una volontà dell’autore di soffermarsi sulle figure femminili La ragazza è la vittima sacrificale di una genitrice dura e bigotta, che la precipita in un calvario di assistenti sociali e case di correzione (a gestione femminile), aggravato dalla presenza di altre virago, madri dei fugaci fidanzati della donna, i maschi mosci di cui sopra. La psiche femminile è perlustrata nelle opposte ma complementari sfumature di vittima e carnefice, di sottomissione e alienazione (le scene al riformatorio, tra fumo e droghe), di durezza indotta e di aridità sentimentale.
L’aspetto simbolico dell’acqua condensata definisce pure questo aspetto di involuzione e non sbocco della personalità, un elemento che meritava un maggiore approfondimento, ma che riesce ad essere persuasivo per l’abilità dell’autore nel tratteggiare rapidamente le figure minime e minori di cui si è detto. Sintetiche e affilate le scene di mistificazione religiosa al correzionale. Ma un personaggio come Gertrud, destinata a morire per un aborto clandestino, è una concessione a un cinema di denuncia che non appartiene al regista.
Deciso a fermarsi in uno stile proprio, ma ancora indeciso su quale debba essere questo stile, Bergman spinge adesso il pedale sul dato sociale mutuato dal neorealismo affermatosi anche fuori dai confini italici. Un Rossellini di superficie è il suo modello. Sperimenta la carta degli esterni e interni autentici, porto e cantieri, fabbriche e balere, una sala cinematografica e le stanze occupate dagli operai. La colata nera che caratterizza la bella fotografia di Gunnar Fischer e il dominio armonico della tecnica non bastano. È il debito con il solito realismo poetico di Marcel Carné, e la sostanziale estraneità all’aspetto sociologico delle cose (vedi pure i successivi La vergogna e L’uovo del serpente) a togliere aria all’opera.
Di certo il regista si trova a un bivio, proprio come i due amanti nel finale di Piove sul nostro amore. Ha raggiunto la “felicità” della propria vocazione e tuttavia ne è spaventato. Si legga in tal senso la battuta di Berit: «Penso che sarebbe stato meglio se non ci fossimo incontrati. Ora che so che cos’è la felicità, la vita non potrà che peggiorare».
Il film va preso quindi come programma d’intenti. Vale come ricapitolazione e per l’idea di approdo che ne è alla base. Segna la fine di un incerto quanto promettente (e non privo di pregio) periodo di prove stilistiche. Il film successivo è quello che sancisce, per la critica e lo stesso regista, la nascita di un autore. Prigione sarà indicato come la sua prima opera davvero personale, il primo compiuto tentativo di costruire un proprio mondo delle idee.
l'originale è qui:


mercoledì 15 maggio 2013

Un maestro per due fratelli

                           Maestro Morricone e i fratelli Tornatore in Paliemmo ( foto Mittiga)

lunedì 13 maggio 2013

domenica 12 maggio 2013

Vittorio Storaro goes to Hollywood

Un film come Il conformista ha toccato profondamente Coppola, che ha sempre riconosciuto di essersene servito quasi come di un modello, di un oracolo addirittura, tanto che lo proiettava ai suoi collaboratori mentre girava Il Padrino. La prima volta che mi chiese di lavorare con lui fu per Il Padrino n. 2, ma rifiutai per una serie di motivi ma soprattutto per l’amicizia che mi lega a Gordon Willis, una delle pochissime persone che dopo aver visto Il Conformista mi mandò un telegramma di complimenti alla Technicolor e che ho sempre trovato straordinario, sicuramente una delle più grandi personalità figurative in America e forse nel mondo. Insomma mi sembrava più giusto che proseguissero insieme il discorso iniziato col primo Padrino. Rividi Coppola brevemente a Parigi una volta che venne a salutare Bernardo sul set di Ultimo Tango, poi a Roma; loro ultimavano Il Padrino n. 2, e noi giravamo nel teatro accanto Le orme, di Luigi Bazzoni. Dopo questi due brevi incontri parlai con Fed Ross, uno dei suoi co-produttori che venne a Roma per propormi Apocalypse Now. Rifiutai di nuovo per lo stesso motivo; intromettendomi tra Coppola e Willis avrei rotto uno di quei “ matrimoni “ artistici dagli eccellenti risultati che caratterizzano certi momenti della storia dello spettacolo. Fu Coppola ad illustrarmi personalmente il tipo particolare di visione di cui aveva bisogno per il suo film, che in effetti non conveniva alle caratteristiche del lavoro di Gordon Willis, tendenzialmente orientato verso un tipo di illuminazione da teatro di posa. Accettai solo dopo averne parlato con Willis stesso, sapendo che comunque lui non l’avrebbe fatto.
Ho avuto carta bianca per tutto ciò che era di mia competenza. Tutta la parte figurativo-fotografica di Apocalypse Now è prettamente italiana. Lavorando con i miei collaboratori mi trovavo nella posizione di responsabile assoluto della resa fotografica del film.

Vittorio Storaro
tratto dalla rivista Cinema e Cinema