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mercoledì 22 aprile 2020

QUESTO E’ CINEMA QUESTO NON E’ CINEMA - "Il taglio"


Ma oggi sono certamente gli americani, i quali tendono alla massima immobilità (possibile) dell'inquadratura o della "camera”. Una rivista tecnica di Boston segnava in proposito i nomi di Preston Sturges (SuIlivan's Travels: «I dimenticati »), di Huston (In This Our Life: “In questa nostra vita”), di Dmytryk (Crossfire: “Odio implacabile”), di Wilder (The Lost Weekend : “Giomi perduti”), di Hathaway (Kiss of Death: “Il bacio della morte “), e sovrattutto di Wyler (The Best Years of Our Lives: “I migliori anni della nostra vita”). L'affermazione di Hitchcock: “Io opero il taglio solo quando non ne posso fare a meno”, pare venga da lui concepita esclusivamente come un metodo piú sbrigativo di lavorazione. Assai piú pertinente ci appare invece l'esempio di Wyler nel film citato, sebbene la successione dei piani che egli raggiunge con i lunghi fuochi davanti la "camera" ferma (relativamente), appare ancora un fatto puramente fisico: come se il regista avesse fatto un buco nel sipario, per presentarci la scena non piú secondo carattere murale (a due dimensioni) della pittura, ma secondo quello prospettico creato dal palcoscenico. Però, siccome tra i vari piani manca ogni contrasto di valori fotogenici, non si può dire ancora che lo spirito partecipi a questa mera profondità fisica realizzata dai portentosi obiettivi di Toland. Di un cinema d'immobilità fondato invece piú sull'esame psicologico di una situazione statica, che su proprie ricerche tecniche, ci offre l'esempio il magistrale film del regista sovietico Ernler, La grande svolta, nelle molte scene intercalate all'azione, che presentano l'anti camera della sala in cui i tre generali discutono la situazione e dove tutta la battaglia appare concentrata nell'attesa di questa decisione, mentre fuori il piantone si intrattiene con l'autista, in una delle solite ingenue e banali conversazioni degli umili soldati. In queste scene i movimenti di macchina sono quanto mai rari, e lo "specifico filmico" appare ridotto al suo impiego piú elementare: eppur l'effetto di esse, può essere paragonato solo a quello di certe indimenticabili pagine di Guerra e pace. Infine occorre aggiungere che il "record" dell'immobilità è raggiunto da Orson Welles in The Magnificent Ambersons, nella famosa scena in cucina che dura, a "camera" immobile, circa dieci minuti.
Il taglio "classico", noi lo sappiamo, è fondato prevalentemente sul cambiamento dei piani. Ma questo, dice Bazin, è una soperchieria essenziale basata sulla convenzione di presentarci una successione di piccoli frammenti chiamati piani, di cui la scelta, l'ordine e la durata costituiscono appunto il montaggio classico. Ma dal momento in cui Gregg Toland ha utilizzato gli obiettivi di grande angolazione, dimostrandosi capace di manovrare una immagine dislocata su uno spazio di 20 metri di larghezza su 30 metri di lunghezza, con una profondità complessa di piani ed i vari attori disposti sul diversi piani, egli ha inventato di nuovo il palcoscenico. Allora i soffitti sono divenuti indispensabili. Questa apparizione di soffitti, in certe scene di Citizen Kane e di The Best Years of Our Lives, è il segno esteriore di una vera rivoluzione nella tecnica del cinema perché così il partito preso teatrale di Wells ci appare una realtà cinematografica capace anche di vincere il suo modello, per creare un teatro adatto alla scala dei mezzi dello spettatore moderno, il quale è anche spettatore di cinema. Viene così potenziata la concezione stessa del teatro classico come universo chiuso. Questo superstite desiderio del movimento ad ogni costo, scrive Bazin, è la vera deficienza di un film come Hamlet, perché Olivier non ha avuto il coraggio di farci direttamente ammettere il teatro sullo schermo. Il cinema, egli scrive, non ha esistenza autonoma. Esso non si aggiunge al teatro come zucchero al caffè, perché il cinema non è che la migliore maniera di dire qualcosa sullo schermo. Olivier è stato invece ossessionato dalla preoccupazione di fare cinema. La sua "camera" ha cioè avuto paura di restare immobile, e starsene fermo a guardare ciò che davanti ad esso si svolge, invece di tirarsi dietro le carrellate come code di cometa o di parafrasare il testo con lunghe panoramiche. Il solito guaio del cinema è piuttosto sempre lo stesso e cioè che, se oggi noi abbiamo anche il teatro sullo schermo, non abbiamo ancora Shakespeare. Io però avrei voluto che Bazin, col suo acume abituale, avesse fatto ancora un passo avanti nella sua coraggiosa descrizione. In fondo egli sembra temere il ritorno al piano fisso di Méliès, di Zecca o di Fuillade. Volesse il cielo, tomo a ripetere, che in questo piano fisso noi avessimo uno Shakespeare capace di condensarvi inauditamente tutto il dramma di Macbeth! Ma io non temo neanche queste barriere che si vogliono porre all`impiego del piano fisso assoluto, costituito dall'immobilità della "camera" ed immobilità
del piano. Consultando i testi dei maestri primitivi, noi ci accorgiamo che è appunto questa permanenza dell'immagine che dà a tutte le presenze un'impronta calda d'intimità, che impone il rispetto delle cose e degli uomini, in queste prime rozze farse morali, le quali illustrano ingenuamente la fede della bimba che fa riappaciare i genitori manchevoli, o il cane di S. Bernardo che rintraccia il viandante sperduto sulla neve e dove il "genitivo possessivo" proprio di quel primo discorso cinematografico, assume un incanto pieno di esemplare poesia: per cui il martello è proprio il martello del bravo falegname, e l'incudine è proprio l'incudine del maniscalco, e lo schioppo è proprio lo schioppo del bravo bracconiere. In altri termini in queste prime manifestazioni delle scuole italiane e francesi, nel periodo 1896-1908 le cose sollecitano, proprio come dice Bazin, la nostra attenzione senza che alcun movimento di apparecchio ne attenui la presenza in modo che la fissità del quadro restituisce agli oggetti la loro densità di essere e il semplice peso della loro presenza.
Con questo noi non abbiamo alcuna intenzione di proclamare un ritorno della tecnica a prima di Griffith: vogliamo solo dire che l'artista è libero di rifiutarsi a tutte le leggi, comprese quelle del "vero" cinema.
ROBERTO PAOLELLA
CINEMA quindicinale di divulgazione cinematografica  Anno III – Dicembre 1950

In apertura, SuIlivan's Travels (I dimenticati) di Preston Sturges del 1941.


lunedì 20 aprile 2020

QUESTO E’ CINEMA QUESTO NON E’ CINEMA



NEL suo saggio su Welles. Jean Cocteau fa coraggiosamente merito al 'autore di aver voluto conservare al Macbeth, il suo stile teatrale cercando di mostrare che il cinema è persino capace di disprezzare anche quello che si immagina debba essere il proprio ritmo cinematografico. « Cinema», dice Cocteau, «è un'abbreviazione, che io riprovo a causa di ciò che rappresenta. A Venezia, noi sentimmo ripetere questo "leit-motiv" assurdo: E' cinema questo oppure questo non è cinema? E allora Welles  ed io rispondevamo che sarebbe bello apprendere ciò che è un film-cinema, lieti di possedere la ricetta per metterla in pratica». Bisogna riconoscere che il preteso problema dei rapporti tra cinema e teatro non poteva essere piú lucidamente impostato. Per una curiosa coincidenza, una recente inchiesta di Les Nouvelles littéraires, nel constatare quanto siano arbitrarie le frontiere della specializzazione, reca proprio l'esempio di Cocteau, affermando che quando questi suddivide la sua opera in poesia di teatro, poesia di romanzo, poesia di cinema, egli non fa che affermare la comune filiazione di questi generi arbitrari, la quale coincide col desiderio di esprimersi in cui propriamente consistono l'orgoglio e l'onore degli uomini. Il numero di sequenze sul letterato e il cinema, mi offre l’occasione di riprendere, quanto prima, il discorso a  proposito dei rapporti tra il romanzo e lo schermo, scegliendo all'uopo il romanzo di un moderno scrittore, Guglielmo Petroni - La vita è una prigione - ove per converso appare evidente la assimilazione, da parte dell'arte narrativa, della stessa tecnica del racconto cinematografico. La verità è che l'estetica dello "specifico filmica" appare sempre più sorpassata e perciò, mantenere fermi certi postulati, «significa considerare il progresso della tecnica come un ostacolo e non ammettere la possibilità d'un ulteriore sviluppo di essa». Il che vale a fare ancora di più sentire la necessità di una revisione dell'attuale indagine critica, a proposito della quale Guido Aristarco non ha mai abbastanza il merito di insistere.
Premesse dunque queste considerazioni (sulle quali non sarebbe neanche il caso di soffermarsi se la giovinezza della esperienza cinematografica, non rimettesse di continuo in discussione problemi, già risoluti sul piano delle altre arti), io non riesco a capire perché un artista non possa fare del teatro sullo schermo, servendosi della "camera", secondo la cruda espressione di Marcel Pagnol, come d'una macchina tipografica, per stampare parecchie edizioni della rappresentazione originale. Perché quello che interessa è il risultato e cioè il vedere, se questo teatro in scatola, è o no opera d'arte. Ho citato l'esempio di Shakespeare, ma questa volta voglio approfondirlo a dovere. Poniamo, io dico, il caso che un giorno si faccia annunciare agli studi di Londra, Roma o Hollywood un personaggio, il quale dichiari di essere Guglielmo Shakespeare, tornato sulla terra per una speciale concessione divina, allo scopo di metter su una tragedia, ch'egli avrebbe certamente composta in versi, se la morte gliene avesse lasciato il tempo. Poniamo ora il caso che un produttore bene intenzionato come ha detto di essere, su queste colonne, il signor Filippo Del Giudice, conceda a Shakespeare, un teatro ancora caldo del fuoco dei proiettori e che Shakespeare, ignaro di tutte le leggi del vero cinema, faccia semplicemente registrare, con la "camera" immobile e inquadratura fissa, la rappresentazione teatrale. Io domando cosa faremo se, dopo che Shakespeare, sarà tomato in paradiso, noi dobbiamo constatare di trovarci di fronte ad un altro capolavoro del genio di Strafford: diremo che esso non è tale, perché non rispetta le leggi del vero cinema, o riterremo che la sua opera supera abbastanza tutti gli Oscar, le coppe e i primi premi di Venezia?
Questa è ancora una dimostrazione per assurdo. Noi però sosteniamo che a risultati non diversi si può giungere se si prende in esame il lato strettamente cinematografico della questione. «Questo è cinema, questo non è cinema», sentenziano ad ogni passo molti critici. Ed allora sorge naturale il desiderio di Cocteau di appurare cosa sia un film veramente cinematografico. Conosciamo la risposta: il cinema è arte di movimento, inteso naturalmente il movimento come "movimento ornato", secondo una vecchia definizione di Béla Balázs e cioè come composizione danzante, ovvero come movimento associativo (montaggio). E allora noi rispondiamo che tutto questo sta assai bene scritto, ma che contro il cinema arte di movimento, Chaplin aveva già obiettato che forse il vero segreto di un'arte consiste proprio nel porsi al polo opposto della sua apparente vocazione e c e quella del cinema potrebbe risiedere altrove che nel movimento. Anche Delluc aveva intuito questa posizione (pretesa) anticinematografica che può assumere il vero cinema, proclamando contro quella ch'egli chiamava la "estetica Westem", e cioè del movimento a tutti i costi, che i registi di avanguardia volevano applicare, ovunque e per ogni dove, la possibilità di un cinema di "immobilità". E come il meglio dell'emozione musicale, egli dice può esser racchiuso nelle pause dì silenzio, il meglio del cinema può consistere nella fissità e nel riposo dal movimento. Certamente noi siamo convinti che, di fronte all'indipendenza dell'opera d'arte, questo schema del cinema d'immobilità vale l'altro del cinema arte di movimento, e che entrambi sono inutili di fronte alla libertà dell'artista. Ma ciò non toglie che anche la teorica del cinema d' immobilità, possa essere valida (pertinente ai fini di classificare le tendenze degli artisti. E allora e sulla base di certe recenti esperienze non si può negare alla "camera" il suo diritto alla immobilità, abbattendo la principale frontiera che la separa dal teatro. Ricerche in tale senso sono state effettuate da von Stroheim e da Dreyer, e previste letteralmente, forse prima di ogni altro, da Jean Renoir, il quale sin dal 1925 aveva pensato che invece di far muovere continuamente la "camera", era il caso di svolgere la messa in scena, in profondità, allo scopo di dislocare i personaggi, contemporaneamente, su diversi piani, avanti l’apparecchio di ripresa immobile. (continua)
ROBERTO PAOLELLA
CINEMA quindicinale di divulgazione cinematografica  Anno III – Dicembre 1950





mercoledì 26 febbraio 2020

C'era una volta la presentazione


Contro le presentazioni

Dalle colonne del “Lavoro Fascista” ed al microfono della radio ho iniziato una crociata per l'abolizione delle presentazioni. Voglio ora rivolgermi al pubblico appassionato di cinematografo dei lettori di “Film” per esporre le ragioni artistiche e pratiche che militano a favore di questa abolizione, o quanto meno di radicale trasformazione.
Ragioni artistiche. La dignità di uno spettacolo cinematografico è gravemente offesa dall’intrusione di queste brevi antologie del film futuro, redatte in forma di miscellanea caotica, con frammenti di scene senza nesso che non danno affatto l’idea del contenuto reale delle intenzioni, del valore del film. Inoltre il produttore, nell’illusione di far colpo sul pubblico, condisce questa insalata, con delle didascalie apologetiche che potrebbero servire ad esaltare il lucido da scarpe sugli affissi delle cantonate “Il più brillante prodotto dell’annata” “due ore di continuata ilarità” “Il vertice dell’emozione e della passione” e avanti su questo tono. Tutto ciò degrada Io spettacolo.
Ragioni pratiche. Tali “presentazioni” sono assolutamente negative come richiamo pubblicitario. Il pubblico non abbocca alle qualifiche mirabolanti e non è affatto solleticato dai frammenti proiettati. Chiunque assiste a tali presentazioni ascolta, dai vicini, esclamazioni ironiche che assicurano dell’effetto sconcertante ed allontanante della miscellanea comparsa sullo schermo. A questo si aggiunga che l'inclusione degli interessantissimi corti metraggi, resa recentemente obbligatoria, suggerisce la necessità di alleggerire il programma. Ora le “presentazioni” normalmente sono due invece di una ed hanno assunto un metraggio il cui ingombro nell’economia generale, è più che evidente. Interpellati, i produttori sono stati lieti di adeire all'abolizione di una simile spesa inutile.
Rimangono gli esercenti i quali ritengono che tali presentazioni giovino a richiamare l'attenzione sui prossimi spettacoli. Per aderire a tale loro desiderio si potrebbero ridurre le “presentazioni” a un semplice annuncio tipografico contenente il titolo del film futuro, il nome del regista e quello dei suoi interpreti. Se quest'annuncio puramente tipografico è poco visivo si può anche consentire che venga riprodotta l’immagine degli interpreti principali. Comunque, dovrebbe essere tassativamente proibito:
1 – che tali presentazioni oltrepassassero la misura di 50 metri;
2 – che se ne proiettasse più di una per spettacolo.
Credo che l’opportunità di questa riforma sia oramai entrata nella convinzione dei dirigenti la nostra cinematografia e mi auguro tanto cha essa, venga al più presto applicata.
Alessandro De Stefani

Caro De Stefani, vorrei aggiungere una cosa. E perché non si dovrebbe abolire anche la parola “presentazione” che deriva dal “present” americano? Perché un film –  che è dopo tutto uno spettacolo -
deve venire “presentato” dalla tal casa, mentre gli altri spettacolo vengono “rappresentati” (da rappresentare, rappresentazione)? Quel “presenta” non da un po’ fastidio? Mi fa temere – quando lo vedo – che di li a poco, la distribuzione degli attori (“cast”) sarà chiamata “casto”. Che ne dici?
 D.

 film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V - N. 7  14 FEBBRAIO 1942 XX

Presentazione, rappresentazione, prossimamente qui, infine vinse il trailer che soccombette al coming soon!
Scaletta foto: 1  Clara Calamai e Vittorio de Sica ne La guardia del corpo  (Prod. Inac, Distr. Titanus) - 2 Ilsa Werner nel film Ufa Arditi dell’oceano  (Distr. Enic) - 3 Alida Valli e Carlo Ninchi in Catene invisibili prodotto dall’Italcine e distribuito dall’Ici. (Fotografie Bragaglia, Ufa e Vaselli)

giovedì 17 ottobre 2019

Un leone a Culver City


IL LEONE RUGGENTE HA TRENT'ANNI
I FILISTEI DI CULVER CITY
HANNO I LORO QUARTI DI NOBILTA'
di Fausto Montesanti

La Metro-Goldwyn-Mayer, della cui fondazione ricorre Quest'anno il trentesimo anniversario, può essere considerata ancor oggi uno dei pilastri fondamentali dell'industria cinematografica degli Stati Uniti d'America: la sua storia, inoltre, che si inserisce nella storia del cinema americano in un periodo particolare, può spesso apparirne anzitutto come una delle più tipiche manifestazioni, mentre la sua produzione può
in certi momenti assumere in pratica un ruolo determinante e quasi d'avanguardia nei confronti della evoluzione della produzione hollywoodiana, tanto da tradursi - a distanza di anni - in una funzione simbolicamente indicativa, sia nei suoi aspetti positivi come - e forse più ancora - in quelli negativi.
Nel vasto e multiforme panorama offerto dal pittoresco e avventuroso passato del cinema americano, la sigla della M. G. M. si colloca infatti, - a partire da un certo momento - con uno spicco di indiscutibile risonanza: il marchio del leone ruggente (creazione di Howard Dietz, oggi vice-presidente della "Loew’s Inc." e incaricato della organizzazione della pubblicità), si è ad esempio identificato, per lunghi
anni, nel prestigio artistico dei film di Vidor - da La grande parata ad Hallelujah! - e di Siostrom - da La lettera rossa a Il ventoe soprattutto in quello - più caro al grosso pubblico - di certi nomi, fra i più rappresentativi dello "Star System": dalla Garbo e Clark Gable, dalla Crawford a Spencer Tracy, da Jean Harlow a William Powell, da Laurel & Hardy ai Marx Brothers, da Lana Turner a Robert Taylor, da Ava Gardner a Gene Kelly, per citare solo i primi che il ricordo suggerisce.
Per tale complesso di motivi, prendendo lo spunto dalla storica ricorrenza, e seguendo l'esempio di alcune fra le più autorevoli pubblicazioni estere (dall'americano Films in Review all'inglese Sight and Sound, che in tale occasione hanno dedicato all'argomento numerose pagine), abbiamo creduto interessante e per certi aspetti curioso raccogliere una serie di immagini attraverso le quali sia agevole, anche ai più giovani fra i tettori, ricostruire in maniera il più possibile esauriente l'evoluzione tecnico-artistica da una parte, e industriale dall'altra, di una casa le cui vicende costituiscono - specie a cavallo fra il muto e il sonoro - uno fra i più significativi capitoli della storia del film negli Stati Uniti d'America e che comunque fornisce sempre - anche con quei film giudicati minori in senso assoluto - un apporto considerevole a una storia del cinema concepita sul piano del costume. (CONTINUA)
CINEMA QUINDICINALE DI DIVULGAZIONE CINEMATOGRAFICA ANNO VII - 1954 10 NOVEMBRE 

domenica 10 marzo 2019

Unforgiven & others


How Unforgiven laid the classic movie western to rest

Clint Eastwood’s gritty 1992 film dispelled many of the myths which he helped to popularise.
Ever since John Ford admitted to printing the legend in his 1962 masterpiece, The Man Who Shot Liberty Valance, the traditional mythology of the Old West has undergone an extensive series of cinematic reappraisals. From The Wild Bunch to Heaven’s Gate, gritty revisionist westerns and so-called ‘anti-westerns’ have sought to counteract the romantic misrepresentations of violence, history and heroism perpetuated by the genre’s talented mythmakers in an effort to bring audiences an undiluted dose of the ‘real’ Wild West.
As the effortlessly cool protagonist of Sergio Leone’s seminal Dollars Trilogy, Clint Eastwood once helped usher in a new wave of westerns that would dispel some of the falsehoods of the John Ford era while popularising plenty of fresh ones. As the director and star of Unforgiven, he provided the final word on half a century’s worth of horse-mounted do-gooders and lone wolf gunmen. Neither the most disparaging nor most realistic of the various cinematic responses to the genre’s creaky archetypes, it is nonetheless gratifyingly direct and psychologically astute, stripping the gloss and pretence from the old tropes to reveal their raw, bloody origins in both American history and the modern day moviegoer’s own escapist needs.
Like the Leone westerns before it, Unforgiven takes place in a dangerous world full of rugged sons of bitches, killing each other for money, pride or in the name of vengeance. The key difference lies in our response to the brutality on display. Whenever Eastwood’s legendary Man with No Name dispensed justice, the questionable nature of his acts was rendered moot by the fact that his adversaries were always depicted as being more unambiguously wicked than him. In Unforgiven, when Eastwood’s retired bandit William Munny is hired to kill two men who cut up a prostitute’s face, their capital punishment is carried out in entirely joyless fashion.
At the same time, David Webb Peoples’ script is saturated with unnerving reminders of Munny’s own horrific, booze-fuelled track record. In a land where cocky gunslingers fraudulently brag about past murders (which either happened not as reported or not at all), Munny is the only one to actively downplay his own body count out of a sense of remorse for what he’s done – and fear of what he might yet do.
Of course, even in the era of Leone any suggestion of moral righteousness was mere window dressing to the real reason for watching these films. When stylish works like A Fistful of Dollars dragged the western into meaner terrain, the genre wasn’t de-romanticised so much as it was given a fresh shot of testosterone. This was a rougher wild west than the one John Wayne had inhabited, and so the heroes (and by extension the viewer) had to be even tougher in order to thrive in it. Unforgiven short circuits this arrangement by turning the implicit into the explicit – namely, that what this really all comes down to is men and their dicks.
When those men set the film’s grim events in motion by mutilating Delilah Fitzgerald (Anna Levine), they do so as a furious response to Fitzgerald giggling at her client’s “teensy little pecker”. By contrast, local sheriff Little Bill Daggett (Gene Hackman) tells the story of ‘Two-Gun Corcoran’, who earned his name from the pistol he held in his hand and the considerably larger weapon stored in his pants, recalling how bounty hunter English Bob killed Corcoran in a drunken act of jealousy. Combine these obvious phallic references with images of Munny struggling to mount his horse or his gun failing to fire, and suddenly his mission to avenge the damsel in distress doesn’t seem so dignified.
Sheriff Daggett, meanwhile, sees right through the performances of these arrogant, self-styled killers and conmen – yet he too is a striking subversion of a timeworn archetype. His ruthless response to the crimes of Munny and his contemporaries positions him as the primary antagonist of the piece, but it’s not hard to imagine Daggett being the hero of this story in the same vein as John Wayne, Henry Fonda and Gary Cooper. Like Marshal Will Kane in High Noon and Wyatt Earp in My Darling Clementine, Daggett is a steadfast, arguably well-intentioned proponent of law and order.
Nonetheless, his vindictive side emerges once trouble comes to his town, mirroring the violent sense of justice enforced by the very outlaws he beats to a pulp. While Daggett’s final line, “I’ll see you in hell, William Munny,” may read like a typical tough guy kiss-off, in the context of the graceless, primeval omnishambles that results from one woman laughing at a man’s dick, his words become a chilling admission.
In the 25 years since Unforgiven’s release, the western has thrived as an arthouse genre that continues to probe the themes explored by Eastwood’s film and other revisionist forebears – be it in issues of masculinity (Meek’s Cutoff) or mythmaking (The Assassination of Jesse James by the Coward Robert Ford) – with even the most crowd-pleasing and action-centric of recent entries tending to contain some element of critique. It seems that any attempt to rejuvenate the screen outlaws and lawmen of yore now comes with a twinge of guilt. As for Eastwood himself, Unforgiven was perhaps the statement he needed to make in order to step away from the genre once and for all.
9 AUG 2017

L'originale è qui:

giovedì 24 gennaio 2019

“una volta”, “one time”


How Once Upon a Time in the West
reflects the social anxiety of 1968

Sergio Leone’s landmark western, which turns 50 this year,
is a fascinating product of its time.

Earlier this year The Atlantic launched a series of articles entitled 1968 and the making of Modern America“. The aim of its writers is to identify that year as “a momentous year in American history,” and to make a case for 1968 being the starting point of the contemporary society in which we live today.
Such demarcation is of course largely arbitrary, but it’s true that exactly half a century ago the Western world – not just America – appeared to be on the cusp of a sea change. Workers’ strikes and student protests in cities from Paris to Prague, the emboldening of civil rights and feminist movements, and general anomie and disillusionment among the younger generations saw the emergence of a liberal countercultural force bringing with them sense that the old, mainly capitalist, status quo was on its way out.
It was during this year that Sergio Leone was making Once Upon a Time in the West. To what extent the director was explicitly influenced by this period sociopolitical upheaval is a matter of speculation, but the film is undoubtedly a product of its time. The original Italian title of this sweeping epic, C’era una volta il West, gives us a sense of what the film’s main concern is – “una volta” may literally mean “one time”, but a “volta”, especially in the context of writing or music, specifically refers to a “turning point”. In short, it is a film about change. And what Leone presents us with is a tale in which the past makes way for “modernity”.
Set in the Arizona desert of the 19th century, the plot revolves around the construction of a railway track being built across the plains to the pacific coast by transport mogul Mr Morton (Gabriele Ferzetti). Working for him is Frank (Henry Fonda), a sparkling-eyed killer who terrorises everyone opposed to his industrialist boss’ expansionist aims. In one scene transition the smoke from Frank’s freshly fired gun turns into the smoke billowing from atop a train – a visual metaphor used by the famously Marxist Leone to suggest that unbridled capitalist greed is tantamount to murder.
Resistance to these bygone, violent means of achieving ostensible progress comes in the form of Jill (Claudia Carindale). A one-time prostitute from New Orleans she arrives in Arizona to find that her husband (and his children) has been murdered by Frank for his valuable land. And while it may be a little revisionist to call her a feminist character, she is an unwaveringly strong figure, uncowed by bravado and intimidation. She symbolises a beautiful, civilised future in the middle of a dying, arid men’s world.
The decay of an old guard is as much part of the theme of change as the emergence of a new one. Leone’s film is shrouded by death, both actual and conceptual. The men from Frank, to Charles Bronson’s nameless, leather-faced, harmonica-playing gunman with a score to settle, and Jason Robards’ loveable rogue, Cheyenne, are all, as the former says near the end, part of “an ancient race”. A race populated by heroes and villains where each knows his role. They are all out on a last-hurrah here.
Frank knows that his attempt to take over Morton’s empire is insincere: he is an outlaw, not a modern businessman. Bronson, playing a mournful tune everywhere he goes knows that once he gets the revenge he craves he’ll have no place in the world. He and Fonda brandish self-aware smirks throughout the film; they are two men with nothing to lose, united by their impending irrelevance.
Once Upon a Time in the West was also a farewell of sorts from Leone to the genre by which he made his name (though he made one more western, Duck, You Sucker in 1971). By including numerous direct pastiches of classics from High Noon (the slow burning introduction sees three men waiting for a train) to The Last Sunset (the final duel), Leone suggests that the western has reached its apex. Like its characters, the genre, with its reliance on hyper-masculine characters, well-trodden conventions and histrionic levels of tension, didn’t have a place in the future of cinema in its current format.
But what better eulogy for the western could one imagine? Leone may have indulged the odd cliche – the spooked crickets foreshadowing danger, the creaking weather vane – but few can rival his mastery of the interplay of sound and silence, of inertia and crescendos of action, of humour and dread, of sweeping vistas and claustrophobic close-ups, all present in the astonishing opening scene alone. He also brings out some career-best performances from his all-star cast, especially from Henry Fonda, who despite having been one of Hollywood’s bankable heroes, is transformed so convincingly into one of cinema’s most truly malevolent figures. Elsewhere, Ennio Morricone’s haunting harmonica and guitar led score is a piece of art of its own accord.
Leone may have foreseen the end of the appeal of the western, but 50 years on, Once Upon a Time in the West still feels relevant. Maybe that’s because the world hasn’t really moved on from where it was in 1968. Despite obvious technological advancements we’re still in an age where we’re trying to enact real social progress and break down outdated practices, policies and beliefs. Watching Leone’s film today galvanises our belief that we’re on the cusp of change, but it also reminds us that we’ve been here for half a century.
DAN EINAV
PUBLISHED 11 MAR 2018
L’originale e’ qui:


martedì 15 gennaio 2019

Master Bernardo in Polaroid



Bernardo Bertolucci
1941 - 2018
in Taormina



mercoledì 12 dicembre 2018

The script and The western


Lo script è sempre stato la forza del cinema americano ... Era il segreto di Hollywood. In California dove officiavano i più brillanti registi, era la story a contare. Il cinema americano è cinematurgico, è un'arte di costruttori di personaggi, di rapporti, di racconti, un'arte della pellicola e della carta (di azione e di riflessione). Un'arte del dialogo anche, dove la parola rinvia meno ad un conflitto interlocutorio quanto al gesto sostenuto o smentito, all'azione progettata o finta. Ossia un lavoro scrupoloso a livello di soggetto, un impegno austero a non sacrificare nulla nella ricerca di una verità di storia e di land, nella fedeltà ai fatti.
Roger Tailleur, Le western,1966-1969

martedì 20 marzo 2018

Close shot, close up

Maria Falconetti vs Charles Bronson





The film that redefined the close-up is Dreyer’s The Passion of Joan of Arc . The master of the close-up in our time, or my time at least, is Sergio Leone—witness the famous opening to Once Upon a Time in the West (68), in which he creates drama through tight close-ups. Talk about a silent movie. No music, no dialogue, but great sound effects.
Paul Schrader, Film Comment Sept-Oct. 2014

venerdì 6 ottobre 2017

L'industria del Western

Il modo in cui si confeziona un Western, merita un po’ di attenzione perché spiega le ragioni della puerilità di molti film che la critica, giustamente, non risparmia. Il principio base che guida la confezione di questo prodotto industriale può essere così riassunto: fabbricare a buon mercato un prodotto di sicuro guadagno. Nel paese della standardizzazione, del taylorismo, della estrema suddivisione del lavoro specializzato, l’industria cinematografica non poteva rimanere estranea a questi concetti.
Il film americano, prodotto con sistemi industriali, è il risultato di varie specializzazioni sicché la fabbricazione di un Western Z non dififferisce molto da quella di un'automobile nelle ofifficine di Cleveland o di Detroit.
Sull'esempio del colonnello Selig e di Griffith, le “ horse opera  - definizione professionale di questo tipo di film - vengono girate alla periferia di Hollywood: il luogo preferito, Owens Valley (1) offre i più disparati paesaggi raccolti in brevissimo spazio, le montagne antiche e quelle più giovani di questa regione, possono raffigurare, secondo le necessita dei registi, gli altipiani del Tibet, il deserto dell'Australia, o le steppe russe. Un numero indefinibile di film, e non solo Western, furono girati in questo posto.
Ma i Western sono senza dubbio la maggioranza. In questi casi il costo delle trasferte, estremamente ridotto, non pesa sul preventivo e se, inoltre, si evitano le innovazioni costose, il prezzo di costo di un Western è necessariamente basso. Altro luogo molto sfruttato è il ranch Iverson, vicino a Los Angeles, che afitta alle diverse Case specializzate una zona ben delimitata del suo territorio; il villaggio speciale che ogni studio di Hollywodd possiede, fu smontato e trasportato su questo terreno perché Rio Grande Raiders avesse il su sfondo indispensabile. Sotto questo punto di vista è preferibile trasferire la troupe a Owens Valley dove si trovano ancora dei villaggi di minatori abbandonati, con i saloon e i marciapiedi di legno che abbiamo visto in Yellow Sky.
Owens Valley e Iverson Ranch debbono oggi premunirsi contro la concorrenza pericolosa derivante dalla creazione nell'Utah di una “ città del Western “: Kanab, scoperta nel 1934 dai registi di Western in serie, attirò l’attenzione dei maestri del (( genere )) per la sua notevole organizzazione. Vi furono girate alcune (< big productions ›) che sono rimaste famose nella storia del Western, per esempio Stagecoaoh. La ricchezza di Ka- nab, vera madre della “ horse opera”, non deriva dal paesaggio, poco differente da quello di Owens Valley (il quale, a sua volta, si trova riprodotto a decine di esemplari, nelle Montagne Rocciose). Kanab, frutto di una organizzazione razionale e metodica, offre al regista tutto ciò che gli serve, essendo questa città, di qualche migliaio di abitanti, un vasto magazzino di generi Western. Con 10 dollari al giorno il regista potrà affittare un «autentico» carro Conestoga; potrà inoltre avere a sua disposizione settecento cavalli selvaggi, non meno autentici, per le scene di panico (la polvere viene affittata senza alcun supplemento, insieme al terreno). Oltre a questi elementi ingombranti e turbolenti, egli potrà arricchire la sua scena di piccoli effetti di forte colore locale affittando in loco serpenti a sonagli che un qualsiasi trovarobe gli offrirà a dozzine. Inutile portarsi dietro le comparse perché la quasi totalità della popolazione di Kanab fa questo mestiere; infatti quando il periodo in cui si girano i film si avvicina (dal 15 maggio al 15 ottobre), gli abitanti cessano ogni altra attività e si mettono a disposizione delle agenzie di collocamento. Abbandonate le loro botteghe si trasformano in fuori legge, in cow boy, in pionieri, in sudisti o nordisti.
Durante questo periodo gli uomini si lasciano volentieri crescere la barba e i baffi per i quali chiedono però un premio supplementare. Questo materiale umano è completato da un lotto di Indiani Navajos senza i quali non può essere fatto un vero Western (2).
Kanab compensa dunque con la sua organizzazione la lontananza da Hollywood, ma la o altrove i procedimenti produttivi rimangono gli stessi. Scelto il luogo e la storia - una scelta facilitata dal fatto di essere limitata a cinque tipi: fattorie ipotecate, diritti su una proprietà, assalto alla diligenza, furto di bestiame, uomini politici senza scrupoli --, al regista inviato per esempio a Owens Valley, non rimane che portare sul posto gli interpreti principali (due al massimo), trenta o quaranta comparse, i cavalli, i carri, le macchine da presa e gli apparecchi per la registrazione sonora. Tutto questo personale specializzato attende istruzioni: il leading man (l”eroe) e la leading lady (l’eroina) si fanno spiegare ogni scena, la qual cosa non richiede molto tempo; il regista si raccomanda all’attrezzista affinché ai revolver dei banditi non manchino le cartucce. Egli dirà a questi quando debbono sparare, su chi e dove debbono cadere le rispettive vittime, mentre l’aiuto regista tiene esatto conto del materiale da sacrificare nelle scene di tafferuglio (bottiglie, tavoli e sedie di compensato).
Si lavora dalle 6 alle 12 ore al giorno. Solo le scene indispensabili, quelle cioè in cui appaiono l’eroe e l’eroina, saranno oggetto di un lavoro minuzioso mentre le sparatorie, le galoppate, i combattimenti «anonimi » e stereotipati saranno presi nella cineteca specializzata (3) dello Studio. Il montaggio darà poi al film la sua unita camuffando i trucchi; d’altra parte i «fans» , di bocca buona, non se la prendono per uno sbaglio di montaggio né per un salto di luce nella fotografia. Film come Texas Renegades o I giustizieri del Far West quando escono dagli stabilimenti hanno assicurata una trionfale carriera negli Stati del Sud e del Sud Ovest per i quali sono stati espressamente confezionati ; il guaio è che, sospinti da non si sa quale vento, arrivano anche sui nostri schermi... L’Ovest quello dei veri cow boy, ama effettivamente rivivere storie del vecchio tempo, ma questa predilezione è affiancata dalla più severa delle censure. Perché il Western del sabato pomeriggio deve rispettare le tradizioni. I devoti di questo genere non permettono che la trama dei film che adorano siano modificate alla leggera.
La ragion d'essere del Western << ordinario ›> (in serie) è centrata sull'eroe di cui ogni film racconta una avventura. L'attore William Boyd, il più popolare di tutti, è Hopalong Cassidy ; Clayton Moore è «The Lone Ranger»  (il cow boy solitario); Charles Starret: Durango Kid. L'eroe, bravo, forte e onesto, non beve e non fuma; degno emulo di Rio Jim e di Tom Mix, deve preferire il cavallo alla ragazza.

(1) Ai piedi del versante meridionale della Sierra Nevada, alla altezza del monte Waitney: scoscendimenti, burroni, colli molto alti, caratterizzano la vallata del fiume Owens. Regione della celebre Vallata della morte.
(2) Da un articolo apparso su Life il 10 ottobre 1949.
(3) I «stock shots», o scene d'archivio, costituiscono talvolta 1/5 della lunghezza totale di un film che dura dai 40 ai '70 minuti.

I.L. Rieupeyrout e A. Bazin, IL WESTERN ovvero ILCINEMA AMERICANO PER ECCELLENZA, Cappelli Editore,1957 – Traduzione Franco Calderoni