mercoledì 22 maggio 2013

Per una storia del cinema in Calabria


fotogramma del film Terremoto in Calabria del 1905
 Lo sceneggiatore: “ Scusi sa, ma, quella sarebbe una contadina delle Calabrie? “
Il produttore: “ Guarda che  se il pubblico si facesse domande  di questo genere noi ci potremmo anche sparare “
Dialogo tratto da La signora senza camelie di Michelangelo Antonioni del 1953


Tutto cominciò con Spartacus ( 1960 ) di Stanley Kubrick, ma la Calabria in quel tempo era la Puglia di oggi. Del resto il cinema i fratelli Lumière ce lo regalarono alla fine del diciannovesimo secolo. La prima città calabrese che fece da modella, deturpata dal terremoto, fu Reggio nel 1905. Ancora la fiction non esisteva e nemmeno la figura del regista. Le riprese di Terremoto in Calabria furono eseguite da Roberto Omega che lavorava per conto di Filoteo Alberini. Più tardi quando si cominciò ad improvvisare una trama con degli attori che gesticolavano, il tutto era ripreso alla luce del sole con i fondali dipinti a mano, Ernesto Maria  Pasquali, era il 1910,  diresse Eroina calabrese. Ernesto Maria ( anche lo zio Ernesto si chiamava Ernesto Maria ) non immaginava di certo di stare precorrendo i tempi immettendo eroina calabrese sul mercato internazionale, ma la sua non si sniffava o iniettava nelle braccia, si assorbiva con gli occhi – se cercate su Google il film di Ernesto Maria, col solo titolo, vi esce tutt’altro -. Gli spettatori erano come bambini, meravigliati da come la vita veniva riprodotta sotto un profilo artistico; ma ancora il cinema non era considerato arte. La chiesa cattolica osteggiava il cinema considerandolo una pensata del diavolo, una volta tanto Lucifero ebbe una bella pensata; peccato che l’invenzione dei Lumière non abbia preso il suo nome, sarebbe stato più seducente: colui che porta la luce, si preferì il movimento. L’ostracismo della Commissione Episcopale Italiana del resto durò poco. Sorsero gli studios, nacquero i tycoons ed i registi; si chiamavano scrittori di fama a scovare sempre nuovi soggetti; si impose soprattutto il divismo. In epoca di divismo quelli che svilupparono soggetti calabresi furono i Notari che erano di Napoli: Elena ed Elvira nacquero Coda, diventarono Notari quando Elvira sposò Nicola Notari che era un fotografo. Le due sorelle ebbero il merito di precorrere il neorealismo, non era difficile visto che operavano stabilmente a Napoli. Elvira girò nel 1916 Carmela la sartina di Montesanto, ambientato tra la Campania e la Calabria. Elena nel 1924 portò sullo schermo per la prima volta Le geste del brigante Mugolino. Erano film pensati per una platea popolare dove le azioni sceniche di natura melodrammatica sollevavano rumorosamente gli spettatori. Il film su Musolino fu per molto tempo messo al bando in America perché si pensava che gli italoamericani prendessero a modello la vita di Peppe Musolino, portando nuovi adepti alla Mano Nera. A questo punto l’interesse per la Calabria da parte dell’industria cinematografica segna una battuta d’arresto. L’avvento del sonoro, ma soprattutto la presa del potere da parte di Sua Eccellenza  il Capo del Governo Benito Mussolini ( vero brigante di chiara fama mondiale ) sposta l’interesse del cinema verso le grandi città e verso la propaganda. Solo a guerra finita e con la caduta del regime le cineprese ritorneranno in Calabria, ed è da qui che parte il mio escursus sul Bruzio nel cinema. Sarò molto di parte perché lascerò fuori nomi noti a me antipatici per prendere in esame solo quanto mi sta a cuore, a volte con opere che sono state ritenute indegne di fare parte della storia del cinema, ma che al loro apparire ebbero un fascino che solo la nostalgia subentrata con la distanza da quegli anni ingrandisce. La Calabria rispetto all’Isola che le sta di faccia, e che viene dopo, è stata povera di fatti noti come di noti uomini di spettacolo. Solo il paesaggio che accomuna entrambe le regioni, è stato percorso dall’obiettivo cinematografico. Gli accadimenti che attraversarono la Sicilia sono stati, a volte, laceranti e, a volte, si sono ripercossi sul territorio nazionale. Ciò nonostante e soprattutto in questi ultimi tempi la Calabria, rispetto all’Isola, ha apportato un vento fresco dento il cinema nazionale e mi riferisco ai film di Michelangelo Frammartino e di Alice Rohrwacher come con alcuni documentari di Felice D’Agostino e Arturo Lavorato,  questi ultimi soprattutto hanno ripercorso la storia della Calabria a partire dagli anni sessanta del secolo scorso senza rimpianti, sovrapponendo le immagini vecchie, a volte drammatiche, alla realtà di oggi che vede la Calabria sempre più deturpata nel paesaggio come nei suoi abitanti.

lunedì 20 maggio 2013

Bellocchio vs Bertolucci


Marco Bellocchio e Bernardo Bertolucci a Taormina ( polaroid Mittiga)

I film di Marco Bellocchio mi sembrano i soli, con quelli di Bertolucci,  a proporre una doppia lettura di se stessi: come opere ma anche come operazioni. I soli a mettere in relazione concetti come autore, pubblico, popolarità, industria, spettacolo, mercato, cinema italiano.
Enzo Ungari


I quasi adatti

OGGI
AL CINEFORUM PEPPUCCIO TORNATORE
Questo gran bel film di Ingmar ve lo propongo con un commento molto appropriato di Leonardo Persia; io aggiungo solo che l'opera in questione di Bergman, con Crisi ( 1945 ) dello stesso Bergman andrebbe inserita in un gruppo comprendente Gioventù perduta ( 1947) di Pietro Germi, I vinti ( 1952 ) di Michelangelo Antonioni e Rebel without a cause ( Giventù bruciata, 1955 ) di Nicholas Ray, ma anche quale anticipatrice del free cinema inglese.

Hamnstad (Città portuale/Città nella nebbia)
regia di Ingmar Bergman (Svezia/1948)
recensione a cura di Leonardo Persia

Dopo i film acquei per la Sveriges Folkbiografer (Piove sul nostro amore, La terra del desiderio), opere sul viaggio come stato dell’essere, Bergman arriva, per stabilizzarsi, a Città portuale (titolo originale) o Città della nebbia (titolo italiano), che segna il ritorno alla Svensk Filmindustri di Crisi.
Entrambi i titoli della pellicola, su soggetto (romanzo) di Olle Lansberg, esprimono un sentimento liquido persistente, si tratti dell’acqua sospesa e condensata della nebbia oppure della struttura posta sul litorale del porto. La nebbia simbolica è quella afferente alla zona profonda e non del tutto a fuoco della psiche. Patina e oscurità, problemi che continuano a essere insolubili. È lo stato brumoso della coppia di amanti protagonisti del film, Berit e Gösta (Nine-Christine Jonsson e Bengt Eklund), il cui passato oscuro e indelebile, costituisce un (re)iterato motivo di sofferenza.
Ma in Bergman il negativo è positivo, così non solo i due si incontrano per via del tentato suicidio della donna al porto, ma è l’approdo-sfida (piuttosto che la fuga inquieta dei vecchi film) a definire l’opera, punto fermo della coppia proletaria, decisa a non lasciarsi travolgere dal disegno scritto della loro esistenza, fino ad allora viaggio perpetuo nella delusione e nel vuoto. «Se vai per mare vedi tante di quelle cose, ma hai sempre la sensazione che stai perdendo qualcosa». Lo dice Gösta, ma potrebbe essere anche il punto di vista di Bergman su una possibile scelta stilistica del suo cinema.
Il regista ricordava il film come quello in cui ebbe modo di sperimentare e apprendere definitivamente la tecnica, in un momento in cui, dopo tanti esercizi estetici più o meno provvisori, il giovane autore auspicava per sé un risultato stilistico definitivo. La vicenda dei due ragazzi adombra un dato autobiografico traslato, una volontà dei personaggi e del cineasta ancora più scoperto che altrove e forse, proprio per questo, meno ispirato e sincero.
Il dato artificioso si coglie nel soggetto in questione, che riprende, nel tentativo di migliorarla, una narrazione assai simile a quella de La terra del desiderio, l’opera primissima fase di cui, fino a quel momento, Bergman era rimasto maggiormente soddisfatto. Come rifacitura ufficiosa di quell’opera, il lavoro svela per primo il gusto del cineasta per la serializzazione, o per la ripresa di situazioni e personaggi, un work in progress di battute e di contesti, su cui poco si è riflettuto.
L’eccentrico autobiografismo si coglie nell’età del protagonista, più o meno la stessa del regista (classe 1918), che lui urla disperato a una prostituta, dopo aver lasciato Berit: «Lo sai quanti anni ho? Ventinove: non ci si crede, eh? Anch’io non riesco a crederci». In quanto al periodo di tempo passato per mare, Gösta riapproda in città otto anni dopo, un anno in più rispetto al protagonista dell’altra pellicola (venuto pure dall’India). Si vuole alludere probabilmente all’anno intercorso tra questo e il precedente film.
Il conflitto del vecchio personaggio con il papà diventa adesso scontro con la mamma da parte della ragazza di cui si l’uomo si innamora. Entrambi i personaggi schiaffeggiano, rispettivamente, padre o madre, genitori rivali che hanno riservato ai figli l’odio per loro stessi. Vi si coglie il risentimento edipico dell’autore, costante esistenziale e del suo cinema.
Non a caso, la scena più bella è un flashback di Berit da piccola, costretta ad assistere alle liti dei genitori. Si sveglia, li osserva, rimane attonita. Il papà la prende in braccio ma la madre cerca di strappargliela via. I due continuano a darsele, ognuno rivendicando per sé la bambina strattonata e stretta tra i due corpi. Quando la poverina riesce a fuggire e nascondersi sotto il letto, abbracciando una bambola (il rifugio bergmaniano nella finzione), ecco la madre pronta a trascinarla per i piedi, buttandole via il giocattolo e mettendosela in braccio, in una violenta ed egoistica simulazione di affetto, ripicca algida nei confronti del marito.
I maschi, nel film, sono deboli, sfuocati, pavidi e insicuri, privi di spessore e personalità, persino da un punto di vista drammaturgico. Sono pettegoli e vuoti, si consideri l’accoglienza che, da un tavolo da gioco, fanno al protagonista appena sbarcato. Il personaggio più interessante è l’amico incupito e deluso di Gosta, una caverna profonda di frustrazione e di isolamento dal mondo (dall’altro sesso), a cui giova probabilmente il rapido accenno riservatogli dallo script. Mantiene un tono misterioso ed economo, che ne esalta il ritratto. Anche nei film precedenti, soprattutto con le coppie, Bergman si era rivelato un maestro nel tratteggiare psicologie cupe e disperate en passant, quasi sempre più riuscite di quelle dei personaggi principali, evidentemente inficiati da residui letterari manieristici.
Nei tratti di quest’uomo si ravvisa ancora l’ambiguità produttiva dei personaggi negativi bergmaniani. È lui, con le sue contraddizioni, a spingere il protagonista, ancora indeciso, tra le braccia dell’amata («Va sempre tutto a rotoli, è tutto orribile. Sempre e solo egoismo» – «Non c’è nulla che non possa durare?» – «Non chiederlo a me» – «E allora a chi?» – «Idiota! Chiedilo alla tua ragazza. Se hai bisogno di stringere una mano, allora stringi la sua. Nessun altro si offre volontario».)
La centralità del personaggio di Berit attesta una volontà dell’autore di soffermarsi sulle figure femminili La ragazza è la vittima sacrificale di una genitrice dura e bigotta, che la precipita in un calvario di assistenti sociali e case di correzione (a gestione femminile), aggravato dalla presenza di altre virago, madri dei fugaci fidanzati della donna, i maschi mosci di cui sopra. La psiche femminile è perlustrata nelle opposte ma complementari sfumature di vittima e carnefice, di sottomissione e alienazione (le scene al riformatorio, tra fumo e droghe), di durezza indotta e di aridità sentimentale.
L’aspetto simbolico dell’acqua condensata definisce pure questo aspetto di involuzione e non sbocco della personalità, un elemento che meritava un maggiore approfondimento, ma che riesce ad essere persuasivo per l’abilità dell’autore nel tratteggiare rapidamente le figure minime e minori di cui si è detto. Sintetiche e affilate le scene di mistificazione religiosa al correzionale. Ma un personaggio come Gertrud, destinata a morire per un aborto clandestino, è una concessione a un cinema di denuncia che non appartiene al regista.
Deciso a fermarsi in uno stile proprio, ma ancora indeciso su quale debba essere questo stile, Bergman spinge adesso il pedale sul dato sociale mutuato dal neorealismo affermatosi anche fuori dai confini italici. Un Rossellini di superficie è il suo modello. Sperimenta la carta degli esterni e interni autentici, porto e cantieri, fabbriche e balere, una sala cinematografica e le stanze occupate dagli operai. La colata nera che caratterizza la bella fotografia di Gunnar Fischer e il dominio armonico della tecnica non bastano. È il debito con il solito realismo poetico di Marcel Carné, e la sostanziale estraneità all’aspetto sociologico delle cose (vedi pure i successivi La vergogna e L’uovo del serpente) a togliere aria all’opera.
Di certo il regista si trova a un bivio, proprio come i due amanti nel finale di Piove sul nostro amore. Ha raggiunto la “felicità” della propria vocazione e tuttavia ne è spaventato. Si legga in tal senso la battuta di Berit: «Penso che sarebbe stato meglio se non ci fossimo incontrati. Ora che so che cos’è la felicità, la vita non potrà che peggiorare».
Il film va preso quindi come programma d’intenti. Vale come ricapitolazione e per l’idea di approdo che ne è alla base. Segna la fine di un incerto quanto promettente (e non privo di pregio) periodo di prove stilistiche. Il film successivo è quello che sancisce, per la critica e lo stesso regista, la nascita di un autore. Prigione sarà indicato come la sua prima opera davvero personale, il primo compiuto tentativo di costruire un proprio mondo delle idee.
l'originale è qui:


mercoledì 15 maggio 2013

Un maestro per due fratelli

                           Maestro Morricone e i fratelli Tornatore in Paliemmo ( foto Mittiga)

lunedì 13 maggio 2013

domenica 12 maggio 2013

Vittorio Storaro goes to Hollywood

Un film come Il conformista ha toccato profondamente Coppola, che ha sempre riconosciuto di essersene servito quasi come di un modello, di un oracolo addirittura, tanto che lo proiettava ai suoi collaboratori mentre girava Il Padrino. La prima volta che mi chiese di lavorare con lui fu per Il Padrino n. 2, ma rifiutai per una serie di motivi ma soprattutto per l’amicizia che mi lega a Gordon Willis, una delle pochissime persone che dopo aver visto Il Conformista mi mandò un telegramma di complimenti alla Technicolor e che ho sempre trovato straordinario, sicuramente una delle più grandi personalità figurative in America e forse nel mondo. Insomma mi sembrava più giusto che proseguissero insieme il discorso iniziato col primo Padrino. Rividi Coppola brevemente a Parigi una volta che venne a salutare Bernardo sul set di Ultimo Tango, poi a Roma; loro ultimavano Il Padrino n. 2, e noi giravamo nel teatro accanto Le orme, di Luigi Bazzoni. Dopo questi due brevi incontri parlai con Fed Ross, uno dei suoi co-produttori che venne a Roma per propormi Apocalypse Now. Rifiutai di nuovo per lo stesso motivo; intromettendomi tra Coppola e Willis avrei rotto uno di quei “ matrimoni “ artistici dagli eccellenti risultati che caratterizzano certi momenti della storia dello spettacolo. Fu Coppola ad illustrarmi personalmente il tipo particolare di visione di cui aveva bisogno per il suo film, che in effetti non conveniva alle caratteristiche del lavoro di Gordon Willis, tendenzialmente orientato verso un tipo di illuminazione da teatro di posa. Accettai solo dopo averne parlato con Willis stesso, sapendo che comunque lui non l’avrebbe fatto.
Ho avuto carta bianca per tutto ciò che era di mia competenza. Tutta la parte figurativo-fotografica di Apocalypse Now è prettamente italiana. Lavorando con i miei collaboratori mi trovavo nella posizione di responsabile assoluto della resa fotografica del film.

Vittorio Storaro
tratto dalla rivista Cinema e Cinema

mercoledì 8 maggio 2013

Il più famoso tra gli italici maestri d’arme

OGGI
Le notti di Lucrezia Borgia è una coproduzione italofrancese fotografata e anamorfizzata da Massimo Dallamano con pellicola Kodak e girato negli stabilimenti Pisorno a Tirrenia e nel parco dei mostri di Bomarzo. E’ un film di cappa e spada, genere che andava molto negli anni cinquanta del secolo scorso. Vi prendono parte la perfida e conturbante Belinda Lee, il brutto, ma veramente, Arnoldo Foà, la bella Michéle Mercier, l’impavido Jacques Sernas ed infine l’insaziabile Franco Fabrizi. Blinda Lee è Lucrezia, Franco Fabrizi Cesare Borgia. Se vi interessa la loro storia la potete approfondire attraverso la Wikipedia. Dal film ricaviamo soltanto i vizi che avevano sorella e fratello, molte cavalcate ed innumerevoli scaramucce a colpi di spada e pugnale. Lo segnalo perché questa volta voglio ricordare un altro maestro d’armi, forse il più famoso tra gli italici maestri d’arme, Enzo Musumeci Greco che assieme al suo Musumeci Team velocizza un altrimenti debosciata pellicola. Addestrò talmente bene il brutto Arnoldo che nel decennio successivo ripetè la perfidia e la destrezza in un rinomato sceneggiato RAI: La freccia nera di Anton Giulio Maiano, il Blasetti del regime democristiano.

tHe mAn WitH goldEn HaNd



Oggi Google ricorda Saul Bass, e pure io, mago dei titoli, un pò più di Iginio Lardani.

lunedì 6 maggio 2013

Il più gentile dei critici cinematografici

Il gentilissimo Professor Sandro Anastasi con Roger Corman a Taormina
( foto Mittiga)

The absence of history

Apocalypse Now The absence of history
by Michael Klein
from Jump Cut, no. 23, Oct. 1980, p. 20
copyright Jump Cut: A Review of Contemporary Media, 1980, 2005

"It was my thought that if an U.S. audience could look at … what Vietnam was really like then they could put it behind them."
— Coppola
In the late 1960s Marlon Brando starred in a film ostensibly about colonialism in the Caribbean in the nineteenth century but whose real subject was the U.S. war in Vietnam. That film, BURN, was produced outside this country and because of political pressure received little attention at the time. (When I first saw and reviewed BURN, it was being distributed as a second feature in rural California drive-ins.)
APOCALYPSE NOW, also starring Marlon Brando, but directed by Francis Ford Coppola and completed in the late 1970s, is explicitly about the U.S. involvement in Vietnam. Unlike BURN, it has been distributed with a good deal of publicity and ballyhoo. But whereas BURN offered a clear perspective about the causes of war and colonial domination of the third world, APOCALYPSE NOW is infused with an inadequate and incoherent vision.
While BURN is one of the few commercial films distributed in the U.S. during the Vietnam war to reflect the radical analyses that emerged in that period, APOCALYPSE NOW is a film of the late 1970s that looks back on the 60s with cynicism and despair.
APOCALYPSE NOW, very loosely based upon Joseph Conrad's novel The Heart of Darkness, presents the story of a Captain Willard who journeys upstream from Vietnam to Cambodia in 1968 to assassinate a Colonel Kurtz (Brando), who has gone insane while carrying out counter-insurgency operations against the NLF.
Through much of the film we journey through the horrors of the war with Willard, witnessing scenes of genocide — napalm, destruction of villages by air strikes, slaughter of civilians. Always, however, it is shown from the imperialist point of view, the perspective of the helicopter machine-gunner letting loose at the natives. There are scenes of "black humor," such as a strutting, cowboy-hatted head of the air cavalry incinerating a peasant village so that he and his men can go surfing. And most all the U.S. soldiers are portrayed as acid-heads and rock freaks. The many soldiers that fought against the war and fragged their officers and covertly helped the NLF don't appear in Coppola's version of Vietnam. Coppola defines the war not as a horror in humanist terms but as a grotesque absurdity. The film does not aim to create sympathy for the war's victims but, perversely, to render the war as a merely fantastic, absurd, mind-blowing spectacle.
When we arrive at Kurtz's lair, an explanation of a sort is offered for the war and the nightmare world we see in the film. Kurtz reads a passage from T.S. Eliot's poem, "The Hollow Men" and dies in high expressionist style with the words "the horror" on his lips. The images of the film extend this perspective, but often in a manner so covert that any audience perception of this interpretation remains privileged and elitist. For example, the blades of the helicopter warships that attack peasant villages to the music of Wagner's "The Ride of the Valkyries" merge into the helicopter blades that spin in the background of a decadent striptease by gun-totin' female entertainers at a doomed U.S. base. These blades merge into the spears with which Kurtz's mercenaries kill a soldier, and finally into a knife blade with which Willard dispatches Kurtz. Parallel to primitive barbarism is technological barbarism, the culture of decadent fascism.
APOCALYPSE NOW offers no deeper insight into the causes of the war in Vietnam. In the final moments of the improvised last section of the film, Willard, having killed Kurtz, begins to physically resemble him. This time the message is clear, however crude and distorted: we are, all of us, decadent and doomed by nature. There are no saved in Coppola's vision of the apocalypse: no liberation fighters, no Vietnam vets against the war. But then there are no aggressors or imperialists either, only guilty liberals and assorted grotesques.
Perhaps the effect is not quite as insidious as that of THE DEER HUNTER where a stylish new U.S. superhero emerges from the war seeking continuity in chauvinist abstractions. In APOCALYPSE NOW neither Willard nor Kurtz are role models for a new generation. At best Willard is a burnt-out fragment from the 60s mosaic. We find no positive figures that we identify with because of their humanity — unlike in the better post-WWI films (e.g., ALL QUIET ON THE WESTERN FRONT, THE BIG PARADE) or some made at the end of WWII (e.g., PRIDE OF THE MARINES).
In APOCALYPSE NOW we are presented with a cynical spectacle — an ersatz expression of counter-culture disillusion that is, in the final sense, sanctioned by aesthetic codes of formal excellence (the extravagance of Coppola's production, the self-conscious "beauty" of the images) and a middlebrow appeal to high culture norms (the strained allusions to Conrad and Eliot). Coppola succeeds in making a film that attempts to "put Vietnam behind us" or, to put it another way, that embezzles the heritage of a whole generation's historical experience while making a few deceptive signs in the direction of cultural tradition. History is displaced by the spectacle, by the ideology and rhetoric of Coppola's mise-en-scene. That is the real horror, not Col. Kurtz's hollow cry. The reality of life in Vietnam and in the U.S. as it was affected by the war is significantly absent from the frame. Missing are not only the struggle of the Vietnamese people for independence from U.S. domination but the anguished struggle of the U.S. people, inside and outside of the army, against the war, which in many cases involved analyses or at least recognition of the imperialist dynamics of that conflict.
What a contrast to Pontecorvo's film BURN, where an historical analysis of imperialist expansion is clearly presented as an integral part of the narrative. But in BURN, instead of mumbling Eliotic mystifications in the dark shadows of an exotic set, Marlon Brando as Sir William Walker, a somewhat tragic realpolitik colonialist agent in the Third World, explains his actions with an inverted Marxist logic. Like Conrad's Kurtz, Walker believes his actions will further progress and "civilization." He also has a clear vision of the class polities involved and of the Third World's revolutionary potential. First, Walker forges a revolutionary alliance between the national bourgeoisie and the slaves of the island nation of Quemada to displace Portugal's dominance, so that England can gain influence there under the banners of "free trade" and "democratic freedom." Later, as the British sugar companies exert more and more control, Quemada's national bourgeoisie become compradors and the liberated slaves become wage slaves. The former slaves — now workers and peasants — are driven to revolution and take to the hills. British troops take over open control of Quemada and wage a genocidal war against the rebellious population. The war is a necessity, Walker maintains, to ensure that the area will be free for exploitation and development for centuries. When BURN was released in the late 60s, the parallels with Vietnam and southeast Asia were clear.
Perhaps the most important difference between BURN and APOCALYPSE NOW, related to the dialectical sense of history that permeates and structures BURN, is that APOCALYPSE NOW presents no recognizable potential counterforce to the forces of darkness — only equally demonic shadows in the jungle. BURN, however, develops the figure of Jose Delores, the leader of the sugar cane workers and peasants, to contrast with Brando's Sir William Walker. Jose Delores' statement that freedom is not something that colonizers grant but something that the people must fight for becomes the dominant theme of the film. BURN lets us arrive at both an understanding of the process of history and a sympathy with people seeking liberation. This is unlike APOCALYPSE NOW, which exorcises history and offers a message of cynicism and despair.

L'originale è qui:
http://www.ejumpcut.org/archive/onlinessays/JC23folder/KleinApocNow.html

giovedì 2 maggio 2013

Il dio Kurtz

Willard:  “ Sulle prime pensai che mi avessero dato la pratica sbagliata. Non potevo credere che volessero la                
                 morte di quest’uomo “.
                “ Kurtz aveva lasciato la barca, aveva tagliato i ponti con tutti i programmi del cazzo “.

Kurtz:      “ Mi aspettavo qualcuno come lei. Lei cosa si aspettava. Lei è un assassino “.
Willard:   “ Sono un soldato “.
Kurtz:       “ Né l’uno né l’altro. Lei è un garzone di bottega che è stato mandato dal droghiere a incassare i      
                  sospesi “.

  Forse Marlon Brando non si rese conto che in quelle cinque opere che sono il centro della sua vita d’artista il vero datore di lavoro è stata la Signora Morte; le va incontro in ogni caso: nelle Antille, nella New York del gangsterismo, nella Parigi dei primi anni settanta del secolo scorso, nel West degli allevatori di cavallo, nel Vietnam. Emissario dell’impero britannico, capo bastone della mafia, amante perduto,  cacciatore di ladri di cavalli, emissario dell’impero americano.
  Su Apocalypse Now non c’è niente di nuovo da dire visto che è una di quelle opere sezionate fin dal suo apparire. Era già accaduto al romanzo Cuore di tenebra di Joseph Conrad che Milius e Coppola hanno sovrapposto all’infame guerra di John F. Kennedy e Lindon B. Johnson.
  Marlon Brando-Kurtz è la causa verso  cui tutti muovono, è la tappa finale della risalita lungo il ventre del serpente ( fiume o pellicola )di Willard. Willard voleva una missione e l’ha avuta: porre fine a Kurtz, il cancro nella cancrenosa lotta tra selvaggio e multinazionali produttrici di armi da guerra.
  Considerato dio/re/sacerdote dalla nazione da lui creata vive in mezzo a riti ancestrali e magie pagane fuori dal tempo, ma il tempo ha riacchiappato Kurtz che deve morire per far posto ad un altro re, sacrificato da quest’ultimo, novello sacerdote.
   Brando pensa e effigia la sua maschera,un cranio rasato che ricorda un altro dittatore a noi vicino; la figura statuaria orientale  con cui si presenta è quella del dio ( con la voce di Sergio Fantoni nella prima edizione del film ) che soppesa e giudica Martin Sheen, il garzone di droghiere giunto a riscuotere i sospesi.
  Questa volta, la volta finale, Brando è la presenza inscindibile da tutto il contesto: mente nei precedenti film muoveva il tutto, qui tutto è già stato mosso prima che parta la proiezione, resta solo il suo sacrificio.

Chinatown sta al film noir americano come C’era una volta il west sta al western

   J. J. Gittes  è tanto Marlowe quanto Gatsby e Lew Archer; c’è nel film tutto Ross MacDonald e il cinismo, privo di infezioni sentimentali di Piombo e sangue: assomiglia ad una avventura di Marlowe corretta da Dashiell Hammett, contaminata qua e là da Mickey Spillane e privata della punteggiatura da un Faulkner indolente. Chinatown sta al film noir americano come C’era una volta il west sta al western.