giovedì 28 marzo 2013

mercoledì 27 marzo 2013

Il regista col complesso di Edipo

Peter Bogdanovich, nell’epoca in cui faceva il critico, era praticamente il solo americano a condividere l’amore sviscerato e un poco isterico per Hollywood, docile ai dettami dei “Cahiers  du Cinéma” e alla loro politica degli autori. Straniero in terra straniera, si perdeva, solitario, nelle sottili variazioni che un film noir, un western, un musical, offrono a chi li frequenta. Tutto quello che la critica americana non poteva neppure concepire, vergognosa dei Ford,  degli Hawks, dei Minnelli, Bogdanovich ne faceva ne faceva oggetto di studi esaltanti. Una volta divenuto l’acclamato regista di L’ultimo spettacolo, Ma papà ti manda sola? , Paper moon  (ha) fatto del ciarpame in bianco e nero, essendo i suoi film il povero calco polveroso e pedante dei modelli amati tanto edipicamente.

martedì 26 marzo 2013

Europa 2013

OGGI
AL CINEFORUM PEPPUCCIO TORNATORE
Ses regards abandonnent la fonction pratique d'une maîtresse de maison qui rangerait les choses et les êtres, pour passer tous les états d'une vision intérieure, affliction, compassion, amour, bonheur acceptation, jusque dans l'hôpital psychiatrique où on l'enferme à l'issue d'un nouveau procès de Jeanne d'Arc : elle voit, elle a appris à voir. [Gilles Deleuze Cinéma 2, 1985: 8-9]

Cosa sarebbe successo se San Francesco, Francesco giullare di Dio, fosse vissuto nell’Europa post-bellica dove si tentava disperatamente di ritornare alla normalità. Sarebbe stato considerato un santo o un pazzo?
Rossellini si pose questa domanda nel film successivo dove affronta l’idea della santità da un diverso punto di vista. Il film racconta il percorso spirituale di una donna che diventa santa in un mondo che non crede più alla santità. Il film si intitola Europa ’51. Ingrid Bergman interpreta il ruolo di una donna inglese di nome Irene Gerard che vive una vita agiata a Roma insieme al marito George e al figlio Michele. Ma succede qualcosa di terribile. Durante i bombardamenti il rapporto tra Irene e Michele era molto profondo ma ora che tutto è tornato alla normalità Michele si sente trascurato e fa di tutto per attirare le attenzioni di Irene. Questo ragazzo cresciuto durante la guerra non sa come vivere in un mondo di pace.
La morte di Michele lascia Irene sola di fronte a se stessa, perde ogni ragione di vita. Il primo che tenta di tirarla fuori dalla depressione è suo cugino Andrea. Andrea, un marxista convinto, prova ad educare Irene, ad aprirle gli occhi sulle miserie del mondo. Questo è l’inizio del cambiamento di Irene …  senza rendersene conto diventa una persona diversa.
Aiuta una famiglia indigente.
La famiglia di Irene è preoccupata.
Torna a far visita alla famiglia che ha aiutato …  festeggia Bruno il figlio tornato a casa. Ama il calore con cui viene accolta da queste persone semplici. E’ una piccola comunità che vive in un quartiere distrutto: nell’appartamento a canto abita una prostituta malvista dai vicini. Irene trascorre gran parte del suo tempo con il ragazzo che le ricorda suo figlio.
Dopo aver aiutato quella famiglia la sua vita cambia per sempre;  non c’era quando suo figlio aveva bisogno di lei, ma ci sarà per tutti coloro a cui serve il suo aiuto.
Rossellini non punta l’attenzione sulla sua trasformazione, il film è puramente oggettivo, quasi privo di uno stile, è come se lo spettatore fosse accompagnato a camminare accanto ad Irene, seguendo il suo processo emotivo.
 Irene passa sempre più tempo nel quartiere e si comincia ad affezionare ad alcuni bambini; fa visita ad una donna che ha adottato molti bambini abbandonati pur avendo tre figli suoi, il suo nome è Passerotto ed è interpretato dalla grande Giulietta Masina, moglie di Fellini.
E’ facile approfittare dell’insaziabile bisogno di aiutare il prossimo di Irene. Accetta di sostituire per una giornata Passerotto in fabbrica. Ma una volta in fabbrica Irene si ritrova a faccia a faccia con una realtà a lei sconosciuta, la noia e l’oppressione che riempiono la giornata di chi è costretto a guadagnarsi da vivere.
Quando quella sera Irene rientra a casa le sembra di vivere in un altro mondo. 
Il marito non capisce cosa le stia accadendo e è convinto che abbia un amante.
Lei decide di dare un taglio netto, lascia il marito e va a vivere in un tugurio, prendendo le distanze dalla sua vita agiata. Ora vede solo i bisogni di chi le sta intorno. Irene si prende cura della prostituta che è sola e sta morendo di tubercolosi.
 E’ solo questione di tempo prima che anche lei cominci ad avere problemi con la legge. La polizia nutre sospetti su di lei, vuole sapere perché una donna rispettabile abbia deciso di vivere con una prostituta.
Per suo marito non ci sono alternative. Le ci vuole del tempo prima di rendersi conto di dove è finita.
Ora capisce che non è importante il luogo in cui vive finché ci sarà gente bisognosa d’aiuto.
I dottori del manicomio la interrogano sui suoi piani , i suoi scopi, le sue idee …  vuole o non vuole ritornare da suo marito.
Rossellini non condanna nessuno in Europa ’51. Non condanna la famiglia di Irene né il marito, né tanto meno i dottori che l’hanno rinchiusa in manicomio, mostra solo come la società imponga dei ruoli che definiscono il confine tra pazzia e normalità. Questa è la scomoda verità del film.
“ La gente oggi sa vivere solo in società non in comunità, lo spirito della società è la legge, quello della comunità l’amore! “ Questa è la frase che Rossellini usò per descrivere questo film sull’Europa del ’51, ma potrebbe essere ovunque, e potrebbe essere ora.
Guardando il film è importante non prestare attenzione alle sue imperfezioni.  Il doppiaggio dei personaggi minori della versione inglese, che è poi la versione ufficiale, è piuttosto approssimativo e questo è il grosso difetto dei film di Rossellini girati in quell’epoca. Fu un periodo critico della sua carriera, aveva sempre più difficoltà a girare film e le sue condizioni peggioravano di giorno in giorno.
Europa ‘51 ha una tale forza espressiva da trascendere i suoi stessi limiti.
Commento di Martin Scorsese su Europa ’51 di Roberto Rossellini tratto dal suo omaggio al cinema italiano intitolato Il mio viaggio in Italia.

lunedì 25 marzo 2013

Il mio cinema


Il mio cinema è troppo esplosivo: perché aspetto troppo prima di parlare. E’ terribile. Mi sento un isolato. Credo che ogni buon artista si senta isolato.
Orson Welles

venerdì 22 marzo 2013

Le dernier tango


Sixième long-métrage de Bernardo Bertolucci, Le Dernier Tango à Paris marque le cinéma des années 1970 à plus d’un titre. D’abord par le parfum de scandale qui l’accompagne, véhiculé non seulement par les scènes érotiques (jugées pornographiques par l’Italie, qui finit par l’interdire), mais aussi par la philosophie profondément nihiliste. Mais c’est surtout son esthétisme qui fascine encore aujourd’hui : l’éclairage, la photographie et le montage créent une atmosphère spécifique qui imprimera le style Bertolucci.


Paul (Marlon Brando), Américain d’âge mur vivant à Paris, est dévasté par le suicide de sa femme Rosa, qu’il n’a visiblement jamais su comprendre. Dans un grand appartement vide à louer, il rencontre Jeanne (Maria Schneider), jeune Parisienne, solaire et curieuse. Dans un contrat tacite où aucun des deux ne devra rien chercher à savoir de l’autre, ils réapprennent la simple danse des corps, l’étreinte originelle, la fusion sexuelle. Une expérimentation de l’acte amoureux qui s’avèrera jeu dangereux et désespérant.
Le Dernier Tango à Paris est profondément un film de tango. Pas un film sur le tango, bien sûr, mais Bertolucci s’approprie totalement le rythme et l’essence de cette musique comme fil rouge de son récit. D’abord, comme symbole du héros : danse rebelle, provocatrice et explicitement érotique, voire obscène, née dans les quartiers populaires argentins du 19ème siècle, elle est vite associée aux lupanars et aux bordels. Elle symbolise tout ce que le corps peut dire de colère et de révolte quand le discours ne sert à rien, n’est pas entendu. Précisément, des mots, la parole même, Paul n’en a plus, ne veut plus en avoir. Il ne veut plus avoir à faire qu’avec ce qui est encore vivant en lui : son corps.
Ensuite, comme rythme, qui imprègne tout le film, tantôt vif et agressif, tantôt langoureux, profondément sensuel et érotique. Un rythme adopté par la caméra de Bertolucci, qui traque un homme comme mort : on plonge sur lui, on en fait le tour avec des mouvements souvent vifs et agressifs. La musique de Gato Barbieri est totalement en accord avec ce rythme, et l’accompagne pour mieux suivre les mouvements, parfois imprévisibles et violents comme le tango, de Paul. Le fait que Barbieri ait jusqu’ici beaucoup travaillé sur des thrillers n’est sans doute pas étranger à un certain suspens qu’il insuffle à sa musique et, du coup, au récit.
Enfin, comme érotisme, qui se déploie ici comme une valse macabre, une énergie du désespoir. Quelques minutes après leur rencontre dans l’appartement, Paul s’empare de Jeanne, ils font l’amour comme on se noie. C’est le début de leur contrat dans lequel aucun ne devra chercher à connaître le nom, l’histoire, de l’autre.
La manière dont Bertolucci les met en scène montre un couple impossible, infaisable. Jamais côte à côte ni véritablement reposés l’un sur l’autre, Marlon Brandon et Maria Schneider ne sont jamais filmés dans le même axe : un décalage subsiste perpétuellement entre eux par la position même de la caméra (qui ne montre pas un couple, mais deux antagonistes), accentué par la défragmentation des personnages, filmés dans un miroir, une vitre brisée, ou dont le mouvement est coupé par une porte, un mur. On avait déjà eu d’ailleurs un aperçu de cette violence et de cette distorsion des êtres dès le générique, avec les portraits rouges aux visages déformés de Francis Bacon, dont Bertolucci reprend les couleurs et la division horizontale des images. Fragmentation des êtres accentuée par un montage souvent déroutant, qui abolit l’ancrage spatio-temporel, marque lui aussi cette rupture avec les repères sociétaux classiques et la relation de tension entre Brandon et Schneider.
Au-delà de l’érotisme et de la violence, Le Dernier Tango à Paris propose une réflexion sur l’acte amoureux et sur le couple, loin des diktats culturels (le mariage, les bonnes mœurs...) qui finissent tout de même par l’influencer. A travers les corps à corps, le film présente une oscillation continuelle entre fantasmes de domination (la célèbre scène de sodomie avec le beurre...), et fantasme de renaissance d’un nouveau moi, sans identification sociale : une autre célèbre scène est ainsi le pendant à celles qui restent dans la brutalité, celle où Paul et Jeanne sont assis sur le grand lit, nus, face à face, baignés d’une chaude lumière jaune et douce, et qu’il ne se parlent que par grognements animaux. L’espace vide de l’appartement devient le réceptacle de ces fantasmes et de cette quête, d’où le monde extérieur est absent, et les règles de la civilisation comme abolies.
Monde extérieur et société qui ne sont d’ailleurs pas totalement absents du film : ils sont les révélateurs de la recherche impossible du couple Paul/ Jeanne. A côté d’eux, un personnage notamment est particulièrement intéressant : celui de Tom, campé par un tout jeune Jean-Pierre Léaud. Apprenti cinéaste ambitieux et optimiste, fiancé de Jeanne, il représente à la fois le pendant de Paul, et le symbole d’un type de réalisateur, d’un type de cinéma. Ce personnage introduit une autre volonté du cinéaste. Dans Le Dernier Tango à Paris, il ne s’agit nullement d’une obscénité sans fin, moins encore d’une provocation gratuite. Il s’agit aussi d’interroger l’enfance et le passé des personnages, leur identité. Bertolucci enchevêtre ainsi trois fragments narratifs : Paul qui pleure sa femme et cherche l’explication de son suicide dans un hôtel filmé comme un labyrinthe, Jeanne dont le petit ami filme la vie pour un « Portrait d’une jeune fille » commandé par la télévision, mais qui ne parvient qu’à fixer des clichés sur la pellicule. Enfin, l’histoire de Paul et de Jeanne elle-même, comme mythe de la recherche d’un éden, d’une redécouverte de soi, débarrassé des oripeaux de la société.
Sarah Elkaïm

l'originale è qui:

giovedì 21 marzo 2013

de Medeiros M.

Maria de Medeiros a Taormina (polaroid Mittiga)

mercoledì 20 marzo 2013

Luce azzurra, luce arancione

Finito Il Conformista c’è stato un attimo di crisi mi chiedevo: cosa può esserci dopo l’azzurro? Non avevo la più pallida idea che potesse nascere un film arancio, non potevo davvero immaginarlo. C’è voluta un’altra emozione, un altro tipo di coinvolgimento in an’altra storia che sviluppasse un altro colore nella mia vita o nella nostra. E’ stato il caso, per l’appunto, di Ultimo tango.
Bertolucci è un cineasta con una personalità particolare. Il modo di girare un film e per Bernardo un fatto viscerale, un bisogno fisico oltre che intellettuale, di girare le sequenze con quella particolare angolazione. Con un regista come lui subentra indirettamente, almeno per ciò che mi riguarda, una forma di sincronia. Io cerco di esprimermi attraverso la  luce, Bernardo mediante la cinepresa; così non c’è mai conflitto, ma sintonia.
Vittorio Storaro
L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1935 – 1959 a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Feltrinelli