Un film come I dannati di Anatole Litvak fa venire a mente una figura complessa
di regista che malamente si potrebbe definire solo un artista. E come un
documentario bruto, colto sul vivo, in cui per un rarissimo caso la realtà abbia fornito un materiale già
scelto e legato da una logica. Insomma, è un film che raramente fa venire a
mente il teatro. Nello spettacolo teatrale, noi siamo tratti spesso a compiacerci
della finzione, del simbolismo del dramma, della scelta che fa l’attore tra i cento
modi possibili di atteggiarsi. I dannati non
ha un solo momento per ripiegarsi sulla estetica del film che fa versare fiumi
di inchiostro ai teorici, e nessuna velleità poetica. Di pretesti poetici
manca quasi sempre il film americano, a meno che non sia opera di ingegni d'origine
e di formazione europea. Questo atteggiamento nel teatro, nel giornalismo,
nelle arti in genere e sovrattutto nel film, va dominando il gusto europeo,
dando alla letteratura e alla stessa funzione dello scrittore e dell’artista,
un'impronta diversa da quella tradizionale, al punto che personalità e individualità cedono
il posto al concetto di merce artistica utile e utilizzabile, una delle tante
merci di consumo. Non è l`aspetto più trascurabile d`un modo d'essere moderni.
I dannati implica un ingegno artistico di questo genere, in una
realizzazione delle più istruttive e importanti. Di quanto un europeo sarebbe
tratto a caratterizzare, di tanto il regista si limita a una scelta di tipi comuni;
di quanto si sarebbe tratti a isolare episodi, situazioni, paesaggi,
atteggiamenti, di tanto egli li accumula con indifferenza apparente l`uno
sull'altro, e spesso con una ricchezza che si compiace di andare dimessa e inosservata.
Se mai si pensa all`autore, nel corso della proiezione, vien fatto di pensarlo
come un tipo di nuovo genere, una specie di impresario, ingegnere, organizzatore.
Non ci era ancora capitato di vedere la guerra rappresentata con tanta
evidenza, così sporca, così confusa, con tanta umiliazione di uomini e
distruzione di beni, con tanta vita rivoltata e pestata e stritolata nel
mortaio della rovina di tutto. Il regista aveva a disposizione lo scenario
autentico, e in gran parte rimasto intatto, dei paesi tedeschi distrutti dai
bombardamenti. Ma ha saputo animare tutto questo dando quel senso di rovina interminabile,
di inestricabile tragedia, di angosciosa perennità, di ferita mai chiusa, di
confusione di bene e di male e di diritto e di torto che a un certo punto
assume la guerra.
CORRADO ALVARO, «Il Mondo», 19 aprile 1952