Cominciata con un capolavoro incompreso ( Umberto D ) l’annata termina con un altro capolavoro maledetto, Europa 51 di Roberto Rossellini. Come si
era rimproverato a De Sica di aver fatto un melodramma sociale, così si è
accusato Rossellini di cadere nell’ideologia politica confusa e stavolta
piuttosto reazionaria. Significava ancora una volta ingannarsi sull’essenziale
giudicare il soggetto astraendo dallo stile che gli conferisce il suo senso e
la sua dignità estetica. Una giovane donna ricca, e frivola, perde l’unico
figlio che ha tentato di suicidarsi una sera che sua madre, troppo preoccupata
dalla mondanità, l’ha mandato a letto con disattenzione. Lo choc morale è così
violento da sprofondare la giovane donna in una crisi di coscienza di cui cerca
dapprima la soluzione nell’azione sociale seguendo i consigli di un cugino
intellettuale comunista. Ma a poco a poco essa ha la sensazione che non si
tratti ancora che di un piano intermedio che deve superare verso una mistica
tutta personale della carità al di là delle categorie della politica e perfino
della morale sociale e religiosa. Così è portata a curare fino alla morte una
prostituta, poi ad aiutare a fuggire un giovane criminale. Quest’ultima
iniziativa fa scandalo e lo stesso marito, che la capisce sempre ,meno,
preferisce vederla rinchiusa in una “ casa di cura “ con la complicità di tutta
la famiglia spaventata della sua demenza. Si fosse iscritta la partito
comunista o fosse entrata in convento, la società borghese avrebbe avuto meno
da ridire: Europa 51 è il mondo dei partiti e dei reclutamenti sociale sotto
tutte le forme. Da questa’angolazione, è vero che la sceneggiatura di
Rossellini non è priva di ingenuità, nonché di incoerenze, e comunque di
pretese. E’ facile immaginare in particolare in quel che l’autore ha preso
dalla biografia di Simone Weil senza ritrovarne peraltro la solidità di
pensiero. Ma queste riserve non tengono davanti alla totalità del film che
bisogna comprendere e giudicare sulla base della sua messa in scena. Che
varrebbe, ridotto al suo assunto logico,
L’idiota di Dostoevskij? Poiché Rossellini è un vero regista, la forma del
film non è in lui l’ornamento della sceneggiatura, ne è la materia stessa.
L’autore di Germania anno zero è personalmente e profondamente ossessionato
dallo scandalo della morte dei bambini e più ancora del loro suicidio. E
attorno a questa esperienza spirituale autentica che il film prende corpo; il
tema della santità laica, tema eminentemente moderno, vi si sviluppa
naturalmente; la sua organizzazione più o meno abile in sceneggiatura importa
poco; ciò che conta è che ogni sequenza sia una sorta di meditazione, di canto
cinematografico, per il tramite della messa in scena, su questi temi
fondamentali. Non si tratta di mostrare ma di mostre. E come resistere alla
sconvolgente presenza spirituale di Ingrid Bergman, e al di là dell’interprete,
restare insensibili alla tensione di una messa in scena in cui l’universo
sembra organizzarsi sulle stesse linee di forza spirituale fino a disegnarle in
maniera altrettanto leggibile della limatura di ferro sul campo magnetico della
calamita? Raramente la presenza dello spirituale negli esseri e nel mondo era
stata espressa con una così abbagliante evidenza.
E’ vero che il neorealismo di un
Rossellini appare in questo caso ben diverso, se non contraddittorio, da quello
di un De Sica. Ci sembra tuttavia corretto accostarli come i due poli di una
stessa scuola estetica. Là dove De Sica fruga la realtà con curiosità sempre
più tenera, Rossellini al contrario sembra spogliare sempre più, stilizzare con
un rigore doloroso ma impietoso, insomma ritrovare il classicismo
dell’espressione drammatica attraverso le regole e attraverso la scelta. Ma a
guardare da vicino, deriva dalla medesima rivoluzione neorealista. Per
Rossellini come per De Sica si tratta di ripudiare le categorie della recitazione
e dell’espressione drammatica per costringere la realtà a dare il suo senso a
partire dalle sue sole apparenze. Rossellini non fa mai recitare i suoi attori,
non gli fa esprimere questo o quel sentimento, li costringe solo ad essere in
una certa maniera di fronte alla macchina da presa. In una tale messa in scena,
il posto rispettivo dei personaggi, la loro maniera di camminare, i loro
spostamenti nell’ambiente, i loro gesti hanno molta più importanza dei
sentimenti che si dipingono sul loro volto, oppure di ciò che dicono. De
tresto, che “ sentimenti “ potrebbe mai “ esprimere “ Ingrid Bergman? Il suo
dramma è ben al di là di ogni nomenclatura psicologica. Il suo volto non è che
la traccia di una certa qualità di sofferenza.
Che una tale messa in scena richiami una stilizzazione il più evoluta
possibile, Europa 51 lo prova con
evidenza. Un film del genere è il
contrario stesso del realismo “ colto sul vivo”: l’equivalente di una scrittura
austera e rigorosa spoglia a volte dell’ascesi. Giunto a questo punto il
neorealismo ritrova l’astrazione classica e la sua generalità. Di qui questo
apparente paradosso: la versione buona del film non è quella italiana doppiata
ma la versione inglese in cui è stato conservato il massimo di voci originali:
Al limite di questo realismo l’esattezza della realtà sociale esterna ridiventa
indifferente. I bambini delle strade di Roma possono parlare inglese senza che
noi pensiamo a questa verosimiglianza. La realtà per il tramite dello stile si
riallaccia alle convenzioni dell’arte.
Il neorealismo e il
post-neorealismo.
Il cinema italiano secondo André Bazin,
op. cit.