mercoledì 7 maggio 2014

Mexico indigenista

Questa volta Benito Alazraki il regista di El Toro Negro lo portiamo dentro il


Circolo di Cultura Cinematografica " Yasujiro Ozu " 

Complice anche il compagno Georges Sadoul che ebbe parole di elogio verso questo regista messicano, nonché poeta e guinonista, vale a dire soggettista.

Raìces ( Radici, 1954) è considerata una delle pellicole pioniere del cinema messicano indipendente, realizzata in condizioni molto speciali al margine del meccanismo produttivo convenzionale. La si deve principalmente al produttore Manuel Barbachano- Ponce e allo sceneggiatore Carlos Velo esule in Messico dalla Spagna franchista.
Concorsero alla riuscita finale anche il cinematographer  Walter Reuter, che fu responsabile delle luci del langhiano Metropolis (scusate se è poco) e un gruppo di autori di musica colta tra i più dotati di quel paese.
Se c’è una cosa da accostare a Raìces è una raccolta di musica popolare messicana,Mexico, fiestas of Chapas & Oaxaca, registata da David Lewiston negli anni settanta del secolo scorso e pubblicata dalla Elektra Nonesuch, proprio in alcune delle regioni dove è stata girata la pellicola di Benito Alazraki. L’intento è lo stesso: raccogliere e conservare le tradizioni dei costumi come dei suoni delle popolazioni indie.
Nell’opera Aazraki anticipa lo stile che contraddistinguerà El Toro Negro: coniugare la finzione con il documentario ; si suddivide in quattro episodi più un prologo costituito da una serie di immagini che riproducono il paesaggio archeologico messicano e la sua relazione con gli abitanti indigeni che rappresentano il popolo nativo, autentico, che ha dato forma alla nazione messicana prima di Cortez il killer. Ogni episodio è introdotto da una voce femminile o maschile che corrisponde al punto di vista di un personaggio, non necessariamente il protagonista. Inoltre ogni episodio è volutamente interpretato da autentici indios reclutati nelle zone dove si svolgono i fatti.
In sintesi il primo episodio La Vacca descrive la povertà di una coppia di giovani alle prese con la mancanza di cibo per se stessi e la neonata figlioletta, la giovane donna finirà collaboratrice domestica in città per aiutare marito e figlia; nel secondo, Nostra Signora, una studentessa americana arriva in bicicletta per scrivere la sua tesi di laurea sulla vita selvaggia degli indios messicani, scoprirà che gli indios sono molto più evoluti di come li aveva studiati e descritti; il terzo, Il Guercio, un bambino cieco di un occhio, deriso dai suoi coetanei viene condotto dalla madre dapprima da una specie di stregone e subito dopo in pellegrinaggio al santuario dei Re Magi per essere miracolato, a causa di uno scirfarolu, petardo, perderà completamente la vista, conseguentemente gli altri ragazzi non lo insulteranno più; in fine, La Puledra, un archeologo straniero impazzito per una giovane india propone al padre di lei l’intenzione di comprarla col risultato di sentirsi chiedere da quest’ultimo la moglie per il doppio del valore della giovane.
In tre degli episodi il contrasto è tra i personaggi di pelle scura contrapposti ai bianchi, il rimando è evidente: il mondo autentico delle popolazioni indie in opposizione a quello civilizzato; si aggiungono anche elementi simbolici di rottura come l’automobile decappottabile dalla cui radio fuoriesce un motivo moderno, il quadro della Gioconda , le croci ed il congegno in legno e corda per trascinare il ragazzo cieco che stabilisce una correlazione tra essere umano e animali da lavoro, i vestiti della giovane ragazza, oggetti di feticismo per lo straniero.
Sempre il compagno Sadoul riteneva, ed altri con lui, l’episodio del guercio il meglio riuscito con quel sapore di cinema estetizzante europeo di sapore neorealista: in poche parole felliniano.


lunedì 5 maggio 2014

Michelangelo sincero

1912 - 2007

“ Le mie opinioni, i miei errori, che sono quanto c’è di più personale nelle mie esperienze, trasmetteranno il mio messaggio, se sono sincero. Esser sincero implica fare un’opera un po autobiografica “.
Michelangelo Antonioni

lunedì 28 aprile 2014

Monroe Stahr, il nichelino e il cinema


  " Lasciate stare i dialoghi per un momento “  disse  Stahr. «Ammetto che i vostri dialoghi sono più eleganti di quelli che sanno scrivere quei due sceneggiatori... vi abbiamo fatto venire qui per questo. Ma immaginiamo qualcosa che non sia né un pessimo  dialogo  né un salto nel pozzo. C’è una stufa nel vostro ufficio,  una di quelle che si accendono con un fiammifero ? “  “ Credo di si “ rispose Boxley, sulle sue. «Ma non  l'adopero mai. ››  « Supponete di trovarvi in ufficio. Avete duellato o  scritto per tutto il giorno e siete troppo stanco per continuare a duellare o a scrivere. Ve ne rimanete seduto,  guardando nel vuoto... intontito, come capita a tutti,  qualche volta. Una graziosa stenografa che già conoscete entra nella stanza e voi la guardate... apatico. Lei  non vi vede, benché le siate molto vicino. Si sfila i  guanti, apre la borsetta e ne rovescia il contenuto su  un tavolino... ››          
  Stahr si alzò, gettando sulla scrivania il mazzo delle  chiavi.
  « Ha due monetine d'argento, un nichelino... e una  scatoletta di svedesi. Lascia il nichelino sul tavolo, rimette le monetine nella borsetta, prende i guanti neri,  si avvicina alla stufa, l'apre e vi mette dentro i guanti.  Nella scatoletta c'è un solo fiammifero e lei fa per  accenderlo inginocchiata accanto alla stufa. Voi notate  che la finestra aperta lascia passare una forte corrente  d'aria... ma proprio in quel momento suona il telefono.  La ragazza prende il ricevitore, dice pronto... ascolta...  poi, in tono reciso, dice al telefono: “Non ho mai  posseduto un paio di guanti neri in vita mia”. Riattacca, si inginocchia di nuovo accanto alla stufa e, proprio mentre accende il fiammifero, voi vi voltare, di  colpo, e vedete che nell'ufficio c'è un altro uomo, a  spiare ogni movimento della ragazza... ››   
  Stahr tacque. Prese le chiavi e se le mise in tasca.
  « Avanti» disse Boxley, sorridendo. «Che cosa succede? ››
  «Non lo so ›› rispose Stahr. «Stavo soltanto facendo del cinema. ››
  Boxley senti di essere stato messo nel sacco.
  «Non è altro che melodramma ›› disse.
  «Non necessariamente ›› replicò Stahr. «In ogni modo, nessuno si è mosso con violenza o ha avuto una  qualsiasi espressione facciale, né vi è stato alcun dialogo volgare. V'era una sola brutta battuta, e uno scrittore come voi potrebbe migliorarla. Comunque, sembravate interessato. ›› 
  «A che serviva il nichelino? ›› domandò Boxley,  evasivo.
  «Non lo so ›› disse Stahr. A un tratto rise. « Ah,  sí... il nichelino serviva per andare al cinema. ››  
     
Tratto da Gli ultimi fuochi di F. Scott Fitzgerald, trad. Bruno Oddera, Oscar Mondadori 1974

domenica 27 aprile 2014

Faulkner, Hemingway, Malraux e il cinema italiano nel dopoguerra


Tecnica del racconto 

Come nel romanzo, è soprattutto partendo dalla tecnica del racconto che si può rivelare l’estetica implicita dell’opera cinematografica. Il film si presenta sempre come una successione di frammenti di realtà nell’immagine, su un piano rettangolare di proporzioni date, dove l’ordine e la durata di visione determinano il “ senso “. ‘oggettivismo del romanzo moderno, riducendo al minimo l’aspetto propriamente grammaticale della stilistica, ha rivelato l’essenza più segreta dello stile. Certe qualità della lingua di Faulkner, di Hemingway o di Malraux non potranno certamente essere rese in una traduzione, ma l’essenziale del loro stile non ne soffre affatto perche lo “ stile “ si identifica quasi totalmente in loro con la tecnica del racconto. La sceneggiatura di Quattro passi nelle nuvole è altrettanto ben costruita di quella di una commedia americana, ma scommetterei che un terzo delle inquadrature non era rigorosamente previsto. La sceneggiatura di Sciuscià non sembra affatto sottomessa a una necessità drammatica rigorosa e il film termina su una situazione che avrebbe potuto benissimo non essere l’ultima. Il delizioso filmetto di Pagliero La notte porta consiglio si diverte a legare e slegare malintesi che potevano essere senza dubbio mescolati del tutto diversamente. Sfortunatamente, il demone del melodramma, al quale non sanno mai del tutto resistere i cineasti italiani, vince qua e là la partita, introducendo allora una necessità drammatica dagli effetti rigorosamente prevedibili. Ma questa è un’altra storia. Ciò che conta è il movimento creativo, la genesi particolarissima delle situazioni. Il cinema italiano possiede quell’andamento da reportage, quella naturalezza più vicina al racconto orale che la scrittura, più allo schizzo che l dipinto. Ci voleva la spigliatezza e l’occhio di Rossellini, di Lattuada, di Vergano e di De Santis. La loro macchina da presa possiede un tratto cinematografico molto delicato, delle antenne meravigliosamente sensibili, che gli permettono di cogliere d’un tratto quel che si deve, come si deve. Nel Bandito, il prigioniero di ritorno dalla Germania scopre che la sua casa è distrutta, Non resta più degli edifici che un ammasso di pietre circondato da muri in rovina. La macchina da presa ci mostra la faccia dell’uomo, poi, seguendo il movimento dei suoi occhi, fa una lunga panoramica di 30 gradi che ci rivela lo spettacolo. L’originalità di questa panoramica è doppia: 1) all’inizio siamo esteriori all’attore dato che lo guardiamo tramite la macchina da presa, ma durante la panoramica ci identifichiamo naturalmente a lui, al punto di essere sorpresi quando, scoperti i 30 gradi, scopriamo un volto in preda all’orrore; 2) la velocità di questa panoramica soggettiva è variabile. Comincia di filato, poi quasi si ferma, contempla lentamente i muri in rovina e bruciati al ritmo stesso dello sguardo dell’uomo come mossa direttamente dalla sua attenzione. Un’inquadratura del genere si avvicina nel suo dinamismo, al movimento della mano che disegna uno schizzo; lasciando dei bianchi, abbozzando qui, là delineando e frugando l’oggetto. In un découpage del genere il movimento di macchina è molto importante. La macchina da presa dev’essrere pronta tanto a muoversi quanto ad arrestarsi. Carrelli panoramiche non hanno il carattere quasi divino che dà loro a Hollywood la gru americana. Quasi tutto viene fatto ad altezza d’occhio o a partire da punti di vista concreti come potrebbero essere un tetto o una finestra. Tutta l’indimenticabile poesia della passeggiata dei bambini sul cavallo bianco in Sciuscià si riduce a un’angolazione dal basso che dà ai cavalieri e alla cavalcatura la prospettiva di una statua equestre. La macchina da presa italiana conserva qualcosa dell’umanità della Bell-Howell da reportage inseparabile dalla mano e dall’occhio, quasi identificata con l’uomo, prontamente accordata alla sua attenzione. Quanto alla fotografia, va da sé che l’illuminazione non assumerà che un debole ruolo espressivo. Prima di tutto perché essa esige il teatro di posa mentre la maggior parte delle riprese vengono fatte in esterni o in ambienti naturali, e poi perché lo stile reportage si identifica per noi col grigiore dei cinegiornali. Sarebbe un controsenso curare o migliorare eccessivamente la qualità plastica dello stile.

 Il neorealismo e il post-neorealismo.
 Il cinema italiano secondo André Bazin, op. cit.

mercoledì 23 aprile 2014

Dos Indios mui valientes


Emilio " Indio " Fernandez 1904 - 1986


Gian Maria " Indio " Volonté 1933 - 1994

martedì 22 aprile 2014

Gabino Torres matador

OGGI
Pellicole come quella di oggi erano escluse dalla programmazione domenicale del Cinema Loreto di Platì. Esse venivano proiettate durante la settimana lavorativa, il martedì o il giovedì, esclusivamente per un pubblico adulto alle 19,10, spettacolo unico. Un trentenne squattrinato aspirante toreador vive con una combriccola di suoi coetanei ai margini di Mexico City sognando sempre il momento della verità. Ha una fidanzata che gli vuole bene e gli passa il denaro per i bisogni di tutti i giorni. Essa allo stesso tempo simpatizza (solo?) con altri ma ama solo Gabino che ama l'arena. Un giovane già affermato toreador un giorno dice a Gabino che andrà a partecipare ad una toreada che ha lo scopo di raccogliere soldi a fini caritatevoli in un paese poco distante la grande metropoli. Gabino si presenta al sindaco del paese offrendo disinteressatamente la sua prestazione ma è rigettato perché sconosciuto nelle arene. Senza scoraggiarsi trova un sostenitore nel parroco del paese a cui spiega la partecipazione alla gara al solo fine di esaudire un voto contratto con Santa Lucia a favore della madre sofferente. Gabino con l'aiuto della fidanzata e degli amici riesce a procacciarsi i soldi che servono per partecipare alla gara, vestiario compreso. Il giorno arriva ma il sogno di diventare torero si infrange a causa della mediocre prestazione di Gabino, al quale non rimane che un amaro ritorno in città. L'idea originale del film è dello stesso attore protagonista, Fernando Casanova, a cui Luis Alcoriza si presta per la sceneggiatura. Il lavoro, portato a termine da Benito Alazraki lo si può spartire in due parti fuse in moviola dall'esperta Gloria Schoeman: quella prettamente di finzione in cui agiscono gli attori professionisti e quella semi documentaria attorno alla vita delle mattanze a discapito dei tori. La prima, col senno di poi, sembra che debba qualcosa ai ragazzi di vita o all'accattone pasoliniani, e dobbiamo dire che il regista se la cava egregiamente abbozzando tutta una moltitudine di marginali, non solo l'aspirante torero e la sua fidanzata, tra cui citiamo il padre di lei ex allenatore di toreri confinato sulla sedia a rotelle per un incidente sul lavoro e l'amico consigliere che segue e incoraggia il protagonista nel suo girovagare per trovare un ingaggio. La parte semi documentaria è senza dubbio la più riuscita. Sono centinaia i film che hanno i toreador e l'arena per soggetto (compreso quello con Totò, Fifa e arena), ma ai toreri e alle arene messicani non siamo avvezzi. Sin dalle prime immagini Benito Alazraki ci immerge in tutto ciò che accade dopo e attorno alla mattanza accostandoci alla moltitudine di persone che la seguono o vi prendono parte: i bambini che corrono dietro al matato toro appena uscito dalla polverosa arena, sgozzato il quale ne bevono il sangue; e ancora tutta quella moltitudine di campesinos assiepati sugli gradinate o seduti sui corral che bevono gassosa. E la vita paesana che ruota attorno ai festeggiamenti per la santa portata in processione in mezzo a bancarelle e ambulanti venditori con la conclusione notturna con i fuochi d'artificio a base di girandole scintillanti e cavalluccio, o forse è un toro?, scoppiettante. Questa parte, per tornare all'inizio, ricorda molto quanto accadeva a Platì per la festa della Madonna del Rosario o dell'Immacolata davanti alla chiesa del Rosario con il popolo esultante.

giovedì 17 aprile 2014

Come in un gioco insensato. Appunti sulla Calabria di De Seta.

Vittorio De Seta
1923 - 2011
La costruzione sconsiderata del Sud, così come massimamente si è compiuta dal secondo dopoguerra in avanti, è il concetto cardine di In Calabria, il lungo documentario che Vittorio De Seta girò nel 1993, quarant’anni dopo quelli che il regista palermitano da poco scomparso dedicò alla civiltà preindustriale del Mezzogiorno. È un film a colori, girato in 16 millimetri e della durata di ottanta minuti, sulla disintegrazione del sistema sociale meridionale già paventata negli anni Cinquanta all’interno dei documentari più brevi dei quali si è parlato nei numeri 42 e 44 di «Lunarionuovo» e che, come rivelano le immagini di In Calabria, puntualmente si è compiuta nella fase tarda della modernità: al tempo ritualizzato e all’esigenza di armonia di una volta sono subentrati il ritmo frenetico e il progresso insensato legati a un’idea di industria e di macchina che, non funzionando, è sfociata in degrado ambientale, emigrazione, disoccupazione e criminalità. De Seta individua in Calabria alcuni dei simulacri di questo fallimento e ne estende la portata all’intera civiltà capitalistica; il più delle volte si tratta di luoghi abbandonati: i paesi fantasma, come Laino Castello, le rovine delle fabbriche disseminate sulla piana di Lamezia Terme, il porto inutilizzato e il centro siderurgico di Gioia Tauro, sono tutti residui di una insufficienza che, secondo De Seta, è spirituale prima ancora che economica e sociale e che il rinnovamento della sacralità tradizionale di alcune feste religiose, come quella dei santi Cosma e Damiano a Riace, della Madonna della Montagna al santuario di Polsi e di san Rocco a Gioiosa Jonica, non riesce, ovviamente, a colmare del tutto. Ma, d’altro canto, permane in quel vuoto anche il sapere accademico, frammentato com’è in un’infinità di specializzazioni che non sono capaci di rispondere alle domande essenziali dell’uomo e che, in Calabria, trova il suo equivalente nella fredda struttura dell’Università di Arcavacata come De Seta non tarda a evidenziare nelle sequenze centrali del film.
La religiosità cui egli allude è, più propriamente, un principio di bene morale e di solidarietà, cui è possibile attingere soltanto attraverso un richiamo continuo al proprio senso di responsabilità e, in conseguenza di ciò, alla propria vera identità, all’autenticità della propria cultura, al progresso delle coscienze. E invece
 In Calabria mostra un Sud senza senso («tutto alla rinfusa, senza un disegno, come in un gioco insensato» recita la ferma voce fuori campo commentando gli ultimi fotogrammi della pellicola) che versa in una condizione ormai difficile da risanare, nonostante sia lo stesso De Seta a indicare con chiarezza e, specialmente nel finale, con qualche eccesso di retorica, quale strada si sarebbe potuta percorrere: quella della semplicità, dell’accordo con la natura, della concordia, dell’altruismo. Un cammino che, però, non conduca a un recupero liturgico di tali elementi, ma che pervenga, piuttosto, alla celebrazione di una comunità che si riconosca giorno per giorno in ogni aspetto della propria vita. Appare subito evidente come il momento rituale si impregna di significato soltanto se il riconoscimento, e dunque l’esercizio critico delle competenze, è quotidiano, non servendosi esclusivamente, come è accaduto troppo spesso finora, dell’occasione festiva o del richiamo a una tradizione o a una familiarità infondate nel vano tentativo di rinnovarsi, di attualizzarsi. Guardando le immagini delle celebrazioni calabresi, infatti, sorge piuttosto il sospetto, cui si è fatto cenno in precedenza, che esse, funzionando come specchi sui quali cogliere i difetti delle comunità che le allestiscono (oppure insistendo forzatamente su un vincolo tra vita sociale ed evento rituale ormai da tempo consumatosi), finiscano per partecipare al tracollo spirituale del Meridione. Sul versante opposto, è bene comprendere come la Calabria di De Seta incarni il rischio che potrà correre l’umanità intera qualora dovesse prendere in considerazione l’opportunità di attenersi alle logiche del benessere e del profitto a tutti i costi cui si è condannato l’intero sistema sociale rappresentato nel film del ’93.
Ma cosa si nasconde al di là delle rovine così recenti mostrate da De Seta? Esse non costituiscono i frammenti di ciò che è stato deteriorato o di ciò che è crollato; sono, piuttosto, l’indice di ciò che non è stato fatto, di ciò che è rimasto incompiuto e, mediante un paradosso soltanto apparente, di ciò che potrebbe verificarsi in un futuro non troppo lontano. Quei resti sono segni di pietra e di metallo che rimandano esemplarmente a un tempo che consente di misurare il carattere effimero dei destini umani. Ad essi, insomma, non ci si può accostare mediante l’emozione di ordine estetico che suscitano le antiche spoglie di una civiltà scomparsa: segnalano, invece, un tempo vuoto, ma coperto di cemento e di erbacce e, in un certo senso, impuro, spiegabile soltanto storicamente. È per questo che a De Seta è sembrato utile osservare gli scheletri abbandonati delle fabbriche e dei porti calabresi al fine di una comprensione efficace della situazione meridionale nel corso di quella che Marc Augé definisce
surmodernità: essi insegnano a riprendere coscienza della storia proprio nel momento in cui – come sostiene l’antropologo francese – «tutto concorre a farci credere che la storia sia finita»1. Somigliano a cantieri, circondati da terreni incolti, e suscitano un senso di attesa che, destinato a protrarsi indefinitamente, comunica visivamente un disagio di lungo corso, accertato storicamente. Che, rispetto agli anni Cinquanta, il senso dei luoghi sia mutato, che si viva ormai in assenza di riferimenti culturali e che la prospettiva futura sia definitivamente compromessa è facile desumerlo dal modo in cui De Seta, ora più di allora, riesca a creare un piano di riflessione uniforme sul quale porre ogni residuo naturale, l’artificio e le fabbriche, le città abbandonate e quelle infestate dai fumi di scarico delle automobili, le ricorrenze religiose e il modo di viverle. Per constatare cos’è rimasto sotto tutto questo, il regista cerca (e trova) una modalità espressiva che sia in grado di mostrare più efficacemente la disintegrazione del Sud: unisce in un unico ambiente filmico il suono delle campane e il baccano delle automobili e dei camion sui viadotti, i segnali colti spesso in presa diretta dei clacson e dei macchinari per il calcolo e il rumore dei tuoni, dell’acqua piovana e del coltello che incide la pelle del maiale, e persino gli inserti cantati della corale greco-albanese di Lungro e i frequenti ma non debordanti commenti della voce off di Riccardo Cucciolla. Ne viene fuori un film, come di consueto girato da De Seta sulla base di un’esile sceneggiatura, che riesce a documentare il ritmo di quell’universo contaminato, insensato, incomprensibile, senza però sovraccaricare troppo l’attenzione dello spettatore che, mediante un imprevisto quanto flebile esercizio d’ottimismo, continua a essere chiamato a integrare ciò che osserva con la sua sensibilità. Ciò è possibile perché lo sguardo del regista mantiene quell’inquietudine originaria che già caratterizzava i suoi lavori precedenti e che nasconde la reale natura del suo modo di intendere il documentario: esso, in fin dei conti, consiste nel riprendere quello che succede, senza barare, senza cioè influenzare o cercare di indirizzare il corso degli eventi mostrati, anche se questi dovessero sussumere la negazione di ciò che, oltre la superficie delle cose, definirebbe l’essenza del Meridione. Persino nel caso in cui questa dovesse rivelarsi vacante.

ALESSANDRO GAUDIO
1.      M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo (2003), trad. di A. Serafini, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p.
L’originale è qui: