La scoperta di Šukšin è stata uno degli episodi eminenti della Biennale cinema '76. Di più: si può dire senza enfasi che s'è trattato d'una rivelazione. Ora sappiamo che accanto ad Andrèj Tarkòvsikij il cinema sovietico può scrivere oggi a referto nella storia del « cinema che resta ›› anche il nome di Vasilij Makàrovic Šukšin.
Quarantacinque anni corrono tra l'alfa e l'omega della sua esistenza: 25 luglio-1929, villaggio di Srostki nel territorio dell'Altaj nella repubblica russa, sezione meridionale della Siberia occidentale; ottobre 1974, villaggio di Kletskaja, provincia di Volgograd nella repubblica russa, per un attacco d'ulcera perforante, male di cui soffriva da tempo: erano in corso le riprese di Oni sraía/is' za rodinu {t.l. Hanno combattuto per la patria) di Sergej Bondarëuik, dall'omonimo romanzo di «Michail šòlochov. E' sepolto a Mosca, dove viveva con la moglie, l'attrice Lidiija Niikolaévna Fedosséva e le sue due bambine.
La fanciullezza l'ha vissuta in campagna. La grande guerra nazionale contro il nazismo lo costringe ad interrompere gli studi. A quattordici anni va a lavorare. Nei kolchozy fa il bracciante, il muratore, lo scaricatore, il fabbro. Quando è il momento, presta servizio militare in marina. Poi fa il direttore della scuola serale per la gioventù operaia nel villaggio natio: il legame con la terra è ininterrotto, appassionato. Nel '54, a venticinque anni, tenta |'avventura a Mosca. Vorrebbe studiare all'Istituto di letteratura. Gli si rifiutano gli esami di ammissione, perché non ha pubblicato una riga.
Tenta la sorte all'Istituto di cinematografia. Il VGlK è l'“accademia" cinematografica più antica del mondo: ha fortuna, è ammesso ai corsi di regia nella classe di Michail ll'iö Romm, l'autore di Pyška [Boule de suif] e di Deviat' dnei odnogo goda (t.l.: Nove giorni in un anno).
Esce diplomato a trentun anni, nel 1960. Comincia a lavorare per il cinema come attore e come sceneggiatore. Intanto si afferma anche come scrittore con racconti e romanzi che si ricollegano alla grande tradizione della letteratura «contadina››.
Interpreta un film dopo l'altro: Dva Fëdora {t.l.: I due Fiodor] di Marlen Chuciev, 1959; Zolotoi ešelon (t.l.: Il convoglio d'oro) di l|'ja Gurin, 1959; Prostaia istoriia [t.l.: Una storia semplice) di Jurij P. Egorov, 1960; Alénka di Boris V. Barnet, 1962; Kogdà derev'ia byli bol'šimi (t.l.: Quando gli alberi erano grandi] di Lev. A. Kulidìanov,1962; tra gli altri, Miška, Serëga I ia [t.l.: Miska, Serega ed io] di Georgij S. Pobedonoscev, 1962; Kommandirovka [t.l.: Missione di lavoro) di Jurij P. Egorov, 1963; My, dvoe muãöin [t.l.: Noi, due uomini) di Jurij Lysenko, 1963; Zurnalist [t.l.: ll giornalista] di Sergej A. Gerasimov, 1967; Muìskoi razgovor [t.l.:Discorso di uomini] di Igor' šatrov, 1969; U ozeru (t.l.: Sul lago) di Sergièj A. Gerasimov, 1970; Oni sraìalis za rodinu {t.l.: Hanno combattuto per la patria) di Sergej -Bondaröuk, 1974.
Nel 1964 incontra sul set di Com'è il mare?, Lìdija Fedoséevna, allieva di Gerasimov al VGIK e debuttante già nel 1969 in Compagne di Vasilij Ordynski. Si sposano. Per otto anni Lìdija rinuncia allo schermo per badare alle bambine, salvo una breve comparsa in Bratka, primo episodio di Strana gente. Vi ritorna con Peški Iavoãki (1972), su insistenza del marito. E' anche la protagonista femminile di Kalina krasnaia (1974).
La morte impedisce la realizzazione di un nuovo film che Šukšin preparava sul suo romanzo di tre anni avanti, « Sono venuto a darvi la libertà ››, incentrato nella figura di Stepàn Razin, il cosacco che sotto il zar Alessio Romanov (1645-1676] coinvolse i contadini in una jacquerie sul Volga, una rivolta che scosse la sicurezza del potere moscovita (1670-71). Domata la rivolta, Razin fu giustiziato entrando così nella leggenda contadina come campione dell'affrancamento del servi della gleba e come anticipatore della rivoluzione sociale. Sarebbe stato il suo sesto film da regista in dieci anni, dopo Zivêt takòi pàren '(1964), Vaš syn ibrat (1966) e Strannye I/'udi (1969).
Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto 1976
Sulla strada per Baklan un camion
diretto verso un kolchoz accoglie un automobilista in panne; è il presidente
del kolchoz del villaggio List-via/nka, Prokhòrov.
L'autista del camion, «meccanico di
seconda categoria » Paška Ergòrovic Kolokòlnìkov, ventisettenne, scapolo,si
lascia convincere a mutare destinazione al suo viaggio e a seguire il suo
passeggero nel villaggio di Li'stvianka. Il suo camion servirà per trasportare
il legname.
Nel corso di un ballo nel kolchoz
Paška incontra la bibliotecaria, Nastia. Balla con lei e suscita la brusche
gelosie dei vecchi compagni della ragazza.
Nel corso di una visita in
biblioteca, Paška fa la conoscenza dell`innamorato di Nastia, l'ingegnere Zena:
i tre fanno amicizia e si recano insieme ad una sfilata di modelli
autunno-inverno prêt-à-porter, che si svolge la sera in una sala del kolchoz.
Dopo un'incursionie notturna in casa
di Nastia, Paška si rende conto che la ragazza gli preferisce l'ingegnere.
Rivolge allora le sue attenzioni in altre direzioni. Cerca di agganciare
Ekaterìna, una donna divorziata per colpa del marito che beve troppo. La donna
lo resipinge, rimproverandogli la sua fantasiosità, così prossima alla
scapataggine.
Paška decide di presentare un suo
maturo compagno, 'zio' Konrad, a 'zia' Anussia, con l’intenzione di fargliela
sposare. Dopo una gustosa schermaglia, gli riesce di «mettere d’accordo 'zio'
Konrad Stepànovic e Annussia.
Paška si reca poi al deposito di
carburante per caricare dei bidoni di benzina.
Mentre si trova al bar, il suo camion
già carico prende fuoco. Il giovane riesce a scostarlo dalle altre autocisterne
e a gettarlo nel fiume prima che esplode.
ll deposito è salvo, lui 'si ritrova
all’ospedale con una frattura al femore.
E' qui che gli capita di raccontare
agli altri malati le sue immaginarie avventure sulla luna. Da quei momento
viene considerato un eroe. Riceve la visita di un'inviata di -« Novyi Zurnal »
(La nuova rivista), che lo intervista. Nel dialogo col maestro malato e negli ultimi
due sogni, Paška si chiede che cosa sia la felicità. Gli si risponde: “E'
ridere, piangere, perdonare di cuore”. Paška conclude che mette ben conto
continuare a vivere.
ll primo film di Šukšin,
ricavato, come gli altri, da racconti da lui scritti e pubblicati, ebbe subito
una consacrazione. Quella autorevole di Venezia, anche se nel 'ghetto' della
mostra del film per ragazzi. Relegazione incomprensibile se non fosse per quell'aria
di novelletta “edificante” e buffonesca che il film si tira dietro e che gli
valse in patria clamorosi biasimi dalla critica ufficiale, ma anche il primo
premio per la "miglior commedia dell'anno" al festival nazionale di
Leningrado.
Pensato e costruito come opera drammatica da Šukšin, Zivët takòj' pàren' fu preso per un film
brillante, se non addirittura "comico".
E si ebbe reprimende spocchiose e balorde: «E' inammissibile che si glorifichi
l'incoltura del protagonista in una società in cui tutti studiano; che si
predichi il buonsenso in un tempo di grandi rivoluzioni sociali; che si
pretenda di trovare il senso della vita nelle semplici gioie della natura
›› (Lev Anninakij, “Le film soviétique”, 1972, 9, p.35).
Šukšin non se la prese. Poteva
avallare la classificazione del film tra le commedie buffe. Non si rendeva conto
di come e perché fossero scattati questi meccanismi di fraintendimento. Con una
scontrosità e un amor proprio tutto contadino risolse semplicemente di
attenuare quel suo modo naif di articolare il proprio mondo narrativo, nel
quale la natura non è già decorazione di sfondo o elemento esornativo ma è
l'ordito stesso della narrazione; mentre i personaggi ne sono la trama.
La natura, nei
film di Šukšin,
fa corpo con la gente; si anima per essa e con essa. Essa è la situazione del
personaggio: così come il personaggio è la persuasione della situazione. La
vita è totalizzante, fantasiosa e buona, anche quando si fa esattiva: «dobbiamo
pagare per tutto nella nostra vita» è il leit-motiv di Kalina krasnaia, ultimo film di Šukšin,
che offre anzi la più efficace drammatizzazione di questo tema. Drammatizzazione
che viene confermata da quel tono di tenerezza estrema che inarca il film e
dalla forza di convinzione assoluta che il discorso dell'autore ti lascia
addosso: come ogni discorso pensoso di chi, sa di dover abbandonare per sempre la
realtà delle cose care.
Zivët takòi paren'
ebbe, a Venezia una motivazione d'onore piuttosto azzeccata: « Il film russo
offre al bisogno di identificazione dell'adolescente la figura di un giovane
che, pur caratterizzandosi in atteggiamenti tipici della sua età, non si chiude
in schematismi, anzi si afferma in una ricca le complessa umanità”. Questo
paradimma vale però non meno (diremmo: primamente) per il mondo adulto. Il film
è parabola d'una ricerca d'identità.
L'Erlebnis di Šukšin
affiora qui imperiosa: il vagare di Paška di luogo in luogo alla ricerca di se
stesso e di una stabilità esistenziale - le sue allegre scapataggini, quel suo
festoso cicalare, quegli ininterrotti approcci di colloquio sono indice
d’insicurezza -, quel suo andare in caccia della donna ideale che sostanzi e
confermi
la sua consistenza di uomo, divengono materia trasfigurata
di poesia. Ed erano (sono) l'esperienza del Šukšin
giovanetto che lavorava nei kolchozy, che vi si provava in molti mestieri, che cercava
attraverso questa esperienza di colmare il gap di cultura con gli scolarizzati,
lui che aveva dovuto lasciar la scuola a quattordici anni. L'irrequieto ed
estroso viaggiare di Paška sul suo autocarro da una parte tradisce il suo
bisogno di far presto, di recuperare il tempo perduto: non è dunque una fuga,
la sua, ma una ricerca; non è un abbandonar se stesso, è un perquisire, un
inseguire se stesso. E insieme è l'occasione per fare un inventario del mondo
che lo circonda, per ispessire i rapporti tra fantasia e realtà, per capire il
proprio ruolo in una società che cambia.
E' la furbizia contadina a farla da protagonista. Questo
misto di buon senso, di cauta avventatezza, di fiuto delle occasioni possibili,
di pazienza dell'attesa, di impulsiva capacità di reazione alle provocazioni
delle circostanze è istinto vitale, è sobrio amore alle effervescenze della
realtà, è elogio di un mondo asseverato, quello contadino. E' ripugnanza fisica
verso la stupidità che nutre invece certi sciocchi intellettualizzati. Il confronto finale fra la giornalista e Paška,
all'ospedale, sulle ragioni che l'hanno spinto all'atto “eroico"è emblematico.
«L'ho fatto - dice |Paška - perché son stupido ›› A domanda idiota, una risposta
che dice il nome di uno dei peccati mortali dei mass-media, banalità, ovvietà,
stupidità.
E' stato giusto rimarcare (Lev Anninskij, cit., p. 34] che
la finta stupidità di Paška è l'impulsiva difesa dell'uomo nelle situazioni
singolari, eccezionali. Paška si schernisce per l'impresa: che è eccezionale
solo secondo i cliché di comportamento d`una società che ha formalizzato al
massimo i suoi rapporti interni e che inventa i suoi "eroi" solo
quando li sorprende in una situazione “abnorme”, rispetto al mansueto quadro
convenzionato delle sue sicurtà. L'ironia di Paška è la più spontanea manifestazione
di quel pudore “contadino” che pervade tutto il film e che esplode in quella
deliziosa 'novella' che è il “tentativo a buon fine” che 'Paška fa ,di
combinare un'unione tra il maturo “zio' Konrad e la pacioccona 'zia' Anissia.
Konrad è un'ipotesi di Paška adulto: un vagabondo disposto
ormai a barattare la sua pesante libertà con il caldo di una casa, con del buon
cibo, sicuro, ben cotto e saporito.
La scena è un capolavoro di finezza psicologica nel pieno
rispetto dell'id-entità goffa e scontrosa dei due personaggi. Paška è il
folletto che saltella a infiorare un dialogo di reticenze e d'intese che si fa
subito sicuro, spedito e godibile dopo il primo, sospeso approccio.
E l'interprete, Leonid Kuràvlëv, che sembra rivoltato nella
parte sarà presente anche nel primo episodio di Vaš syn i brat; e dichiarerà di non essersi mai potuto esprimere
con altrettanta felicità e facilità che con Šukšin
(Lev Anninskij, cit., p. 33)- anima questo ben azzeccato ruolo di king's fool - ove il sistema
collettivistico sta per il re - di stravagante ed eccentrico antieroe, quasi a
sermoneggiare sottovoce (in un pianissimo che si deve estinguere quasi inavvertito)
sulla destinazione di ogni inquieto cercare e di ogni burlesca ripulsa. E la
destinazione è la casa di campagna. Essa le luogo della pace, la sede della
stabilità. La casa fa corpo con la terra. E la terra non tè infedele.
Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto
1976
A PARTIRE dalla metà degli anni sessanta del secolo della bomba atomica quanti frequentavano i Cineforum o i Circoli del Cinema cominciarono ad interessarsi di Andreij Tarkovskij. A ripensarci, e nulla togliendo alla poesia di Tarkovskij, ci si accorge, ora, che era un autore facile ed adattabile all’occidente meccanizzato fruitore di mode effimere. Alla sua fama Andreij Tarkovskij diede un contributo non indifferente con opere di vario genere. Il continuo viaggiare per motivi di dissenso ideologico con il potere centrale dell’URSS lo rese famoso nei salotti di tutta Europa. Per fortuna l’Andreij non perse la sua anima russa. Egli divenne preda, così, degli uffici stampa che cercavano di contrapporlo con chi la Russia non l’abbandonò mai. E in quel tempo il cinema russo era vivo e vegeto come dimostrano ancora oggi le opere di Elem Klimov, Marlen Hutsiev, Serghei Bondarchuk per citare che pochi. Quel cinema era in fermento anche per l’opera letteraria, cinematografica, e alla presenza scenica, di Васи́лий Мака́рович Шукши́н, Vasily Makarovic Shukshin. La Russia, anzi le Russie, di quel tempo erano ancora legate alla terra ed a un drammatico passato recente come la Seconda Guerra Mondiale. Da questo traeva origine l’arte di Vasily Makarovic. E meglio ancora dall’urbanizzazione inarrestabile dei mужик, mužik, che andava perdendo, per questo, la sua identità come il senso di appartenenza alla terra ed alle stagioni che, per ricordarlo, in quelle regioni sono corte per via dell’innevamento che occupa buona parte dell’anno.
L’opera di Vasily Shukshin è caratterizzata dal breve tempo della sua esistenza terrena essendo scomparso, a soli quaranta cinque anni, mentre ancora era nell’alba della sua maturità artistica. È successo però che, da quel momento, la sua influenza non si è arrestata. I suoi lavori letterari, per lo più racconti, hanno continuato ad essere trasposti sullo schermo, a volte con la presenza della moglie Ли́дия Никола́евна Федосе́ева-Шукшина́ Lidiya Fedoseeva-Shukshin, fino ai giorni nostri.
Se vi è una perdita nell’opera di Shukshin va trovata solo – l’ho dedotto solo in questi giorni visionando varie trasposizioni cinematografiche più recenti - nella natura del supporto da cui traggono origine le immagini. La pellicola era il vero, naturale appoggio biologico per una trasposizione corretta del pensiero di Vasily Makarovic, essendo il supporto digitale dei giorni nostri alquanto privo di anima.
Breve filmografia
di Vasily Shukshin:
come regista
Из Лебяжьего сообщают,Dal
rapporto Lebiazhie, 1960,film di
laurea
Живет такой
парень, Così vive un uomo,1964
Ваш сын и брат, Vostro figlio e fratello, 1965
Странные люди, Strana gente, 1969
Печки-лавочки, Il viaggio di Ivan Serghevic, 1972
Калина
красная, Il viburno rosso, 1974
principali trasposizioni letterarie
Пришёл
солдат с фронта, Tornano i soldati dal fronte,1971
Конец
Любавиных, La fine di Lyubavin, 1971
Земляки,
Connazionali, 1974
Позови
меня в даль светлую, Chiamami da lontano,1977
Fu tra gli artisti di maggior talento che lottarono per descrivere il presente. Ebbe il coraggio e la forza di mostrare sullo schermo il vero muzhik sovietico e il suo mondo, e non la sua consueta falsa immaginazione. Gli spettatori sovietici gli furono riconoscenti per questi frammenti di vita vera, e Vostro figlio e fratello (1966), come pure il suo episodio inserito nel film Strana Gente (1971) divennero dei grandi successi. Scrittore, attore oltre che regista, Shukshin si lasciava solitamente coinvolgere da ogni aspetto dei film che dirigeva. Ottenne il suo più grande successo con Il Viburno Rosso (1973), il racconto veramente inconsueto di un ex carcerato e dei bassifondi sovietici da cui emanava la sensazione che la vita urbana moderna è una fonte corruttrice di malvagità e che è possibile ritrovare una sana moralità soltanto ritornando alle proprie radici nella campagna eticamente pura. In ogni caso, il meglio del suo genio fu espresso nel campo della letteratura, cosa che ebbe ovviamente a influenzare anche la sua concezione di cinema.
Mira e Antonin J. Liehmin Il cinema nell’Europa dell’Est 1960 –
1977, La Biennale di Venezia/Marsilio Editori, 1977