“PECCATO CHE
SIA UNA CANAGLIA”
Per
giungere a Piazza dei Mercanti a Trastevere bisogna passare il Ponte Sublicio,
fare un pezzo del Lungotevere Ripa davanti a quell’imponente decrepito
casamento che è l'Ospizio di S. Michele, poi addentrarsi tra le case. E' una
piazzetta modesta, non molto pittoresca, con l’aria paesana, quasi non sembra
Roma, e per essere a Trastevere è molto tranquilla. Blasetti l’ha scelta per
girarci alcune scene del suo Peccato che
sia una canaglia.
Nonostante
il lavoro degli operai e i riflettori accesi non v'è l’atmosfera di un
avvenimento inconsueto; con quell'aria di confidenza che s'è ormai stabilita
tra il cinema e gli abitanti di Roma le cose vanno tranquille con un aspetto
quasi normale. Blasetti ha preso uno stanzone e l’ha trasformato in bar e latteria
con annesso negozio di panettiere; avrebbe potuto rifarlo in teatro, ma in
questo caso avrebbe dovuto ricostruire anche lo piazza che serviva da sfondo:
perciò ha preferito metterlo qui. Ci sta così bene che quasi, finite le
riprese, lo si potrebbe lasciare lì. Nella casa di fronte la stanza d'ingresso
serve per il trucco, e la vicina camera da letto – sempre a pianterreno - serve
da camerino per Sofia Loren. Seduto su un divano. Anzi deve essere una semplice
rete metallica coperta da un copriletto, Blasetti parla del film. Non occorrono
molte domande, perché Blasetti sa sempre quello che deve dire, e non ci
rinuncia. Anzi se gli si fa una domanda che non gli interessa, ad esempio
perché proprio lui che tra i primissimi in Italia ha usato la pellicola a
colori non abbia mai fatto un film o colori, taglia corto dicendo che non ha
mai trovato un soggetto che lo richiedesse, e riprende il discorso che gli sta
a cuore.
«Questo
film comincia con gli stessi auspici di Quattro
passi tra le nuvole. In quel tempo dovevo fare la Francesca da Rimini ...»
e Blasetti comincia a raccontare come gli è capitato di fare questo film.
Quella
volta il film su Francesca da Rimini se ne andò in fumo, e poiché era ormai
impegnato da un contratto con la casa produttrice fece un film " di
ripiego “, di facile realizzazione, che avrebbe potuto liberarlo rapidamente
degli obblighi con il produttore. Ne uscì invece Quattro passi tra le nuvole. Questa volta il film, che si sarebbe
dovuto fare era niente meno che La figlia di Jorio: firmato il contratto con la
Documento film nel '53 aveva cominciato Io studio della tragedia dannunziana
assieme a Corrado Alvaro e a Suso Cecchi d'Amico. Fin dall'inizio si profilarono
le difficoltà e apparve impossibile approntare il film per l’epoca della mietitura,
indispensabile per gran parte delle scene. D'altra parte non si può neppur dire
che il soggetto fosse del tutto gradito al regista; più volte egli aveva
rinunciato e realizzarlo fino e che alcune idee non avevano consentito di
impostare un certo trattamento. «Approfondendo il lavoro- dice Blasetti -
risultava chiara l’enorme distanza tra l’opera dannunziana e una sua
realizzazione moderna: D'Annunzio l’ha concepita per la lettura e per la scena,
io avrei dovuto renderla in immagini. Perciò i problemi erano molto gravi.
Certo era un onore per me trasporre in film l’opera di un poeta come
D'Annunzio; ma di fronte alle difficoltà forse insormontabili, comunque
sicuramente insormontabili prima dell’epoca richiesta, convenimmo di rinviare il
film - per me l'ho abbandonato del tutto – e di farne uno di rapida realizzazione
per soddisfare gli obblighi del contratto. Tra i soggetti che avevamo letti e
che erano apparsi interessanti c’era questa novella di Moravia, che avevamo
letto quando dovevo fare Tempi nostri.
Anzi era stata scelta in un primo tempo e poi sostituita con "Il
Pupo". La sceneggiai insieme a Susa Cecchi d'Amico, Flaiano e Continenza».
La
storia narrata dal film, dopo le rielaborazioni degli sceneggiatori, è press’a
poco questa: una ragazza e due giovinastri conducono un giovane tassista nella
pineta di Lavinio e tentano di rubargli la macchina. Non vi riescono ed
abbandonano la partita mentre il giovane riporta la ragazza in macchina a Roma;
ma appena è costretto a fermarsi ad un semaforo la ragazza taglia la corda e
scompare. Il tassista si mette alla ricerca della ladra, la trova, ma
disgraziatamente se ne innamora. Il padre della ragazza, un certo Stoppiani, è
pure di professione ladro: usa il sistema della falsa valigia con lo scatto a
molla con la quale ruba le valigie alla stazione. Ma non le ruba tutte: ruba
solo quelle di persone antipatiche, secondo talune preferenze e taluni concetti
quasi umanitari; in profondo contrasto con lo stile della figlia che è volgare
e poco romantica. Le avventure dei due ladri e del tassista terminano
naturalmente nel modo migliore e prevedile, vale a dire con il matrimonio dei due
giovani, mentre il ladro padre—che è Vittorio De Sica-finisce i suoi giorni custode
di non so più che cosa. Con questa umoristica interpretazione della legge del taglione
il bene ha così piena ragione del male.
Poiché
Blasetti, e ci tiene egli stesso ad affermarlo, ha voluto fare con i suoi film,
di qualsiasi tipo fossero, commedie o drammatici, storici o dei nostri giorni, un
certo discorso moralistico a cui tiene particolarmente. Naturalmente ora con un
tono ora con un altro; quale sia il tono di quest’ultimo film appare evidente.
«Quello
di Quattro passi tra le nuvole e di Prima comunione. Qualcosa di mezzo tra i
due. E che cosa vuol dire questo film? Come quei due film non si può dire che
avessero un messaggio, cosi neppure questo ce l’ha. Ma una certa sostanza c'è
l’innato bisogno, l’inconscio bisogno, di pulizia morale e di calore familiare
che si vien sempre più manifestando nella condizione umana attuale inaridita e
abbrutita dalla guerra. Presenta, esasperata, la degenerazione morale,
l’incoscienza di questa degenerazione di cui si deve far debito alla guerra. E
ne presenta, nello stesso tempo il tramonto, il fatto che stia passando di
moda. Certe amoralità, certi cinismi sfrontati, certe ostentate abulie che
risultano naturale portato della guerra, delle sue distruzioni e miserie,
stanno “passando di moda”. Mettilo tra virgolette “passando di moda”, mi dice
Blasetti guardandomi; ed io mi affretto ad eseguire: Sta passeggiando per la
piccola stanza tra il letto e il cassettone con la fronte corrugata, dice le
parole ad una ad una, come se le dettasse. Se per caso tento di interromperlo
con una domanda o un'obbiezione, mi fa cenno dl tacere e prosegue.
Colui
che si ostina in atteggiamenti e tendenze simili ignora che le ferite della
guerra in questi dieci anni sono state in gran parte sanate e non capisce che
pur nella accesa condizione polemica tra i due blocchi di idee — blocchi di idee
più che blocchi di popoli - lo scontro sta fatalmente preparando un’osmosi. Non
faccio l’ottimista di professione, trovo però inutile e di pessimo gusto il
pessimismo di professione. E sono convinto che sbaglia radicalmente sia chi
pensa di poter soffocare le idee che preparano l'avvenire, sia chi pensa di
poter chiudere nella tomba le millenarie conquiste dello spirito umano».
Preso
dalla foga Blasetti si è un po' allontanato dal film ed ha parlato delle sue
convinzioni. Come sempre lo ho fatto con il cuore in mano, con sincerità. Questo
invito alla tolleranza, alla reciproca comprensione è sempre stato il tema a
lui caro. E non c’è suo film, egli ama sottolineare, in cui il tema non sia stato
questo,
anche
quelli che sembrerebbero i più lontani, quelli storici in costume. Come tutte
le persone sincere ed espansive Blasetti ama dichiarare apertamente le proprie
convinzioni ad ogni occasione; cerca appena può di condensarle tutte in una
frase e infilarle in mezzo Il discorso. Dice “le istanze che preparano
l’avvenire", e con ciò ammette chiaramente che le attuali concezioni prevalenti
dei vecchi borghesi sono superate, e dice “le millenarie conquiste dello
spirito umanano", cioè vuole riaffermare la propria profonda convinzione cristiana.
In Blasetti tutto è chiaro: quando parla, quando scrive, quando fa un film egli
impegna tutto sé stesso, convinzioni, fede, esperienze. Le ha tutte presenti,
anche se il film è una semplice commedia, destinato a dire un po' di meno di
tutte queste cose importanti e serie. Cose soprattutto vere.
«Si
- ammette - il film dice un po' meno. Tenute presente tutte queste cose, due ne
ricordiamo: il bisogno di pulizia morale che si fa sentire nel nostro tempo, ed
il desiderio di calore familiare. La vicenda viene raccontata in un clima gaio
e divertente, spesso in chiave paradossale. Ciò non toglie che i personaggi
siano veri, quotidiani, il paradosso non è mistificazione della realtà. Anzi
dirò che per il modo come viene girato, per gli ambienti, il film potrebbe
essere in una chiave genericamente neorealista».
Se
questi erano gli argomenti che stavano più a cuore a Blasetti, ce n'è sempre un
altro che ha il potere di suscitare tutto il suo vigore polemico: l'importanza
del soggetto quale “testo" di un film e la collaborazione tra vari autori
in un'opera d'afte.
Come
è noto Blasetti ha a questo proposito delle idee piuttosto moderne e sganciate dalla
vecchia estetica idealistica; idee cui è molto affezionato e che riafferma
volentieri. La domanda che lo trascina su questo terreno è una domanda
qualsiasi: come mai ha scelto come soggetto un racconto di Moravia? Anzi perché
un regista che come lui dà al soggetto un’importanza cosi grande, negli ultimi
tempi è ricorso così frequentemente alla letteratura, alla narrativa, piuttosto
che a soggetti originali?
«A
prescindere - comincia Blasetti - che il soggetto di Peccato che sia una canaglia trae solo lo spunto da Moravia, e a prescindere
che è stato rifatto e reso testo valido solo nell'ulti1no quadrimestre dal lavoro
degli sceneggiatori, tutti sanno che ormai da tempo l'angoscia di Blasetti è il
testo.
Testo
che, sia detto tra parentesi, non è proprio esattamente il soggetto quale viene
per la prima volta proposto al regista. E', se non necessariamente la
sceneggiatura completa e dettagliatissima di cui egli si serve nella
lavorazione, quel trattamento o copione o qualsiasi altra forma si voglia, in
cui tutte le prime suggestioni del soggetto sono state sviluppate e le figure
hanno trovato il loro aspetto definitivo. Dove ormai i personaggi sono vivi e
la vicenda quale apparirà sullo schermo.
«Tu
mi parli della letteratura - mi dice.
-
Sono dieci anni che sostengo che l'opera deve essere attribuita a tutti coloro
che ci collaborano, e tra di essi gli autori del testo. Ora è chiaro che dando
to un'importanza particolare al testo e al suo autore, scelga per i miei film
testi collaudati da un’esperienza e soprattutto quelli che mi sono congeniali.
E
tornando al problema della collaborazione aggiunge: «A poco a poco
sceneggiatori e registi mi danno ragione. E' arte anche se non è di una sola
individualità, anche se non esprime una individualità sola. Anche se portato a compimento
dalle capacità creative del regista, il film si concreta di molti altri elementi
essenziali cui il regista non ha affatto partecipato nei riguardi dei quali la
sua attività si è limitata ad assimilarli.
Cerco
di riportare il regista discorso sulla letteratura: «Il cinema ricorre sempre
più di frequente alla narrativa; lei pure l'ha fatto spesso negli ultimi tempi.
Come si spiega?».
«Proprio
-per questo. Perché la gente del cinema e i produttori in particolar modo non si
sono ancora convinti dell'importanza del testo, e quindi dei soggetti. Perciò i
soggettisti sono tenuti, anche finanziariamente, su un piano più basso, i buoni
soggetti sono rarissimi; il cinema italiano soffre proprio di una deficienza di
soggetti
e
deve per forza ricercarli nella narrativa. Ciò spiega perché questo sia il momento
degli scrittori.
Rapido
e deciso come sempre, Blasetti si dirige verso la porta e mi saluta. Ho appena il
tempo di ringraziarlo; lui si è già rivolto a Sofia Loren che si sta truccando e
le chiede: “Sei pronta?". Blasetti gira con l'orologio alla mano.
L'intervista è durata esattamente mezz'ora, come mi aveva promesso: dalle otto
e mezza alle nove del mattino.
RICCARDO
REDI
CINEMA quindicinale di divulgazione cinematografica
Anno VII n. 10 - dicembre 1954