NOI siamo soliti
considerare il film russo sulla misura di quelli veduti a Venezia, a Parigi,
nelle Ambasciate Sovietiche: La corazzata
Potemkine, La madre, Le notti di San
Pietroburgo, La tempesta, Ciapaiev. Ma sarebbe strano che
proprio il cinema sovietico non avesse la sua volgarità, i suoi luoghi comuni,
la sua convenzionalità, per quanto in un altro senso da quello del cinema
occidentale. Bisogna dire subito che il cinema, nell'URSS, non gode della stessa
fortuna che ha in Occidente; che il pubblico sovietico preferisce il teatro,
essendo il teatro meglio adatto al suo gusto dello spettacolo, alla sua
tendenza verso il prolisso, al suo piacere di ascoltare la parola, la frase, il
discorso, la concione: infine, alla sua naturale tendenza ai lunghi discorsi.
Difatti, i film sovietici sono lunghi e pausati, e se ci si provasse a
doppiarli, si incontrerebbero difficoltà di nuovo genere, appunto per
l'abbondanza e la lentezza del dialogo. Il pubblico sovietico ha ancora il gusto
della letteratura e dell'attore: vuol vedere il suo attore da tutte le parti,
come vuol sentirne il discorso in tutto il suo giro. Da ciò la tecnica della
recitazione russa, in cui l'attore indugia negli atteggiamenti e pesa molto
sugli effetti; e quel gusto particolare verso la commedia dell'arte che hanno
ancora i russi, e con la lentezza che per forza porta l'improvvisazione o la
calcolata improvvisazione. Questo atteggiamento del pubblico sovietico proviene
sia dalla vecchia tradizione dello spettacolo russo, sia dalla nuova
elementarità sua. È un pubblico semplice e in qualche modo primitivo. Gli
attori vi sono quasi sempre eccellenti, se non altro per la loro diligenza. Non
hanno paura di sembrare abietti in una parte abietta. Non cercano la simpatia umana
altro che nel loro ruolo. E si sa che, in genere, per attori di scarsa qualità,
voler essere simpatici a ogni costo al pubblico è una delle cause delle
interpretazioni generiche e della decadenza del teatro. La simpatia nelle arti
va acquistata facendo veramente l'arte. E noi conosciamo attori che, nelle
parti ingrate, hanno l'aria di fare intendere: «Io
non c'entro niente, queste cose non mi
piacciono; sono stramberie dell'autore; ma io sono il vostro simpatico e affezionato
attore Ipsilonne». Non so a che punto
sia oggi la produzione del cinema sovietico. Parlo di cose osservate cinque
anni fa. Ma se il campione maggiore della cinematografia sovietica è oggi il
film su Pietro il Grande, è segno che essa si aggira tuttavia su soggetti
storici, e con la preoccupazione di rivalutare una storia fino a ieri rinnegata
e spregiata; è segno che la produzione minore, oggi come ieri, ha fatto pochi
passi verso l'interpretazione del mondo attuale, con
una non del tutto ingiustificata preoccupazione di evitare argomenti di vita
quotidiana. Essa rappresenta, piuttosto, una vita ideale, quale dovrebbe essere
o quale sarebbe augurabile che fosse. E in questo non mi
pare che differisca troppo dalla posizione della cinematografia occidentale, da
cui però si stacca in tutto quello che riguarda l'erotismo e l'amore. Il tema predominante
della produzione sovietica corrente è sempre il solito: la prepotenza delle classi
distrutte dalla rivoluzione; la donna è quella che più subisce la prepotenza e
l'oltraggio; sono scene di provincia, georgiane e caucasiane, dove il
pittoresco è più facile; si vede l'oppresso e l'oppressore; inde irae, e trionfo finale. Uno dei motivi di
quella cinematografia è l'odio di classe: delle classi distrutte, nei film
storici, e dei nemici del popolo, nei film di vita attuale. Si ricorderà che
nel film Verso la vita, tutti i
vagabondi riscattati e rimessi all'onore del mondo lottavano contro i
sabotatori. (Il film ebbe un tale successo, che i vagabondi, scesi da tre o
quattro milioni ad appena tre o quattrocentomila, si moltiplicarono improvvisamente). A parte l'odio, che è il fermento più comune di tutte le
opere d'arte sovietiche, quel pubblico ricerca nel film le medesime emozioni di ogni
altro pubblico. Se la ragazza occidentale va al cinema per vedere un piccolo
paradiso che le è negato nella vita quotidiana, un paradiso di successi senza
sforzo, o di piccoli sforzi coronati da grandi fortune, la ragazza sovietica va
a gustarsi lo spettacolo d'una felicità simile trasferita sul piano sociale:
difatti, quando in un film sovietico è scoppiata la rivolta contro il vecchio
padrone o proprietario o borghese, viene il paradiso della conquista dei
piccoli beni che sono al sommo di una mente sovietica. Gli spettatori più
accaniti agli spettacoli nell'URSS sono le donne. Siccome la donna è più
sensibile alle differenze sociali, e la più pronta e tesa ai mutamenti di
condizione, e questo per molte ragioni, e per la possibilità che essa ha di
mutare già col semplice fatto del matrimonio, le donne costituiscono il
pubblico più vivace ed eccitato dello spettacolo sovietico. E come altrove si imita
l'eroina del cinema, quanto a modi, a morale, ad aspirazioni, così si imitano nell'URSS
gli atteggiamenti e la mentalità che fornisce lo spettacolo. Teatro o cinema concorrono
a prospettare il tipo della cittadina e del cittadino che spregiano ogni forma di
vita borghese, ma d'altra parte propongono il tema della nuova borghesia russa coi
suoi ideali nuovi, che sarebbero quelli antichissimi: cioè di stare un po'
meglio. Quello che in altri film è dato come benefizio improvviso del lavoro, o
capriccio della ricchezza, nei film sovietici è dato come beneficio partorito
dalla solidarietà collettiva della vita sociale. Lo spirito sovietico
si sta solidificando intorno alla creazione d'una classe media burocratizzata; è
insomma il popolo che diventa piccola borghesia, o tende con tutte le sue forze
a diventarlo, fenomeno non nuovo e, neppure questo soltanto russo. Bisogna considerare
che il pubblico sovietico è composto per la maggior parte di gente venuta dalla
provincia, e da province remote come possono essere quelle d'un continente che si stende sulla
sesta parte del mondo. Si tratta, inoltre, di generazioni quasi interamente
nuove, le quali, venute alla luce o per lo meno cresciute nel clima sovietico,
sono abituate a considerare il vecchio mondo come un'accozzaglia di persone ricche
e crudeli le quali tenevano sotto il giogo un popolo miserrimo e chiuso in una vita
selvaggia come nell'interno della Mongolia o in Siberia. Questa nuova classe fa
la scoperta dei benefizi della vita civile e in qualche modo solidale, dei
comodi d'una vita servita dall'industrialismo, del diritto di vestirsi
discretamente, di avere tutta gli stessi diritti. Crede in buona fede che
questo sia una promessa nuova del suo assetto sociale e non immagina che
altrove un tale patrimonio, più o meno grande, è già acquisito e perduto e
riacquistato molte volte. Siccome poi, per forza di cose, una nuova borghesia
si deve costituire, e cioè una nuova classe dirigente, un certo odio è
accumulato verso questa inevitabile formazione. Grida e risa di trionfo
accolgono da parte del pubblico ingenuo le vicende della conquista materiale
del benessere nei film, come pressappoco da noi il pubblico saluta festante la giovane
donna che riesce a farsi sposare dal milionario. Insomma, il materialismo dei
film americani, trasferito su un altro piano, non differisce che nelle forme da
quello sovietico. Nel tempo del mio
soggiorno laggiù, ebbi l'occasione rarissima di vedere il pubblico anche di
fronte a un film occidentale. Fu a Mosca; si proiettava un vecchissimo film americano
dei tempi del muto, intitolato La sciarpa.
La vicenda, come succede spesso nell'arte occidentale che sottintende quasi sempre
una critica del costume, poteva servire anche per le menti sovietiche, e con opportuni
tagli era una testimonianza alla propaganda in vigore, nella lotta di classe alle
nazioni capitaliste. (Mentre l'arte occidentale si può ridurre a una critica
della società operante, quella sovietica si può definire come una critica a un
mondo distrutto il cui fantasma domina ancora la fantasia dei superstiti). Si
faceva la coda al botteghino; la sala era affollatissima: il pubblico femminile
era avido di vedere i vestiti delle attrici, sia pure secondo la moda di dieci anni
prima. Un altro film occidentale lo vidi a Baku, un pomeriggio, con oltre
quaranta gradi all'ombra. Era un film ingiallito come un vecchio libro, e quasi
incomprensibile. Non si vedeva altro che gente che liticava, veniva alle mani,
si uccideva. Era di ambiente marinaro. Molti tagli lo avevano ridotto a un
frenetico litigio di fantasmi. Nella sala c'erano una dozzina di persone. Tra
il caldo e l'afa mi addormentai. Il biglietto costava
venti lire. CORRADO ALVARO CINEMA quindicinale di divulgazione cinematografica
ANNO IV – 10 dicembre 1939 XVIII
Tratto dal romanzo omonimo di Luciana Peverelli, Violette nei capelli ha conservato tutta la fresca e tenere poesia che il titolo stesso promette. Mai più forseci sarà dato di vedere in uno stesso film un complesso così completo di gioventù, di grazia e di talento come è quello rappresentato da Lilia Silvi, Irasema Dilian e Carla del Poggio, le tre attrici più giovani e più celebri del nostro Cinema, tanto diverse per temperamento e personalità artistica, ma così vicine al cuore del pubblico che ha già imparato ad apprezzarle ed amarle! A questo trio di freschezza, vanno aggiunti nomi non meno simpatici e cari come Roberto Villa, Carlo Campanini, Aristide Baghetti, Enzo Biliotti, la Giglio ecc. che completano degnamente la indovinata distribuzione artistica del film. Non bisogna dimenticare anche una brillante macchietta di Steno che fa una fugace per quanto divertente apparizione, oltre che l'Aiuto Regista del film insieme a Cattozzo*. Violette nei capelli ha tutti i caratteri per essere veramente il successo dell'annata cinematografica: scene comiche e brillanti si alternano a quelle sentimentali e toccanti, di profonda umanità e sensibilità. Dalla prima inquadratura, che ci presenta una stranissima situazione di Lilia Silvi, al finale, nuovo e commovente, lo spettatore è avvinto e interessato come poche volte lo è stato e lo sarà. Il film è ora già montato e nei prossimi giorni passerà in programmazione nei principali cinema per la distribuzione della «Lux Film».
CINE-NOSTRONOTIZIARIO DELLA FONO ROMA ANNO I N.1 GENNAIO 1942-XX
Nelle immagini: al centro Irasema Dilian, Carla Del Poggio e Lilia Silvi, di seguito la sola Silvi. In apertura le tre attrici e Roberto Villa.
Violette nei capelli è un film di Carlo Ludovico Bragaglia; al film presero parte i futuri registi Stefano Vanzina, alias Steno e Marino Girolami ed il futuro montatore, nonché inventore di una diffusissima giuntatrice, Leo Catozzo (*altrove Cattozzo).
JESSIE L. WESTON, FROM RITUAL TO RAMANCE (Indagine sul Santo Graal), 1920
SIR JAMES G. FRAZER, THE GOLDEN BOUGH (Il ramo d'oro), 1915
We are the hollow men We are the stuffed men Leaning together Headpiece filled with straw. Alas! Our dried voices, when We whisper together Are quiet and meaningless As wind in dry grass Or rats' feet over broken glass In our dry cellar
THOMAS STEARNS ELIOT, THE HOLLOW MEN (Gli uomini vuoti), 1925
LA LEGGEREZZA e
l'ingenuità con cui gli americani trattano e risolvono talvolta le più grosse
questioni restano, e resteranno sempre per fortuna, fuori della logica europea.
Ce ne giunge l'eco a quando a quando ed è come di fatti che ci spingono
dapprima al sorriso e poi ci fanno meditare; perché tutto ciò che è fatto dai
nostri simili di ogni latitudine e longitudine ha sempre fatto meditare gli
europei. La qual cosa, se è sintomo di una superiore intelligenza o per lo meno
di una più robusta preparazione intellettuale, è anche dimostrazione chiara e
lampante di una maggiore serietà. Pare invece che agli
americani questa parola non susciti alcuna soggezione a giudicare appunto dalla
leggerezza, dall'avventatezza, dalla vacuità di certe loro asserzioni. Tanto
che ormai risulta perfettamente inutile esprimere giudizi, fare valutazioni,
eccetera, troppo essendo diversa la nostra unità di misura dalla loro. Conviene
limitarsi a constatazioni le quali molto spesso hanno tanta evidenza che si
commentano da sé. Cosi quando
apprendiamo che il senatore Borah per impedire che fosse approvata dal
Congresso una legge che lo seccava, ha preso a parlare all'apertura della
sessione e, approfittando del fatto che nessuno aveva il diritto di togliergli la
parola, ha continuato fino alla chiusura della sessione stessa, interrompendosi
solo per mangiare e dormire, è superfluo fare considerazioni. Ed è inutile
lambiccarsi il cervello per tentare di capire gli americani quando accettano
ascoltandole attentamente e in buona fede relazioni come quella pronunciata da
Will H. Hays alla radio. Tre ore filate ha parlato Will H. Hays, Presidente
dell'Associazione Produttori e Distributori della cinematografia americana.
Evidentemente la situazione europea preoccupa i cinematografari d'oltreoceano
se il loro capo si è preso tanto disturbo. Di che cosa sia fatta poi codesta preoccupazione
vedremo in seguito; intanto riconosciamo che il discorso del Presidente può
benissimo riassumersi in poche righe. «Oggi — ha detto Will
Hays — che il mondo è impazzito per la guerra, l'America rappresenta più che
mai un grande ideale. Essa ha il dovere di custodire la civiltà politica
culturale e spirituale della razza umana: per questo non può entrare in guerra.
Donne e uomini di tutti i partiti politici devono compiere ogni sforzo per
mantener il paese fuori della guerra, perché solo in tal modo noi potremo
adempiere il nostro più grande dovere, quello di custodi della civiltà, della
libertà umana e della pace. I rappresentanti del cinema americano faranno bene
a ritenere questa la più grande delle loro responsabilità in tale momento». Veramente, quale sia
il compito specifico del cinema in rapporto alla situazione, Hays non dice; ma
è facile intendere che anch'esso dovrebbe svolgere quella propaganda intesa a
preservare l'America dalla guerra. «Malgrado l’handicap
della perdita di molti mercati — ha concluso Hays — l'industria cinematografica
americana riuscirà nel suo intento». Ora, questa potrebbe
anche essere una bellissima chiacchierata se non avesse un difetto
fondamentale: quello di non convincere. Hays prima di tutto, così parlando,
dimostra di essere in mala fede. E stupisce com'egli pensi di darla a bere agli
industriali del cinema americano, gente astuta e tutt'altro che moraleggiante.
Ma forse codesti industriali sanno che il loro presidente ha indirizzato ad
altri le sue parole. A loro aveva già parlato in precedenza. E forse in questi
tempi ha ripreso un discorso cominciato nel settembre dello scorso anno, quando
le cose politiche d'Europa cominciarono a ingarbugliarsi. Fin da allora Hays
aveva chiamato a rapporto i pezzi grossi dell'industria cinematografica
americana e li aveva esortati a tenersi pronti per qualsiasi evenienza. Il che
significava — e Will Hays era stato chiarissimo, tanto che poco dopo poteva contare
su scenari già pronti per essere girati, come li voleva lui — preparare
pellicole adatte ai tempi. Viene la guerra? Produrre pellicole per la guerra.
Non vi è momento migliore per invadere i mercati. Né è da credere che oggi Hays
abbia parlato diversamente. Non ci immaginiamo i Fox, i Goldwyn o i Warner
preoccupati di salvaguardare la pace prima del loro interesse finanziario. Comunque, venga
dall'alto il consiglio o no, un fatto è certo: che l'America sta preparando
pellicole di guerra. Il che è logico. L'America ha sempre avuto in determinate
circostanze un fiuto particolare che le ha permesso di volgere a suo favore il
corso degli eventi. Così quando l'Inghilterra tentò di sfondare le barriere
americane per farvi passare i propri film, Hollywood rispose con una serie di
ottimi lavori esaltanti l'imperialismo britannico, grazie ai quali il tentativo
andò a vuoto. Si ricordano IL CONQUISTATORE DELL’INDIA, I LANCERI DEL BENGALA,
LA CARICA DEI SEICENTO e altri. Per cui non meraviglierebbe, domani, la notizia
che un film di propaganda nazista sta per essere varato nei cantieri
hollywoodiani, e questo dopo LE CONFESSIONI DI UNA SPIA NAZISTA. Oppure una
pellicola sul valore polacco. Il torto sarebbe nostro a mostrare sorpresa, entrando
un fatto di tal genere nella logica americana. Ma allora, viene da
chiedersi, perché e per chi ha parlato il signor Hays? MICHELANGELO
ANTONIONI CINEMA, 1 ottobre 1939, XVII