L’Autore de I dannati non
dice di quali colpe si fosse macchiata
la Germania alla vigilia della catastrofe, quali debiti avesse accumulato verso
l`umanità. Considera le due forze di fronte, e la forza nemica nel momento
della sua disgregazione. Ci risparmia ogni facile orrore, ogni accusa. Un
comandante tedesco è veduto come un impiegato nel suo ufficio, e il suo impiego
è la guerra. C'è una specie di rispetto professionale. E sono lasciate allo
spettatore le considerazioni sull'atteggiamento dell'America verso la Germania,
su questo rispetto professionale della guerra combattuta fino in fondo, a costo
della ultima distruzione di quanto è più caro nel cuore di una città e di molte
città illustri di passato.
Altre considerazioni assai più ardue e
problematiche nello spirito d'oggi sono lasciate allo spettatore, e che non tocca a noi definire, se lo stesso regista
si è fermato a questo punto.
Restiamo nel fatto umano, come il regista vuole restare, e diciamo che un patetico mai scoperto, mai confessato, è quello dell`infelice eroe, dell'inutile eroe di cui nessuno vorrà fregiarsi: la spia nella sua solitudine incomunicabile, che si vieta a una donna come si vieta ogni sguardo che gli possa far riconoscere nel viso del compagno un suo consanguineo, che in ogni gesto teme di tradirsi come ogni gesto finisce col tradirlo, che in prossimità della sua casa telefona a suo padre per sentirne la voce senza sentirsi degno di fargli udire la sua; e alla fine, caduto nelle mani dei suoi come traditore riconosciuto, giudicato dal nemico stesso che ha servito. «In fin dei conti, niente altro che un tedesco».
Per i cultori di squisitezze, la scena della caccia della spia in un teatro bombardato, con un principio di
contagio esilarante della finzione di un mondo di cartapesta negli stessi persecutori, è esemplare di misura.
L`autore non vuole giudicare, abbiamo detto. Non pone neppure un interrogativo. Ci dà lo specchio d'una situazione crudele, uno dei più potenti documenti su un dramma contemporaneo, e tutto sommato non invoca che il silenzio, fuori di ogni opportunità moraleggiante, e d'ogni provvisoria e accomodante spiegazione e soluzione. Ci offre soltanto il ritratto di un protagonista nuovo, d'una tragedia nuova.
CORRADO ALVARO
Restiamo nel fatto umano, come il regista vuole restare, e diciamo che un patetico mai scoperto, mai confessato, è quello dell`infelice eroe, dell'inutile eroe di cui nessuno vorrà fregiarsi: la spia nella sua solitudine incomunicabile, che si vieta a una donna come si vieta ogni sguardo che gli possa far riconoscere nel viso del compagno un suo consanguineo, che in ogni gesto teme di tradirsi come ogni gesto finisce col tradirlo, che in prossimità della sua casa telefona a suo padre per sentirne la voce senza sentirsi degno di fargli udire la sua; e alla fine, caduto nelle mani dei suoi come traditore riconosciuto, giudicato dal nemico stesso che ha servito. «In fin dei conti, niente altro che un tedesco».
Per i cultori di squisitezze, la scena della caccia della spia in un teatro bombardato, con un principio di
contagio esilarante della finzione di un mondo di cartapesta negli stessi persecutori, è esemplare di misura.
L`autore non vuole giudicare, abbiamo detto. Non pone neppure un interrogativo. Ci dà lo specchio d'una situazione crudele, uno dei più potenti documenti su un dramma contemporaneo, e tutto sommato non invoca che il silenzio, fuori di ogni opportunità moraleggiante, e d'ogni provvisoria e accomodante spiegazione e soluzione. Ci offre soltanto il ritratto di un protagonista nuovo, d'una tragedia nuova.
CORRADO ALVARO
«Il Mondo», 19 aprile 1952