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giovedì 6 febbraio 2020

Musolino a Reggio e Gambarie


E' giunto a Reggio, ed ha preso alloggio presso l'Albergo Miramare, il noto attore, nostro concittadino, Vincenzo Musolino, il quale è in compagnia dell'affascinante stellina Fosca Piergentili.
Vincenzo Musolino, che si fermerà a Reggio alcuni giorni, tornerà fra qualche mese per girare gli esterni del film “Duello fra gli abeti” nei pressi di Gambarie.
In questa nuova, fatica cinematografica, affiancherà il bravo Vincenzo Musolino la nota attrice Laghe Cheriman. La regia sarà di Roberto Montero
Ieri sera una piccola folla ha sostato dinanzi all'Albergo Miramare per inscenare una manifestazione di simpatia all’attore reggino, che tanto successo ha ottenuto sugli schermi di tutto il mondo in questi ultimi anni.


GAZZETTA DEL SUD  2 FEBBRAIO 1955

Con Roberto Bianchi Montero Vincenzo Musolino girò solo Nessuno a tradito del 1954 e successivamente Dramma nel porto nel 1956. Il "duello fra gli abeti" a Gambarie non si ebbe, come svanite nel fumo sono Fosca Piergentili e Laghe Cheriman.

domenica 19 maggio 2019

Amori e lotte in Sila






La vita riprenderà ovvero Il sentiero dell'odio, girato da Sergio Grieco in Sila nel 1950 con, in ordine di apparizione, Marina Berti, Piero Lulli, Ermanno Randi e Carla Del Poggio. Il film alla sua uscita non sestò particolare interesse e tutt'ora è inediti, digitalmente parlando. Il secondo titolo fa riferimento a I pascolo dell'odio (Santa Fe Trail) di Michael Curtiz di dieci anni prima.



mercoledì 8 maggio 2019

Isa Miranda interamente calabrese



ISA MIRANDA CI PARLA DI
Patto col diavolo

Isa Miranda e un'attrice assai cara al pubblico italiano. Il suo nome è legato a quello di innumerevoli film, da lei interpretali in Italia ed in America. Oggi Isa Miranda è in piena attività ha appena terminato il film « le Mura dei Malapaga», ha già partecipato al primo colpo di manovella del film « Patto col diavolo », di cui sarà regista Luigi Chiarini.
«L'interesse maggiore che assume per me questo film — ci dice Isa Miranda — sta nel fatto che esso costituisce una esperienza nuova nella mia carriera di attrice: per la prima volta, cioè, io ho preso contatto con un personaggio non convenzionale, ma semplice, sincero ed umano"... l'azione del film si svolge interamente in Calabria. Protagonisti — naturalmente — un uomo ed una donna, figli di ricchi possidenti in lotta tra loro per il predominio sulla zona. I due giovani sono attratti da reciproco amore, ma il contrasto delle loro famiglie che culmina con l'uccisione del padre della ragazza da parte di un sicario del giovane, li separa il giorno stesso del matrimonio.
«E allora? — chiediamo con curiosità a questo punto. 
«Allora — risponde scherzosamente la Miranda — succede i quel che capita sempre nelle storie del genere. I due giovani decidono di uccidersi. Lo strumento scelto per darsi la morte è il treno. Il film ha quindi una specie di finale alla Anna Karenina, ma doppio».
Foto: retro copertina di CINEMA quindicinale di divulgazione cinematografica Anno III - N. 1 Dicembre 1950
Testo: l’UNITA’,  Domenica 13 febbraio 1949

martedì 30 aprile 2019

Neorealismo in Calabria - Corrado Alvaro nascosto


La sequenza d'apertura di Patto col diavolo vale assai più come presupposto per definire un'atmosfera e per stabilire l'importanza determinante degli elementi naturali (il paesaggio vive prima ancora che ci si accorga della vita degli uomini dentro  di esso, ma quale sarà il carattere di questa vita già lo si intuisce) che non per porre le basi del dramma. L'azione - si comprende - dovrà essere regolata da questo clima di solenne compostezza e dovrà mirare a tradurlo in termini umani, in modo che fra uomo e ambiente si crei un significativo rapporto di necessità: il conflitto fra i ricchi e i poveri nasce sotto il segno d'una natura aspra e selvaggia che non sembrerebbe consentire una diversa soluzione. E, infatti, non la consente, ma non possiede peraltro la forza bastevole a imporre la sua soluzione, che è soluzione tragica e disperata. Il rapporto fra uomo e ambiente, che avrebbe dovuto essere impostato e risolto con una esattezza rigorosa, stenta a delinearsi, ed emerge solo a tratti dalla materia narrativa svolta nel lm.  Difetto, questo, non imputabile - come altri vorrebbe - alla statìcità psicologica dei personaggi, ma alla lacunosa giustificazione della presenza di questi personaggi nell'ambiente scelto.  Non risponde al vero l’affermazione che il conflitto non si sviluppi e non si concluda secondo una necessaria progressione psicologica; è piuttosto vero  il contrario, nel senso che proprio la (comprensibile) preoceupazione di evitare la statícità di cui s'è detto ha impedito di inserire adeguatamente - secondo le premesse - l'uomo nella natura e la natura nell'uomo. Il linguaggio da allusivo come avrebbe dovuto essere si fa talvolta rninutamente analitico, troppo concedendo allo scrupolo delle osservazioni particolari (senza, con questo, rifugiarsi nella cosiddetta calligrafia, in Patto col diavolo superata), e non soddisfa che in parte le esigenze del fondamentale rapporto da istituire. Cosi, l’amore tra i figli delle due famiglie antagoniste in alcuni punti si isola in se stesso e insiste su schermaglie dialogiche non opportune né risolutive; così, d'altro canto, i fattori ambientali risentono degli squilibri dell'azione e cedono, in certe pause del racconto alle lusinghe del suggestivo folclore calabrese (nel ballo all'aperto, per esempio, e nel corteo nuziale). L'inserzione del coro nello sviluppo del dramma appare, perciò, forzata e, qualche volta, dannosa al dramma stesso.  Pur essendo, sul piano assoluto dei risultati raggiunti, inferiore a La bella addormentata (che rimane, a tutt'oggi, il migliore lm di Luigi Chiarini), Patto col diavolo rappresenta un progresso sostanziale nel quadro complessivo dell’opera del regista. Il suo atteggiamento è, dopo questo lm, più facilmente individuabile, e può essere senz'altro accolto alla luce delle affermazioni che Chiarini stesso fece e sulla linea lungo la quale il suo credo estetico tende all'espressione compiuta.  Annullato il sospetto di un esperienza calligrafica fine a se stessa, illuminata meglio di quanto prima non fosse la materia più congeniale all'animo del regista, Patto col diavolo potrà costituirà una premessa per il lavoro ancora da compiere. Per quanto non riuscito nel senso che Chiarini si proponeva, il lm già mostra la possibile soluzione dei problemi espressivi che questa tendenza comporta. Primo fra tutti, quello della recitazione, che è forse il più arduo. Gli attori qui sono stati nettamente inferiori al loro compito e non hanno saputo adeguarsi (chi per mancanza di forze proprie e sufficienti, chi per palese incomprensione) al tono che si voleva imprimere al lm: la contenutezza cui hanno cercato dì ispirarsi, li soffoca e a tratti lì svuota d'ogni capacità d'emozione.  Dietro ogni espressione sfocata si intuisce quale avrebbe dovuto essere la espressione giusta, quella cui il regista mirava, e si indovina perché proprio a quella, e in quel modo, egli vi  mirasse.
FINE
Fernaldo Di Giammatteo BN BIANCO E NERO RASSEGNA MENSILE DI STUDI CINEMATOGRAFICI ANNO XI N.10 OTTOBRE 1950

giovedì 25 aprile 2019

Neorealismo in Calabria - arte?

Non essendo esaurienti le due spiegazioni che comunemente si danno, diversa e meno superficiale è la linea direttrice che dev'essere cercata nell'opera del regista. E per scoprila non sarà inutile ritornare su un motivo  polemico contingente che Chiarini ha  illustrato in un editoriale di Bianco e  Nero {e si vedrà come da questo  particolare si potrà risalire ad una posizione generale trasferibile anche sul  piano creativo): «Il neorealismo è un fatto dell'arte del lm, ma non è tutto  il lm... Non tutti sentono quella polemica, non tutti sono portati a muoversi dentro i suoi limiti, non tutti  si ispirano a quel particolare mondo che è il suo tipico mondo. Per questi artisti, che hanno altro temperamento, altre origini, altro stile, altra estetica, la legge è evidentemente un'altra ed è legge corrispondente alla loro interpretazione del fatto filmico, alla loro maniera di concepire e di esprimersi, cioè e una legge propria, egualmente legittima sul piano dell'arte e censurabile soltanto in base ai risultati estetici maggiori o minori che sa raggiungere».
Ora, se Patto coi diavolo è nato con la funzione esplicita di opporre al neorealismo inteso come fatto d'arte  (si osservi: non al neorealismo come maniera, come derivazione programmatica da un fatto d'arte) un'altra posizione che giustichi la possibilità di costruire un lm esteticamente accettabile, non sarebbe logico credere che questo fenomeno accadesse di punto in bianco, per una sollecitazione momentanea o per un semplice capriccio. L'analisi dei precedenti sta ad affermare il contrario, poiché già nella Bella addormentata lo sforzo del regista s'indirizzava, attraverso le esperienze calligrafiche di valore secondario, verso una forma d'arte di carattere meno immediato e istintivo di quella che poteva trovarsi allora in  Quattro passi fra le nuvole di Blasetti  o in Uomini sul fondo di De Robertis.  La calligrafia, intesa nel senso in cui  l’intese Chiarini, non era soltanto una  esigenza culturale ma anche un desiderio di raggiungere, (e di suscitare)  l’emozione estetica mediante un linguaggio allusivo, volto a ricreare ambiente e personaggi con un procedimento di lenta e accurata elaborazione  dei dati materiali, con una costante ricerca di un ti “effetto” complessivo che  non si esaurisse nei singoli momenti  dell'opera ma che da questi momenti  ricavasse il necessario per precisarsi meglio e per acquistare una propria  validità. Nella Bella addormentata si ebbero risultati convincenti ed a tale proposito mi sembra notevole il divario tra questo lm e Via delle cinque lune.
Su questa stessa strada si è posto Chiarini per Patto col diavolo, non senza tener conto delle mutate condizioni in cui si svolgeva il nuovo lavoro, per cui si può dire che la polemica contro il neorealismo e servita a chiarire quanto restava di oscuro e di incerto nelle sue intenzioni. (continua)

Fernaldo Di Giammatteo BN BIANCO E NERO RASSEGNA MENSILE DI STUDI CINEMATOGRAFICI ANNO XI N.10 OTTOBRE 1950

Nella foto: Saro Urzì, Umberto Spadaro, Anne Vernon, Annibale Betrone

mercoledì 24 aprile 2019

Neorealismo in Calabria - controllare la regia


Che cosa significa controllare troppo la regia, e che cosa significa che ogni sequenza è impostata sulla scorta di una rigidità piú critica che creativa? Non significa nulla. Un giudizio di tale genere non è un giudizio, è la ripetizione di un equivoco che impedisce qualsiasi esame obbiettivo, della materia di Patto col diavolo. Si ragiona pressappoco cosí: Luigi Chiarini è un teorico del cinema che nei suoi libri ha lucidamente risolto, sulla base di una concezione estetica coerente, i problemi più importanti dei lm come opera d'arte ed ha perciò dato prova, nei confronti di questi problemi, d'un acume critico indiscutibile. Per conseguenza, i suoi film non possono non essere impregnati di questo atteggiamento che con la creazione vera e propria non ha molti punti di contatto. 
«Controllare troppo la regia» equivarrebbe, dunque, a porsi in una strana posizione di indifferenza verso il film, quasi che fosse possibile comporre un racconto cinematografico ed esserne allo stesso tempo estraneo. Ma il controllo della regia non può, evidentemente, mai essere troppo o troppo poco, poiché l’autore impegna nella sua opera tutto se stesso, e questa totalità di partecipazione creativa non ê condizionata da restrizioni di quantità. Controllo può, semmai, essere sinonimo di autocritica, ma neppure l’autocritica esula dal processo creativo, ne costituisce anzi uno dei componenti essenziali. E le cosiddette «impennate che sono proprie del creatore» non debbono essere giudicate come movimenti assurdi, sfuggiti a un ipotetico controllo critico, perché nell'opera d'arte assurdità e controllo sono, in fondo,  termini senza senso. Tutto può essere, contemporaneamente, assurdo e controllato, a seconda dell'umore di chi osserva l'opera, e con questo metro non è nemmeno pensabile un’indagine critica. Maggiori probabilità di cogliere nel segno parrebbe avere l'esame di quella che nei riguardi di Chiarini si suole da parecchio tempo chiamare «calligrafia››. Fu relativamente facile parlarne al tempo della Via delle cinque  lune e della Bella addormentata, e il  rilievo non era del tutto fuori posto, allora. Ma risolve poco anche il concetto della calligrafia, troppo vago per poter spiegare la personalità di un regista. Anche qui, tirate accuratamente le somme; si scopre la persistenza (anzi, in questo caso, ia nascita) del luogo comune di cui si diceva più sopra e del semplicistico ragionamento sulla teoria e la creazione. Se per la Via delle cinque lune si poteva sostenere che la calligrafia era ne a se stessa, per La bella addormentata il discorso andava in molte parti rovesciato: l'assillo formale sottintendeva, o anche soltanto preludeva ad una precisa esigenza tematica, continuamente presente nel film. Dire che quelle due opere (e, in particolare, a mio avviso, la seconda) facevano parte di una tendenza di avanguardia in seno al cinema italiano d'anteguerra, può essere esatto soltanto se si attribuisce alla cosiddetta calligrafia una funzione in un certo modo rivelatrice di un mondo non chiuso nella contemplazione dei fronzoli stilistici. Altrimenti, l’avanguardia di quei film sarebbe stata ben poca cosa, e il concetto tornerebbe a girare a vuoto, intorno al solito equivoco della posizione teorica di Chiarini.
Fernaldo Di Giammatteo BN BIANCO E NERO RASSEGNA MENSILE DI STUDI CINEMATOGRAFICI ANNO XI N.10 OTTOBRE 1950

lunedì 22 aprile 2019

Neorealismo in Calabria


Patto col diavolo:  Origine: Italia - produzione: E.N.I.-C.  1949 - produttore: Albert Salvatori -  regia: Luigi Chiarini – soggetto: Corrado Alvaro - sceneggiatura: C.  Alvaro, L. Chiarini, Mario Serandrei, Sergio Amidei e Suso Cecchi D’Amico - fotografia: Carlo Montuori -  scenografia: Guido Fiorini - musica: Achille Longo – costumi: Maria De Matteis – attori: Isa Miranda,  Eduard Cianelli, Jacques Frangois, Ave Ninchi, Camillo Pilotto, Umber to Spadaro, Ann Vernon, Checco  Rissone, Luigi Tosi, Annibale Betrone, Guido Celano, Fiore Davanzati, Lamberfo Picasso, Nico Pepe,  Oreste Fares, Alfredo Robert.

       Molti giudizi su Patto col diavolo (e parlo soltanto dei giudizi dettati la onestà critica) appaiono irrimediabilmente viziati dalla facile condiscendenza al luogo comune. Di questo lm si è discusso troppo, e disordinatamente, tanto che riesce malagevole, a distanza di tempo, sgombrare il terreno dalle erbacce che lo infestano. In sostanza l’opinione comune appare sintetizzata in alcuni periodi d’un capitolo sul «cinema italiano del dopoguerra», pubblicato da Sequenza, che non sarà fuor di luogo riferire integralmente. « La puntuale cultura cinematografica, e non solo cinematografica di Luigi Chiarini - si legge  in quel capitolo - controlla troppo la regia e non lascia scampo a nessuna  di quelle assurde impennate che sono  proprie del creatore. Ogni sequenza, ogni inquadratura è troppo freddamente impostata sulla scorta di una rigidità più critica che creativa, e il lm, nel suo complesso, risulta privo di sensibilità, meccanico, ed eccessivamente perfetto. Però intendiamoci, rilievi simili, è soltanto possibile farli su un lm eccezionale, che non può essere trascurato data la sua personalità e che pretende, in modo assoluto, in sede critica, un metro elevato e non alla portata di tutti. Alcune sequenze, come quella iniziale, sono di una rara potenza e si sviluppano con un ritmo rigorosamente visivo, creando, senza indugio, una atmosfera ben definita. L'opera di Luigi Chiarini resta, comunque, su una posizione di punta nella eterogenee produzione cinematografica italiana del dopoguerra.
Che cosa significa controllare troppo la regia, e che cosa significa che ogni sequenza è impostata sulla scorta di una rigidità piú critica che creativa? Non significa nulla. Un giudizio di tale genere non è un giudizio, è la ripetizione di un equivoco che impedisce qualsiasi esame obbiettivo, della materia di Patto col diavolo. Si ragiona pressappoco cosí: Luigi Chiarini è un teorico del cinema che nei suoi libri ha lucidamente risolto, sulla base di una concezione estetica coerente, i problemi più importanti dei lm come opera d'arte ed ha perciò dato prova, nei confronti di questi problemi, d'un acume critico indiscutibile. Per conseguenza, i suoi film non possono non essere impregnati di questo atteggiamento che con la creazione vera e propria non ha molti punti di contatto. (continua)
Fernaldo Di Giammatteo BN BIANCO E NERO RASSEGNA MENSILE DI STUDI CINEMATOGRAFICI ANNO XI N.10 OTTOBRE 1950

giovedì 18 aprile 2019

Calabria terra bruciata



Santo Stefano, Palizzi, Condofuri
rocce sassi greti.
Sabbie inumidite dal sudore dei nudi piedi
di donne gravide affamate
fiumare assetate
prati
ove la morte dal sole arroventata
ogni filo d’erba strappò
dal vostro cielo il paradiso vi guarda.
In questa terra
dalla fiamma di ogni dolore  
di ogni amare bruciata,
anima mia
negli occhi di un fanciullo affoga.

Isa Miranda (1909 – 1982), Una formica in ginocchio, Bologna, 1957. p. 23
ripresa in ISA MIRANDA di Orio Caldiron e Matilde Hochkofler, Gremese  Editore, 1978.

La foto riporta un’immagine tratta da Patto col diavolo di Luigi Chiarini del 1949 su soggetto di Corrado Alvaro.

mercoledì 25 luglio 2018

Festival Time


to know more:
http://daplatiaciurrame.blogspot.com/2018/07/mean-dreams-di-nathan-morlando-2016.html

domenica 11 giugno 2017

Sulla parete trasparente

Il cinema ha dato all’uomo un senso nuovo: di agire come in una finzione e di vedersi agire. (Corrado Alvaro)

La città aperta e bassa aveva un cinema, un giardinetto dove si ballava l’estate, e nei mesi caldi la vita dei
villeggianti.  … I film che avevano maggior successo erano quelli della vita facile spensierata, libera e ardita, la vita delle città. Nella sala bassa e lunga che odorava di stalla si apriva un’altra dimensione, viveva un altro mondo, e pareva che si fosse aperto un quartiere misterioso in qualche luogo della città piatta. Là tutto era facile, senza drammi. I personaggi diventavano gente vera su cui circolavano malignità. Erano presenti dappertutto, non si sa come formavano un mondo ideale, una vicenda quotidiana che amplificava enormemente la città aperta e distesa, la rendeva avventurosa. Con un poco di pazienza si sarebbero scoperti quei personaggi in qualche luogo, si sarebbe imbattuti in essi a un angolo della strada. Quei personaggi erano gli stessi abitanti della città. Leoni non si accorgeva, per esempio, che uno di questi era sua moglie Teresa.
Ella lo era divenuta all’improvviso, senza accorgersene.
La stanza chiusa, i mobili che rivelavano una vita agiata ma distaccata da tutto e quella donna che per la prima volta manifestava un pensiero di opposizione con quelli di lui, gli davano uno sgomento indefinibile. Si ricordò della sala lunga e bassa, con l'odor di stalla, dove era il cinematografo: il suono corrente che se ne sprigionava ad avvicinarsi, le voci che rimbombavano nella stretta cabina aperta in cui si trovava l’operatore, voci che parevano di litigio; e poi entrare nella sala, le ombre di quelle immagini sulla parete divenuta trasparente, la facilità con cui evadevano da una dimensione all'altra, le loro voci gutturali e
gelose, trepide e piene di una gioia incontenibile, i loro passi un poco barcollanti in quel mondo spettrale, in cui sono i sogni degli alberi, dei fiori, dei bicchieri urtati nei brindisi, dei vetri tersi, dei visi tersi, tutto d’una
materia che ricordava la gomma e l’alluminio, il vetro e la bachelite, tutto, anche gli alberi.
“Vogliamo andare al cinema” disse Leoni, come se promettesse una felicità facile e pronta.  
Mentre ella si vestiva nella stanza accanto, gli pareva che la luce fosse divenuta piú limpida, ed egli vedeva ora tutto con altri occhi, quasi facesse parte di quelle scene irreali che tra poco nella sala lunga si sarebbero aperte ai loro occhi, in una specie di sogno lacustre.
In quei giorni il giovane Tommasi che veniva dagli studi fu accolto come praticante dall’avvocato Leoni.
 “Andiamo al cinema insieme una sera” disse Teresa
Adiamo fuori in campagna un giorno. Prendiamo una macchina e scendiamo in aperta campagna si trova una casa isolata. Si colgono ciliegie da un albero, e si mangiano. Facciamo un po' di cucina sul focolare. Si mette a piovere. La pioggia cola dietro i vetri. Circonda tutto e isola ogni cosa. Si. sta a guardare dietro i vetri,”seguitava Teresa, come se raccontasse una favola. Il battito del motore, e poi lo scroscio della pioggia, avevano lo stesso senso del ritmo della macchina del cinema che scandisce ogni movimento dei personaggi.
Immaginava tutto lieve, trasparente, immateriale. Era una specie di malattia che la divorava. Non voleva mangiare  nulla di quello che le era sempre piaciuto; non le piaceva neppure la sua immagine quando si guardava nello specchio. Si sentiva diventare un'altra: precisamente un personaggio del cinema.
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“E’ molto semplice, “ ella disse il giorno dopo; “mi potrei vestire da uomo mentre il Leoni sta fuori di casa; esce alle nove e torna a mezzanotte o all’una. Ci sono almeno tre ore. Potrei vestirmi con un abito di lui. Nessuno lo potrebbe immaginare.”
 Queste cose le nascevano nella mente con una fertilità incredibile, ed era stupita lei stessa della propria fantasia.
“E allora?" ella insistette, con lo stesso fastidio di quando al cinema si rompeva un film e la luce inondava di colpo la sala, e quel mondo fantastico dileguava come una bolla di sapone. "Allora?”
Non e questione, disse Teresa ostinatamente. Veramente, non ci avevo pensato, prima, che potevo vestirmi da uomo. Stasera verrò di sicuro." Ella parlava come se inventasse un dramma, e come se recitasse. Inventava senza fatica, e ci credeva. Inventava perché voleva vedere quell'uomo interamente posseduto da quella fantasia, e non avrebbe smesso fino a quando non lo avesse dominato del tutto. Viveva in un altro mondo, e tutto il suo viso si trasformava.
Teresa ne fu entusiasta.
Mentre pensava a queste cose, sentiva il sangue che le batteva alle tempie, col suono delle trombe e dei violini che al cinema incalzano chi sta prendendo una grave deliberazione. Questo le dava una voluttà angosciosa. Si trovò davanti allo specchio vestita da uomo, con un abito smesso che aveva trovato in un armadio. Si trovò come travestita per scendere in una miniera. Si cacciò un berretto- in testa fino agli occhi. Voltandosi vedeva la curva dei suoi fianchi delineata sotto la giacca, per quanto la giacca fosse larga. Si ritrovò nello specchio col viso convulso di chi si sente precipitare.
Anzi, dapprincipio aveva, almeno per Teresa, qualcosa di nuovo di facilmente riparabile, come se non fosse lei a quel posto, ma ella recitasse soltanto una parte. Il costume che indossava l’aiutava a sentirsi una forestiera. E non diceva le parole che pensava, ma altre parole, carpite in un’altra vita fantastica; le parve di parlare ad altri e non a suo marito. Un senso di film l’accompagnava di continuo, in questo momento i violini e le trombe tacevano dopo averla assordata per tutta la sera, e le parole cadevano liquide come nella dimensione trasparente della parete del cinema
 …
Che cosa e stata la mia vita? … Che sapevo io? Era stupita che tutto fosse accaduto con tanta rapidità e in un modo irrimediabile. Di nuovo l’immagine dei film si ripresentò alla sua mente: porte si aprono e si chiudono; gente appare, e muta il destino d’altra gente; vapori navigano con la felicità a bordo; chi parte per sempre e chi si riunisce per sempre ad altri.
Teresa si mise a piangere silenziosamente …  “Menzogna, menzogna." Ma non sapeva bene a che cosa dicesse “menzogna”, se alla vita passata o a quella che aveva veduto sulla parete trasparente del cinema. Ora piangeva in un deserto.
"Menzogna, menzogna," disse. I violini del film non suonavano più; a un tratto tutta l”orchestra immagina-
ria cominciò a vibrare cupamente seguendo l’agitazione del suo sangue.

*****

Questo ampia selezione proviene dal racconto “I nemici” di Corrado Alvaro racchiuso ne La Moglie e i 40 racconti (Bompiani, 1963), che raccoglie lavori (anche inediti) pubblicati tra il 1930 e il 1955 su riviste o quotidiani con cui lo scrittore collaborava.
“I nemici” è tra i meno noti presso i lettori e la critica vi ha dato poco conto. Non è così che lo si è letto e riletto.
Certamente il periodo di composizione appartiene a quello di un articolo, Come al cinematografo del 1937, apparso su La Lettura mensile del Corriere della Sera.
Nel momento che videro la luce le due opere alvariane la cinematografia di tutto il mondo era ancora nella sua fase adolescenziale; la tesi che nell’articolo si teorizzava è il tema di fondo del racconto: il cinema come fatto sociale e gli effetti che esso produce sugli spettatori, molto spesso un’identificazione con i personaggi che agiscono su una “parete trasparente”. Comportarsi nella vita reale come contagiati da eroine ed eroi dello schermo, ingaggiati a modelli.


giovedì 23 febbraio 2017

I DRAMMI DEI FURBI

di Corrado Alvaro,

JULIEN Duvivier ha preso un soggetto italiano, Don Camillo di Guareschi, che e stato negli ultimi anni uno dei maggiori successi di libri italiani all’estero e che il successo estero ha imposto di rimbalzo in Italia, ne ha fatta la sceneggiatura con un autore francese e ci ha dato un film che sembra svolgersi in una provincia ricca e in vena di scherzi, dove il dramma politico diventa commedia di risentimenti e rivalità piccine ma con una grande aria di buonsenso, pressappoco come la provincia francese quando i francesi tornano alla provincia per una boccata d’aria e scrivono Clochemerle. Lo scenario di questo film è una di quelle ben costruite cittadine padane come Forlimpopoli, Imola, Guastalla, e cento altre. Non ho letto il libro di Guareschi e ignoro perciò quanto di esso si trovi in questa riduzione cinematografica, ma Duvivier non può essersi inventata la figura del prete che, come appare qui, non può essere uscita se non da una mentre italiana. Un prete la cui dote maggiore è una storica furberia, quale da noi si scambia facilmente con tradizione e cultura. Perché forse soltanto da noi succede, quando ci si trova sotto un qualunque regime o governo mal sopportato, di contare sempre sulla furberia d’un avversario di qualsiasi altra specie, pregustando che fra dieci o venti o cinquanta anni, esso riuscirà a fregare il suddetto malvisto governo. La fama più consolidata di furberia è attribuita fra noi al clero, e su di esso contava in genere l’opinione più paziente sotto il fascismo, con preciso intuito. Cosi una tale opinione si rallegrò alla stipulazione del Concordato, e non per altro che pel culto della furberia, l’alta furberia, o diplomazia come si dovrebbe chiamare, di un istituto secolare.
A causa d’un malinteso, cioè d‘un soggetto italiano trattato da un francese con l’occhio turistico di chi è chiamato a dare il suo mestiere in una faccenda che non lo appassiona più d’un viaggio, avremo un tipo di prete inedito fino a oggi nel nostro cinema, e forse anche nella letteratura e nel teatro Guareschi e Duvivier per [manca una riga, N.d.R.] [co]munisti purché sia ben chiaro che questi sono di gran lunga meno furbi di don Camillo, parroco di una cittadina padana, e tanto meno del vecchio vescovo che regge la diocesi. Meno furbi, e non dotati di quell’accortezza e opportunità che elimina blandamente tutte le difficoltà. Che il vescovo costringa, con dolcezza e senza darsene l’aria, il sindaco comunista a dargli il braccio e a passare tra due ali di popolo stupito; che lo accompagni all’inaugurazione della Casa del Popolo; che qui dia la sua benedizione al pubblico degli scalmanati per definizione, e che questo si faccia il segno della croce, e uno di quei tratti di furberia che deliziano il nostro pubblico educato allo spettacolo di contese di questo genere, e cui riduce ormai la storia. Non bisogna omettere che anche il sindaco comunista è furbo, e qualche tiro alle spalle del prete gli riesce; ma non i colpi grossi. Non devono riuscirgli perché egli è un personaggio di comodo. In fondo, la lotta e tra due protagonisti ugualmente simpatici, vecchi amici dall’infanzia e poi combattenti fianco a fianco nella prima guerra. Il prete sente le <<istanze popolari»; come il sindaco comunista battezza il figlio, e si confessa; non si capisce perché abbia la fama di anticristo e perché tutta la gente timorata del paese ne abbia orrore. Se il solo punto di attrito e l’osservanza religiosa, qui i comunisti non fanno che inginocchiarsi e segnarsi. Non si capisce dove sia il conflitto. Ma andate a cercare una stretta logica nel film, dove una serie di considerazioni di opportunità, di facilità, di volgarità, esulano da qualsiasi specie di ragionamento. E inutile andare a cercare ragioni dove una sola è la necessità, quella di fare parti adatte a Cervi e a Fernandel.
Vi sono altro fatti ugualmente esemplari nel film, ed e la vecchia maestra monarchica, la quale insegna a quei poveri ignoranti di anticristi un po’ di ortografia e di grammatica per i loro giornali murali troppo scorretti, e che alla fine muore tra il sindaco e il curato ammonendo che <<i re non si devono mai mandare via ». Uno dei trucchi peggiori dell’arte e di far dire certe sentenze opinabili ai bambini e ai moribondi la voce dell’innocenza e la voce dell’aldilà. Francamente, non è molto leale, non per altro ma per una questione di gusto. Sono colpi bassi pericolosi che possono suscitare l’indignazione proprio in chi si trova addirittura una lacrimetta nella guancia. [manca una riga, N.d.R.] del mestiere, ed egli ha da insegnare, è il rovesciamento dei caratteri; l’attribuzione a un personaggio, accettato con certi caratteri comuni, di qualità opposte a quella che la convenzione gli assegna. E’ il segreto della fattura di questo film.
Il sindaco si confessa e dice le preghiere di penitenza. Ma il prete gli tira un calcio mentre sta in ginocchio, perché il penitente gli ha rivelato di averlo aggredito una sera rompendogli una dozzina d’uova che aveva in tasca. Il sindaco comunista è tollerante, porta la bara della vecchia maestra monarchica, ma il prete ha un moschetto e un fucile mitragliatore. A un certo punto brandisce anche un bastone, di felice memoria, ma il Crocifisso (egli parla spesso col Crocifisso della chiesa, che gli dà suggerimenti di tolleranza e di democrazia con la voce di Ruggeri) lo sconsiglia di adoperarlo, facendo, contro un comizio, quello che il prete dice: la marcia su Roma.
Meno male. Il sindaco è robusto: e Gino Cervi con quel suo umore padano; ma il prete, Fernandel, e più robusto di lui e lo accoppa di pugni quando vengono alle mani. E scaraventa un tavolo su certi comunisti anticlericali venuti dalla città, che lo dileggiano seduti al caffé, ammaccandone ben quindici.
Tutto il film si regge su questa costante legge comica: l’inversione dei caratteri; il mite che è un leone, il fiero che è un agnello, il forzuto che prende le busse, il pio che viene alle mani, il dinamitardo che diventa filantropo, il mangiapreti che si inginocchia, il prete che dà un calcio al suo treppizzi in chiesa, e via dicendo. 
Il dialogo, evidentemente tradotto dal francese, ha quella convenzionalità delle mediocri traduzioni, e questo non è l’ultimo dei coefficienti d’una continua impressione di mistificazione sia pure con le regole del buon mestiere. Ma anche questo mestiere con le sue trovate, e ve ne sono, come per esempio la colluttazione fra prete e sindaco nella torre campanaria, delle cui vicende si ha l’impressione soltanto attraverso i rintocchi delle campane mosse dalle funi tra cui i due si battono, riesce stranamente indifferente. Viene il sospetto che se il cinema può essere deteriore come nessuna altra arte al mondo, capace di falsificazioni in ogni altra arte intollerabili, un buon mestiere applicato a qualcosa di intimamente falso perde valore e diventa offensivo. Ci si domanda che altro spicco avrebbe in un film mosso da motivi [mamca una riga, N.d.R.] la, con quello scenario, quelle squadrature, quell’ordine di portici e di edifici. C’è uno spreco di accorgimenti e di invenzioni attorno a un fatto della più grossolana ispirazione. Tutti, del resto, dal regista agli attori, hanno l’aria di fare un giuoco perché tale è la loro professione e sono pagati per farlo. E raro che questa idea venga in mente a proposito d’un film che pure è sempre un’operazione finanziaria cospicua. E, se uscendo ci si domanda che cosa sia stato turbato in noi da questo film ben condotto, spiritoso come un giornale umoristico, liscio, ci pare che la causa stia nella sua indifferenza morale su tutto e su tutti, in un qualunquismo che non significa saggezza e in un ossequio alla religione per quello che in essa è più formale e meno scomodo, e per il valore che le dà chi se ne serve come politica.
Il Mondo, 29 marzo 1952

giovedì 2 febbraio 2017

Diario di un soggettista - La personalità dell'artista

Ogni presupposto di film, svolto logicamente, dà una soluzione fissa, come la somma di due numeri dà invariabilmente lo stesso risultato. Quasi tutte le soluzioni sono state trovale, come in arte tutti i soggetti sono stati trattati, e da secoli l’umanità ricanta sempre le medesime favole.
C’é una sola differenza fra tante opere, ed è la personalità dell’artista, la sua prospettiva, la sua concezione del mondo e della realtà. Queste cose le sanno i letterati. Ma al cinema la notizia non è ancora arrivata.
  CORRADO ALVARO
(Da “Scenario “, Marzo XV).
BIANCO E NERO  Anno I –  N. 3 –  31 Marzo 1937 -  XV


 FINE

lunedì 23 gennaio 2017

Diario di un soggettista - un'idea immorale per il pubblico

 Discutiamo un‘idea e quest'idea è la seguente. << Si vede un teatro di varietà. Palcoscenico, pubblico, numeri d’attrazione. Siamo in colonia. Tra il pubblico si trovano alcuni ufficiali. Mentre canta una donna sul palcoscenico uno di questi ufficiali ride. La cantante scende e gli appioppa uno schiaffo ». Questo è il principio di un film che qualcuno ha enunziato. Quello che interessa tutti é lo schiaffo. La donna scende e gli da uno schiaffo. Naturalmente tra i due nasce un grande amore.
La scelta d’un soggetto dipende dal momento in cui l’attenzione di tutti quelli che lavorano si appunta su un personaggio, quale esso sia, di dovunque venga. Questo è il lato più misterioso della creazione cinematografica. Un personaggio che ha preso Ia mano domina tutto e non c’è più verso di levarselo di torno. E non si sa come si sia conquistato questo pesto. Eccoci attorno alla donna che canta sul palcoscenico come attorno a un’ostrica che tutti ci studiamo di aprire con ogni mezzo senza scheggiarne la conchiglia.
La cantatrice del palcoscenico è una famosa attrice decaduta.
E decaduta con la guerra che ha travolto molti uomini e molle fortune.
La cantatrice del palcoscenico non può essere tanto attraente perché dalla guerra a oggi sono passati venti anni. Se vogliamo rappresentarla ancora giovane bisogna che andiamo al 1920, e mettiamo tutta l’azione intorno a quell’anno.
Un momento: la cantatrice di palcoscenico può avere una figlia molto bella; e di questa figlia molto bella si dovrebbe innamorare l’ufficiale schiaffeggiato.
Nossignori: la cantatrice di palcoscenico ha una figlia molto bella; di costei s’innamora l’ufficiale schiaffeggialo: ma la cantante é a sua volta innamorata dell’ufficiale che ella ha schiaffeggialo.
Benissimo. Siamo al contrasto. Però l’ufficiale, quanti anni ha? Deve avere pressappoco l’età della cantante. Un’idea. La cantante é stata in altri tempi l’amante dell’ufficiale schiaffeggialo,  e sulle prime non lo riconosce. Lo riconosce poi.
Magnificamente. La cantante vuole impedire che l’ufficiale schiaffeggiato, di cui ella fu amante,prima della guerra, concepisca una passione verso sua figlia e che sua figlia s’innamori di lui.
Molto bene.
Anzi potrebbe finire cosi: lei, davanti alla passione che nasce tra il suo amante di una volta e sua figlia...
Ma state a sentire: se l’ufficiale che era stato l’amante della cantante vuole sposare la figlia di costei?
Per carità. E‘ immorale.
Immorale? E prima non era immorale?
Immorale per il pubblico. Questo offende il pubblico.
C’é una soluzione. La cantante, per impedire che l’ufficiale seduca la sua figliola, gli spara una revolverata.
Ma signori, questo è I’intreccio di Mazurka tragica.
E vero. Ricominciamo daccapo.
                                                                                                                             (continua)
   CORRADO ALVARO
(Da “Scenario “, Marzo XV).
BIANCO E NERO  Anno I –  N. 3 –  31 Marzo 1937 -  XV

giovedì 12 gennaio 2017

Spot


Presentazione

 

lunedì 9 gennaio 2017

Diario di un soggettista - Il pubblico è stupido



Nessun‘arte, e nessuna attività umana, si può tenere in piedi durevolmente e raggiungere l’uomo quando presuppone un disprezzo dell’uomo. Se attori, scrittori, pittori, cineasti vi dicono che il pubblico é stupido e che bisogna lavorare per questo pubblico stupido, tiratene la conclusione che l’arte è a un livello più basso del cosiddetto pubblico stupido. E questo pubblico stupido diserta le arti e gli artisti, si butta dietro le spalle e la pittura e il teatro e il cinema. Poi inselvatichisce e diventa tirannico, stimandosi dappiù dei suoi artisti. Lo è infatti, e pretende d’essere servito e adulato.
Ho conosciuto il regista “che non arriva a certe cose”. E un uomo che parla con dolcezza, mettendo bene in rilievo tutte le sue parole. Egli crea con le mani, fa gesti classici: il gesto delle mani aperte sulle tempie come due paraocchi e di guardare in mezzo ad esse, nell’angolo della macchina da presa. E nutrito di cose viste al cinema, anche lui, e di cose viste nel film americano, russo, francese, ostrogoto. Non sa che tali segreti si scoprono in una lunga consuetudine con la letteratura e che dietro a ogni film buono, russo, francese, inglese, americano, ostrogoto, esiste una base di letteratura. Allora é come se leggesse sempre le grandi opere in traduzione, la traduzione che appunto il cinema fa di ogni motivo letterario. Una volta gli dissero: “Ma perché non leggi, non t’istruisci un pochino?». “ Fossi matto, ha risposto il regista che non arriva a certe cose, fossi matto; non mi voglio sciupare». Egli è convinto, come molti sono convinti, che la cultura guasti certe qualità naturali dell’uomo, la spontaneità, la naturalezza, la volgarità, tulle cose da tenersi gelosamente custodite. Difatti egli concepisce tutto per particolari e per atteggiamenti.
                                                                                                   (continua)
CORRADO ALVARO
(Da “Scenario “, Marzo XV).

BIANCO E NERO  Anno I –  N. 3 –  31 Marzo 1937 -  XV
 

giovedì 22 dicembre 2016

Diario di un soggettista - I nostri registi non arrivano a certe cose


Chiedo che genere di film bisogna accingersi a scrivere. Storico? No, storico no: ce ne sono stati troppi di film storici negli ultimi tempi. Avventuroso? Non abbiamo i mezzi: non disponiamo di un buon truccatore, figurarsi se possiamo disporre di scenografi che diano l’illusione esatta di un film avventuroso. Allora sentimentale. Nossignore. Comico sentimentale. Il nostro pubblico, essi dicono, è grossolano, insensibile, senza gusto. Il nostro pubblico, essi dicono, non ha accolto come doveva i grandi film stranieri e noi non vogliamo rischiare un soldo con film che abbiano carattere d’arte. E attenzione, essi dicono, che il film comico sentimentale che ci accingiamo a scrivere non sia troppo sottile. I nostri registi non arrivano a certe cose. Bene; mettiamoci a pensare un intreccio per i nostri registi che non arrivano a certe cose. 
                                                                                                                             (continua)
CORRADO ALVARO (Da “Scenario “, Marzo XV).
BIANCO E NERO  Anno I –  N. 3 –  31 Marzo 1937 -  XV

Nella foto Isa Miranda in Una donna tra due mondi,1936, sceneggiato da Corrado Alvaro

domenica 11 dicembre 2016

Diario di un soggettista - si cerca un soggetto


di Corrado Alvaro

Si cerca un soggetto cinematografico  e sono state chiamato anch’io. Chissà; può darsi ch’io abbia qualche idea. Si pensa che basti un’idea e si dimentica che nel cinema come in tutte le arti le idee in circolazione sono anche troppe. Il fatto più importante é di menare a buon porto queste idee, e cioè l’arte stessa.
L’atmosfera in cui nasce un film é sempre bella. Stanno tutti ad ascoltare e molto dipende dal fatto che chi narra a voce sia un buon narratore nel senso cinematografico. Aria di festa, di vigilia. Cominciano già a mostrarsi alcune persone che aspettano la nascita del film, attori e attrici. Fanno qualche raccomandazione; se possono; altrimenti tendono l’orecchio e cercano di carpire una frase, un gesto, uno sviluppo. Ogni
creazione ha la sua felicità, e il piacere di chi scrive un film consiste nel vedere come il personaggio di cui ha narrato comincia a prendere consistenza, e come già ognuno degli ascoltatori lo vede, lo porla in sé, gli suggerisce una frase, un atteggiamento. E allora il film è di tutti.

Ho commesso un’imprudenza. Mi pareva una buona idea: mettere in iscena la favola di Amore e Psiche come la racconta Apuleio. Uno degli astanti salta su a dire:  “E chi farebbe Venere, la dea Venere? ». Io penso che basterebbe una bella e garbata e prospera signora, gelosa degli amori del figliolo, che teme di diventar nonna e di sembrare perciò vecchia. Figurarsi se un pittore dei nostri grandi si fosse preoccupato di non trovare un modello per una Venere. “La favola, dico io, è una favola borghese di stile antico e può dare un bellissimo appiglio per un film familiare romano, dopo tanta romanità illustre e pubblica». No, non va. Sostengo che a ogni mode sia meglio cavare un dramma o una commedia da qualche scrittore antico  o nuovo, poiché nella creazione dello scrittore c’è una necessità un’ispirazione e una visione del mondo ben radicata in una tradizione che preme sempre sullo stesso punto. ll poeta cinematografico non è ancora nato, e il cinema di tutto il mondo si giova della letteratura come della sola che possa offrire schemi di significato universale. Per quanto cotesto schema si trasformi nella tecnica del film, serbrerà sempre una sua armonia e una forza.
I professionisti del cinema, tra noi, chiamano “ letterati » gli scrittori, e questa vuol essere una parola spregiativa. Alcuni professionisti del cinema sono letterati falliti, o gente che ai suoi inizi si volse alla letteratura, aspirò alla poesia. Ora, non c’è niente di peggio dello scrittore che non arriva al fondo della sua parabola, poiché nascere con questa vocazione è un segno che non si cancella, cui bisogna obbedire sino in fondo, a rischio di rompersi la testa. Se qualcuno di questi transfughi capisce qualcosa del cinema lo deve alla sua iniziazione letteraria; e molte belle cose si capirebbero meglio con un poco di letteratura e di cultura. Ma essi crollano il capo, si guardano, mormorano: a ”Letterati».
Accade che il direttore artistico da noi sia spesso troppo ignorante come letterato e come tecnico; perciò quasi sempre il pregio maggiore dei nostri film è la fotografia. Basterebbe a cotesto lavoro il semplice e
onesto operatore. E del resto un tempo da noi si faceva così. Poi il cinema grandeggiò, divenne un'arte, la conoscenza meccanica non bastò più. Si nota tuttora come non basti. Lo stato presente della cinematografia italiana è lo specchio di tale condizione. Manon un artista, un “letterato” che si serva, per esprimersi, del linguaggio cinematografico, e non che faccia del linguaggio cinematografico una semplice questione di tecnica. Le tecniche in sé sono appena un presupposto, in tutte le arti. L’esatta osservazione realistica che fa i gradi film è un prodotto dell’ispirazione, e di natura letteraria.
                                                                                                                                           (continua)

(Da “Scenario “, Marzo XV).


BIANCO E NERO  Anno I –  N. 3 –  31 Marzo 1937 -  XV


mercoledì 16 novembre 2016

“ Come al cinematografo “ pat. 2


Ogni arte, e ogni nuovo atteggiamento umano che proviene dalla finzione artistica, agiscono sul principio con una violenza estrema. Come il gusto dell’Opera nell’Ottocento improntò di sé grandi e piccoli drammi umani e penetrò le tecniche delle altre arti e la moda e il linguaggio e la concezione intera della vita, al punto che noi non possiamo pensare a quel secolo se non sotto l’influsso del melodramma, del grande gesto, dell’eloquente, del declamativo, così non possiamo definire il nostro tempo se non sotto l’influsso delle arti meccaniche. Anche all’apparire di queste vi fu un eccesso, una rivoluzione del costume: sembrò che la vita si atteggiasse a cinema, e l’ideale della bellezza virile e femminile e la moda e gli atteggiamenti e il linguaggio e l’arredamento e lo sport. Bisognò abituarsi a questa nuova estetica: tutto per alcuni anni è stato cinematografo, anche negli invasamenti dei letterati. Arte fatta di atteggiamenti e di gesti, foggiò un’umanità  di gesti e di atteggiamenti. Parlo qui delle grandi masse umane. Di dove proverrebbe, diversamente, lo spettacolo che offrono alcune spiagge estive o alcuni campi di sport invernali dove il mare e la neve hanno soltanto un valore di sfondo, di ambiente, di scena, mentre l’importante è di trovarsi come in una rappresentazione,farsi fotografare in costume come in un travestimento, assumere delle pose e vivere nella finzione di queste pose.
Il cinema ha dato all’uomo un senso nuovo: di agire come in una finzione e di vedersi agire. Allo stesso insegnamento del cinema s’ispirano alcuni fatti di cronaca che si leggono nei giornali: ognuno dei protagonisti del piccolo dramma o della piccola commedia quotidiana recitano una parte che ricorda il film di ieri: Gli stessi cronisti hanno imparato a scrivere col movimento dei film. E’ avvenuta una unificazione di costume. A mano a mano che il cinema conquista nuovi popoli vi porta un diverso orientamento della vita; tanto che per alcuni paesi di colore si sceglie la produzione cinematografica che dia la migliore immagine della razza bianca, contagioso com’è l’esempio e il modello di quell’arte. All’apparire di alcuni film polizieschi presso alcuni popoli primitivi, sono accaduti delitti reali ispirati alla finzione cinematografica.
E poi: legioni di ragazze si somigliano da quando hanno per modello le eroine del cinema. L’ultimo colpo alla civiltà di masse, come si chiama comunemente la nostra, lo ha dato la radio che rende il mondo d’ora in ora partecipe degli avvenimenti più lontani nell’istante in cui si svolgono, come a dilemmi che toccano la vita di tutti e che tutti finiscono con l’ingegnarsi a risolvere. Molta della calma antica proveniva dal fatto che dei drammi agitanti la storia quotidiana l’eco arrivava quando il fatto era già al suo epilogo.
Il cinema agirebbe dunque come livellatore e insieme come corrosivo del carattere e della personalità; nello stesso tempo offre alle folle ignare un modello universale come nessun altr’ arte fu capace, né l’Opera dell’Ottocento né la pittura del Rinascimento- Il fatto è che i modelli proposti da questi due secoli nelle loro arti furono ardui, indicavano qualcosa di eroico; mentre quest’arte nuova nella sua espressione più comune offre quasi un galateo della vita quotidiana. Ciò che non sarebbe poco. Per identificarsi a un eroe del Cinquecento o dell’Ottocento occorreva un’aspirazione d’una certa misura, spesso più grande dell’uomo. L’eroe che ci offre il cinema, ha detto un attore americano, è un bravo ragazzo che chiacchiera, sorride, danza, abbraccia una donna bella, passeggia negli ambienti più diversi, sotto la guida di un regista e sotto la regola di uno scrittore d’un truccatore d’un operatore che vogliono renderlo intelligente e affascinante. Per questo i film realistici sono destinati al più sicuro insuccesso, almeno fino a quando durerà l’influsso del cinema americano.
Bisogna consumare questa nuova estetica del costume sociale come si consumano tutti i nuovi atteggiamenti creati dalle arti, poiché sono sempre le arti a determinare gli atteggiamenti umani di fronte alla realtà: Il cinema arriverà alle sue ultime conseguenze e al suo estremo sviluppo. Se seguiterà quale è oggi comunemente, cioè un gioco convenzionale, decadrà come è destino di ogni arte convenzionale. Se affronterà la realtà come ogni altra grande e vera arte, sarà forse meno popolare: e non si può immaginare una così complessa e costosa industria messa a servizio di pochi. Mi sembra ora che un certo cinismo nella vita e nel costume provengano dal cinema, e precisamente dalla sua leggerezza nel trattare le passioni umane. Sempre, quando l’arte fu un gioco sentimentale, la realtà fu cruda e cinica. Poiché l’uomo crede speso di aver pagato il suo tributo ai buoni sentimenti prendendone solo l’atteggiamento. E il cinema ha la virtù di dare a ciascuno degli spettatori l’illusione di essere lui il facile eroe che agisce sullo schermo, appunto perché s’è sviluppato in un paese di differenze sociali profondissime, in America, e noi lo abbiamo accolto e imitato tale e quale.
Il cinema sarebbe al punto cui era l’Arcadia prima della grande fiammata romantica. Convenzione, maniera. L’arte dell’Arcadia “ si presentava come contrasto tra l’onore e l’amore, la città e la villa, tra le leggi sociali e le leggi della natura. Naturalmente è la natura che vince … L’ideale poetico, posto fuori della società, rivelava una vita sociale prosaica, vuota di ogni idealità “. Sembra una definizione del cinema (ed è Francesco De Santis che parla dell’arte del Seicento); del cinema quale è stato codificato, regolato, imposto dall’industria americana e come è perpetuato dai tre quarti dell’Europa. Ma ancora il cinema non ha dato fondo alle sue possibilità tecniche. Verrà il colore dopo il parlato. Poi verrà il rilievo. Al termine del suo progresso non gli rimarrà che diventare un fatto poetico e umano.

CORRADO ALVARO, 1937

lunedì 14 novembre 2016

“ Come al cinematografo “


Quando Eduardo VIII lasciò il trono, apparve nei giornali illustrati una fotografia singolare.. Essa inquadrava un finestrino di automobile, l’ex sovrano guardava fuori col capo poggiato sul palmo della mano aperta che gli copriva metà del viso e un occhio, in atteggiamento né triste né lieto in cui era però l’impressione di qualcuno che ha giocato il destino; sul fondo grigio della tappezzeria, presso l’altro finestrino visto dall’interno, uno dei soliti portafiori di vetro, come se ne vedono nelle automobili, occupava vuoto il resto della scena.
Si pensi un poco ad altre scene della stessa natura: Napoleone che si congeda dalla sua fida Guardia; Carlo Alberto rinunzia al trono, vedute con l’arte del tempo loro. E s’immagini al confronto una storia dei nostri anni quando sarà veduta lontana e raffigurata con l’unico materiale di cui disponga l’epoca nostra: il materiale nuovo delle arti meccaniche per cui di un avvenimento si può tramandare non soltanto l’immagine reale, ma insieme le voci e i suoni e i discorsi; come è accaduto che l’ultimo appello di Eduardo si siano stampati centinaia di dischi. Ho parlato di immagine reale, ma inesattamente. Verso il Secondo Impero la fotografia esisteva, ma le immagini che ci ha tramandato quel tempo risentono d’una parentela con l’arte dell’epoca: basta dare un’occhiata ai dagherrotipi di Napoleone III o di Carlotta del Messico per leggervi le varie tendenze della pittura di quegli anni, e non soltanto dell’arte ufficiale che è la meno significativa, ma di quella eccezionale, d’un Renoir per  esempio.
Per tutto l’Ottocento, una uguale vena assiste ogni raffigurazione artistica, una stessa concezione della vita, ed è tutto di ispirazione teatrale e melodrammatica, cioè la vita è colta  nel gesto, nell’atteggiamento, al culmine del dramma e della rappresentazione. Ne risentono ugualmente la letteratura e la poesia, la pittura e il teatro; tutti i personaggi dell’Ottocento sono, nel miglior senso, eroi te atrabili: don Rodrigo e padre Cristoforo, Père Goriot e Napoleone, Garibaldi e Foscolo. La prevalenza d’un’arte in un secolo rende simili a sé molte manifestazioni della vita. La vignetta di Napoleone che congeda la sua Guardia o quella dell’incontro di Garibaldi e di Vittorio Emanuele al Volturno sono in questo schema d’Opera preciso. Un capolavoro di un gusto assai esigente, la famosa “ Fucilazione di Massimiliano “ di Manet è anch’essa melodrammatica: il gesto dei condannati, gli spettatori come un coro sul muricciolo: L’opera regna sovrana nel secolo XIX come la pittura domina il Rinascimento e del Rinascimento ha il supremo equilibrio, la meditazione breve pur troppo tra divino e umano che fu il carattere di quell’epoca.
Quel che sia accaduto tra i dagherrotipi del Secondo Impero intrisi della tecnica del Impressionismo, e la citata fotografia di Eduardo VIII realistica e documentaria, lo spiega l’avvento di una nuova arte che è influentissima nell’atteggiarsi del mondo contemporaneo: il cinematografo. Quella fotografia di Eduardo VIII è cinematografo, vale a dire nata e ispirata al modo cinematografico d’interpretare la realtà: quello è il gesto e il sentimento che avrebbe ispirato un direttore di scena che fosse artista, e il fotografo ha ubbidito inconsapevolmente all’estetica introdotta dal cinema nella visione del mondo moderno.
Gli ideali della fotografia al suo nascere furono panoramici, di complesso, con l’idea che finalmente si fosse trovata una macchina capace di fornire immagini generali; poi tornarono questi ideali alle leggi di ogni altra arte, alla messa in valore d’un lato eloquente e parziale della realtà. La stessa meccanica diventava tendenziosa e personale. La fotografia ha trovato infine nel particolare la sua estetica e direi la sua ispirazione. Il cinema ha percorso la stessa strada. I primi film erano composti per intero di scene che oggi chiameremmo in campo lungo. Poi si restrinsero allo studio del particolare. Il gesto del melodramma, e di ogni forma d’arte romantica, è riapparso attraverso le arti meccaniche. Vi sarebbe tornato ugualmente per l’esaurimento dell’Impressionismo. A ogni modo oggi ogni forma d’arte esce dal descrittivo, dalla sottigliezza, dal cromatismo, per rivolgersi intera all’uomo. E l’uomo è nel suo gesto, come lo fu dai Greci al Rinascimento e all’Ottocento, cioè azione, poiché non c’è che il gesto per trasfigurare l’uomo nell’arte.
Che questo sia tutto influsso del cinema sarebbe troppo affermare; ma il cinema vi ha contribuito, e l’umanità d’oggi, quando cerca un paragone dell’arte per la vita, dice “ Come al cinematografo “, al modo stesso che nell’Ottocento, si riferiva al teatro e al melodramma.
 (continua)                     
CORRADO ALVARO, 1937