Visualizzazione post con etichetta De Sica. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta De Sica. Mostra tutti i post

lunedì 28 febbraio 2022

Identification of a woman



When Shoeshine opened in 1947 I went to see it alone after one of those terrible lover's quarrels.
I came out of the theater and walked up the street no longer certain whether my tears were for the tragedy on the screen or the hopelessness I felt for myself.
My identification with those two lost boys had become so strong.
Later, I learned that the man with whom I had quarreled had gone the same night and had also emerged in tears.
Yet our tears for each other did not bring us together.
 
Quando Shoeshine (Sciuscià) è apparso nelle sale nel 1947 sono andata a vederlo da sola, dopo una di quelle terribili liti tra innamorati.
Sono uscita dal cinema e ho camminato lungo la strada, non sono più sicura che le mie lacrime fossero per la tragedia sullo schermo o la disperazione che provavo per me stessa.
La mia identificazione con quei due ragazzi perduti era diventata così forte.
Più tardi, ho appreso che l'uomo con cui avevo litigato era andato la notte stessa a vederlo ed era anche scoppiato in lacrime.
Eppure le nostre reciproche lacrime non ci hanno unito.
 
Pauline Kael

 

mercoledì 20 ottobre 2021

Vittorio De Sica fidanzato e uomo ideale


Vittorio De Sica (ben presto) verrà presto adorato e adottato come fidanzato e uomo ideale, per la
spontaneità del suo modo di parlare, per la compresenza nei suoi modi di fare di elementi popolareschi e tratti di nobiltà, cultura e buona educazione, per la capacità di incarnare le aspirazioni a un maggior benessere e alla promozione sociale delle platee popolari italiane. Con il suo modo di guidare una bicicletta o una macchina sportiva, di indossare un cappello, di apparire naturalmente elegante in divisa da autista o in smoking, per il suo modo di salutare, sedersi a tavola o semplicemente sorridere, diventa il naturale transfert del desiderio e dei sogni di un italiano che si affaccia timidamente e in punta di piedi sulla soglia di un paese che si sta industrializzando, ma sa assumere a pieno diritto un ruolo di protagonista sociale e guardare sempre e comunque con grande ottimismo al futuro.

Gian Piero Brunetta

mercoledì 9 dicembre 2020

Corrado A, Umberto D & Vittorio D S



Succede nei racconti popolari, e nei sogni, e nella letteratura più elementare, che il protagonista d'una vicenda si trovi legato a un ambiente e a una situazione perché lo destina cosi la fantasia dell'autore o la simbologia del sogno, e perché accada quello che si vuole accada; ma basterebbe che fosse dotato d'un minimo di libero arbitrio per poter mutare luogo e condizione, e il dramma non avverrebbe. C’è una certa gravità nella fantasia favoleggiante, di fronte a cui si resta perplessi senza ombra di commozione. Non si riesce a definire la causa della nostra scarsa partecipazione e condizione: ma quasi sempre si tratta d`una limitazione della volontà e della libera scelta del protagonista messo nella sua vicenda come in una prigione. Cosi in Umberto D di De Sica: scelto uno dei personaggi più patetici, un vecchio, data una condizione assai comune oggi che è la solitudine, il film scorre senza che noi ci troviamo mai in mezzo alla vicenda, insensibili anche noi come gl`insensibili personaggi che rasentano quel dramma d'uomo. Il perché un'opera di così egregia fattura non ci tocchi, è nel fatto che il vecchio pensionato Umberto D., il cui cruccio consiste nella minaccia continua di essere sfrattato dalla stanza mobiliata che occupa presso una signora piuttosto equivoca, ci è presentato come se non esistessero altre stanze mobilitate nella città di Roma, e anche a minor prezzo, giacché egli paga ventimila lire al mese sulle trentamila che ha di pensione. Non ha ragione per amministrarsi cosi, cioè ragioni sentimentali, di affetto, di consuetudine, legami, ricordi. ...

Ladri di biciclette si reggeva su un filo, con quella mitica bicicletta insostituibile, ma c'era di mezzo un ragazzo, un legame, un dovere, per cui il protagonista agiva e non per sé. Qui il ragazzo è diventato un cane. Umberto D. è arrivato all'astrazione di quella solitudine, e senza l'aiuto di sequenze della forza della messa di beneficienza, e di tutta l'atmosfera mutevole d'una giornata romana, e quella densità di città. ...

Il film è ricco di belle scene, e prima di tutto una visione di Roma monumentale, divenuta scenario quotidiano e in questo senso inedita. E poi la servetta, Maria Pia Casilio, non proprio chiara e forse non del tutto verosimile come psicologia, ma tuttavia letterariamente costruita: le sue spontanee qualità naturali, dai tratti del viso, al corpo, ai gesti, al linguaggio, hanno offerto un gran partito al regista. Basta ricordare i movimenti con cui ella apre la porta della cucina e la richiude mentre regge con le due mani un vassoio carico di vasellame. È una delle cose preziose di questo film, e tutte le volte che questa piccola figura, agisce, De Sica ritrova le corde del suo miglior sentimento. Lina Gennari, la padrona di casa, dà al suo personaggio un colore e una verosimiglianza della più schietta e precisa invenzione. Nell`ambiente di lei, il regista ha messo insieme tutta un'esperienza di osservazioni. Altre figure notevoli: il mendicante dalla voce prepotente e insolente, pieno di avidità e di rancore, figura assai nota a Roma intorno agli anni subito dopo la guerra. E infine, come tratto di umore, il rosario recitato tra malati d'una corsia, per convenienza, per ottenere tolleranza dalla suora infermiera dell'ospedale. E il terzo ospedale che abbiamo visto in un mese nei film italiani.
CORRADO ALVARO, Il Mondo, 22 marzo 1952)


mercoledì 25 marzo 2020

Directed by De Sica


Vittorio De Sica, Caccia alla volpe (After the fox), 1966

giovedì 7 novembre 2019

Irasema zero in condotta




Irasema Dilian (1924 - 1996), Maddalena zero in condotta, Vittorio De Sica, 1940

giovedì 5 settembre 2019

LA CITTA' E LO SPAZIO in Vittorio De Sica - ontologia ed etica


Non vorremmo essere fraintesi. L'ottica con cui abbiamo in queste pagine osservato parte dell'opera cinematografica di De Sica non ha né la pretesa di porsi come l'unica possibile, né quella di essere — per come l'abbiamo condotta — esaustiva. Il lettore accorto noterà che più di una volta le singole conclusioni cui siamo pervenuti coincidono con altre precedenti di diversa metratura critica (e in questo senso abbiamo ritenuto opportuno non rilevare bibliograficamente tali coincidenze di risultati, che però ci guardiamo bene dal negare). L'unico bersaglio che ci eravamo proposti era, come si è detto in apertura, quello di dimostrare il preponderante ruolo che la città e ii suo spazio (o, se si vuole, Io spazio] giocano
nel cinema di De Sica, il modo in cui queste componenti si organizzano e si presentano, ed insieme la sfiducia che l'autore nutre nei loro confronti. Ci sembra ne sia uscita una piccola ontologia dello spazio strutturata secondo alcune evidenti opposizioni (nonché la immagine di un impegno tecnico spesso tutt'altro che casuale).
Un'ontologia che si configura, però, anche come una sorta di etica: lo spazio infatti diviene in questo cinema anche e soprattutto luogo morale, essenziale componente esplicativa delle linee umane centrali del discorso, segnale di una condizione dolorosa e sofferta. Certo, a parte la frammentarietà dell'analisi in sé, rimane da discutere approfonditamente l’aspetto sociologico del problema, che del resto, come abbiamo già detto più sopra, coinvolge un importante ulteriore problema — forse il più importante — relativo alla natura e alla matrice culturale del neorealismo cinematografico come fenomeno globale. Intanto, non è più possibile a questo punto affermare con Bazin che “le néo-réalisme ne connait que l'immanence “ e che in questo cinema (a dire il vero la frase riguarda UmbertoD.) e “le monde exterieur se trouve réduit au réle d'accessoire de cette action pure et qui se suffit é elle-méme " 17. Al contrario, il mondo esterno — almeno in De Sica —è parte integrante e non accessoria, riflesso preciso, spesso in modo dialettico, del mondo interiore del personaggio. E quindi tutta una concezione del neorealismo come pura fenomenologia va rivista criticamente.
Poi, come si è già detto, il rapporto fra cultura urbana e cultura rurale sembra uscirne caratterizzato da scelte di fondo pressoché inequivocabili. Scelte di cultura e di affetti che lasciano trasparire una visione del mondo spesso alquanto diversa da quella che in un primo tempo sembrava qualificare gran parte di quel cinema (si pensi — e qui l'errore è macroscopico — alla definizione di Ladri di biciclette come “film comunista” data da Bazin 18).
Non vorremmo sembrare troppo audaci accostando a queste scelte le pagine che Spengler ha dedicato al rapporto fra città e campagna in “Il tramonto dell'occidente" 19. Si rileggano quelle parole e si veda come per Io storico reazionario quel rapporto si ponga in termini di inevitabile mutamento ed evoluzione, non per questo però per lui meno esecrabile. L'ambiente urbano è l’ambiente dei traffici commerciali, dei profitti mercantili e dell'usura; esso è a fondamento del mondo moderno, ma è anche la negazione della natura, della spiritualità caratteristica delle culture rurali, e il suo stesso trionfo ha in sé i germi della propria fine. A parte la visione apocalittica conclusiva, non è difficile rilevare in questo tipo di pensiero alcune analogie di fondo con il modo in cui “malgré soi” parecchio cinema neorealista, ci ha presentato la campagna o il suo contrario, la città. Ma ancora una volta dobbiamo fermarci qui, attendendo il giorno in cui uno studio del neorealismo in questa chiave verrà tentato. E’ comunque certo che il cinema di De Sica, particolarmente fecondo ai fini di un’analisi sulla città e sui rapporti e i valori spaziali, sarà quel giorno punto di riferimento imprescindibili. *

17 Cfr. André Bazin: -“Ou'est ce que le cinéma? “, cit., pp. 76 e 89.
18 Ibid., p. 49.
19 Cfr. Oswald Spengler: “Il tramonto dell’occidente”. Milano, Longanesi. 1970, pp. 796-825.

* Desideriamo esprimere qui la nostra gratitudine alla Cineteca Nazionale e alla Cineteca del Comune di Bologna per l‘aiuto e l’assistenza che ci hanno prestato nel reperimento e nella visione dei film di Vittorio De Sica.
FINE
Franco La Polla, BN BIANCO NERO, MENSILE DI STUDI SUL CINEMA E LO SPETTACOLO 9/12, 1975


lunedì 3 giugno 2019

LA CITTA' E LO SPAZIO in Vittorio De Sica - orizzontalità & verticalità



Per quel che riguarda invece i due complessi compositivi di carattere prospettico di cui si diceva, l'incontro di orizzontalità [normalmente il piano stradale] e di verticalità {normalmente un muro] dinamizzate dall'obliquità dell’angolo di ripresa, si presenta quasi subito nel film 15. Dopo |'avviso dei poliziotto in borghese che la manifestazione dei pensionati non è autorizzata compare immediatamente in scena la celere che si lancia con le jeep lungo una strada stretta e soleggiata sul cui fondo si nota la piccola, confusa massa nera dei vecchi. Fin dall'inizio il corteo ha una sua innocuità, una sua risibilità dei tutto evidente: si pensi solo alla scena in cui basta l'arrivo cli un tram a spezzare la fila vociante di dimostranti e cartelli 16. Ma l'arrivo della polizia porta il senso di triste ridicolo a proporzioni anche maggiori. L'inquadratura cui accennavamo denota, nella sua concezione figurativa totale, una forza, una velocità, una sicurezza quasi eccessive nei confronti del malandato gruppo per cui le jeep si sono scomodate. Basti pensare alla splendida galleria di volti colti durante la dimostrazione nella piazza: sdentati, rugosi, meccanicamente asciutti, i poveri vecchi di De Sica sono il controaltare dei bei volti rivoluzionari giovani e sicuri di certi primi piani di Eisenstein. Non per nulla, un poliziotto in piedi su una jeep cercherà con atteggiamento tutto sommato alquanto pacifico di far sfollare i dimostranti battendo le mani, come per spaventare e allontanare degli animali da cortile. Tutta la sequenza della dimostrazione, insomma, punta sin dall'inizio verso il suo acme di risibilità, ovvero le scene della piazza [si ricordi, ad esempio, ii vecchio che corre impaurito e scomposto inseguito a pochi centimetri da una jeep]. ln questo contesto la scena specifica di cui si è detto più sopra scopre il suo senso eccezionalmente dinamico in relazione ad un fatto che non la giustifica se non per mostrare, appunto, la sproporzione fra la causa e l'effetto. Ancora, uscito dall'ospedale, Umberto saluta il suo occasionale compagno di corsia con molta affabilità e amicizia (dopotutto, il suo vero, grande problema non e la solitudine?]: quindi si incammina lungo il muro esterno dell'ospedale le cui linee verticali, insieme a quelle orizzontali della strada, riprese ancora da un angolo oblique, corrono veloci in prospettiva. E Umberto sembra correre con loro, veloce, libero, felice nella giornata piena di sole {ciò che del resto farà poco dopo salendo nel verde di un piccolo parco con la sua valigia vuota.
Gli esempi di questo tipo di composizione prospettica si fermano qui. Essi sono infatti gli unici due momenti del film che denotano, nel bene e nel male, un dinamismo per il resto pressoché completamente assente nell'opera, caratterizzata, lo si vede a occhio nudo, da una dominante staticità. O meglio, da una sorte di opposizione fra staticità complessiva e dinamicità specifica. In altre parole, i personaggi centrali Umberto e la servetta si muovono quasi sempre davanti alla macchina da presa, ma ogni volta all‘interno di uno spazio statico. Naturalmente, non intendiamo soltanto la camera, la casa, ecc., anche se di fatto questo avviene spesso [si può immaginare una sequenza più statica nella sua apparente mobilita di quella, famosa, del risveglio della ragazza?). ln realtà, lo spazio statico di Umberto D. e molto più ampio. E' la strada, il refettorio, il giardino: tutto nel film, a livello di spazio, concorre a rendere l'impressione di una compressione, di un'impossibilita di movimento; di una reclusione, di una prigione, insomma, da cui è impossibile fuggire. L’unico memento, appunto, di effimera libertà è quello dell'uscita dall’ospedale: del resto subito frustrato dal ritorno nella casa e nella camera dove gli operai sono al lavoro e dove l‘unico amico di Umberto, il cane, manca all'appello. In questo senso non poco funzionali sono le inquadrature relative al secondo tipo di composizione prospettica cui si accennava.
La figura, l’edificio e il cielo, ripresi dal basso, compaiono più volte nel corso del film: quando Umberto, accusato dalla padrona di avere dei debiti, rimane fermo e indignato fuori del portone di casa; quando, dopo aver visto un povero all'angolo della strada, incomincia a nutrire il pensiero triste e vergognoso che lo porterà sotto il Pantheon; quando starà per incontrare il collega Battistini (e anche dopo che questi, frettoloso, si sarà lanciato sul tram); quando, in una scena simile, si allontanerà da lui anche il commendatore {e si noti la discrete qualità simbolica di queste partenze: tutti lasciano solo Umberto allontanandosi mentre lui resta fermo., immobile a guardarli]; quando, dopo aver salutato la servetta per l‘ultima volta [e non a caso l'ultima immagine di Umberto per le scale della casa sarà quella della sua ombra), esce nel mattino, e quando poco dopo arriverà il tram; quando il cane lo ritrova pietosamente nascosto dietro ii ponticello poco prima del tentativo di suicidio. ecc.
L’apparente funzione di questo tipo di composizione è quella di indicare i due spazi antitetici di costrizione e libertà, la presenza, sullo sfondo dell’uomo, della terra e del cielo, quella di bloccarlo nella sua staticità simbolizzando, o addirittura allegorizzando dietro a lui le altre due componenti del quadro.
Per il resto, l’uso della prospettiva risulta funzionale secondo canoni figurativi regolari; valga per tutti l'esempio evidentissimo dell‘immagine [l'ultima] della servetta che per la prima volta saluta il protagonista e non i due militari dall'alto delia casa (e da quella che è stata la camera di Umberto) nel primo mattino. Lontanissima, lassù, la sua distanza indica chiaramente come ormai tutto quel mondo sia di parecchio alle spalle dell'uomo.

15 Questo tipo cii composizione, a dire il vero, si era già notata in Ladri di biciclette, ad esempio nella scena del furto subito da Ricci [cfr. più sopra), ulteriormente evidenziata dalla strada in leggera discesa. O anche in quella in cui il protagonista ferma il vecchio sul ponte per domandare informazioni sul ladro. In genere, comunque, la qualità costantemente dinamica che ritroviamo in Umberto D. è pressoché assente in Ladri di biciclette. Normalmente, infatti, Ricci è, in queste scene, inquadrato sullo sfondo di un muro alto, assolato, prigioniero di una spazio non meno chiuso dei luoghi interni che scandiscono le tappe del suo viaggio [pulizia, chiesa, postribolo, casa della veggente, casa del ladro, ecc.]. Solo una volta l'atmosfera pesante, greve e ardua della città sembrerà dileguarsi, e non a caso solo in quell'occasione la macchina da presa scoprirà per un attimo immagini quotidiane di serenità e di tenerezza [specificamente, dopo la falsa morte del figlio, i due si riappacificano sul lungotevere alberato e sorridente, mentre dietro di loro una coppietta viene colta nella sua gioiosa intimità].
16 E’ un tram a spezzare simbolicamente il corteo sin dalle prime immagini in cui esso ci viene presentato, ed è un tram ad accompagnare Umberto verso il suo progetto di suicidio, dopo avere abbandonato la casa di via S. Martino della Battaglia (altro nome altamente simbolico, a volerlo osservare con attenzione. Inoltre, non si dimentichi che anche in Ladri di biciclette è proprio un tram a spezzare la tensione creatasi fra la folla dopo il furto della bicicletta compiuto da Ricci (a parte qualsiasi ulteriore considerazione, un'altra notazione psicologica magistrale). (continua)
Franco La Polla, BN BIANCO NERO, MENSILE DI STUDI SUL CINEMA E LO SPETTACOLO 9/12, 1975



domenica 12 maggio 2019

LA CITTA' E LO SPAZIO in Vittorio De Sica - Vita di Umberto


La prospettiva del corridoio, dunque, con tutti gli elementi che la compongono, è una perfetta rappresentazione della situazione del protagonista nella casa (e si ricordi anche il bel memento nel quale la macchina da presa inquadra il corridoio deserto mentre da fuori campo giungono le voci della padrona e della servetta: “Che stai facendo? », “Vuole l’acqua calda », e l'acida risposta della padrona un breve intensissimo brano che sottolinea quanto l’ostilità  verso il vecchio abbia impregnato di sé l‘intera casa).
Non per nulla ad Umberto, tornato dall'ospedale e in cerca del cane e della servetta, compare invece sulla vetrata nel fondo del corridoio l'ombra minacciosa della padrona: un momento figurativo che, come a volte capita nel cinema di De Sica - e un altro lo abbiamo ricordato più sopra per quel che riguarda i ricchi borghesi di Miracolo a Milano - sembra attinto a certa iconografia disneyana. Il corridoio, insomma, è il teatro emblematico del calvario morale del protagonista all'interno dello spazio chiuso e ostile della casa.
Il nucleo di base della corsia dell'ospedale, invece, rende un'effimera impressione di ordine, di serenità, di pacificazione. Naturalmente, l'impressione e falsa. La vita dell'ospedale poggia sulla menzogna, sull’ipocrisia, e il bianco che ne è il colore dominante, se da un lato attenua il rigore arcigno del primario e della suora, mostra bene d'altro canto la sua funzione di copertura tutt'altro che efficiente. La corsia si allunga verso la fine dell'ampia sala, mostrando una successione ordinata di lettini e malati. Ma l'indifferenza e la meschinità vi allignano non meno che negli altri spazi di Umberto: due figli in visita mostrano apparente cordoglio davanti al padre morente, ma appena rimasti soli si lanciano in una discussione di interessi economici, il vicino insegna al protagonista l'importanza della menzogna melliflua, la suora raccomanda i devoti per un prolungamento dell'ambito soggiorno distribuendo rosari e biscotti, ecc. , ecc.
Infine, il giardino pubblico, ritmato sul lato destro dell'inquadratura dall'intermittenza delle panchine e da un filare di alberi. Il giardino è il teatro della risoluzione finale del protagonista, del suo vero e proprio testamento, che però viene rifiutato con un sorriso sprezzante dall’istitutrice della bambina cui Umberto vorrebbe affidare il cane, per lui l'unico amico fedele, per la donna soltanto un grattacapo e un’occasione di lavoro in più. Passato il ponticello — una mitologica porta sulla morte — e fallito il suo tentativo di suicidio, Umberto tornerà ad inserirsi nella prospettiva del giardino, nel suo verde animato e strillante, perdendosi per una volta in essa mentre uno sciame di ragazzini vocianti invade lo schermo. Per un momento brevissimo e assoluto Umberto ha trovato una sua pace dimentica in un surrogate di natura, in uno spazio infinito perché infinita è la dimensione prospettica che ce lo porge *.
Solo a quel punto Umberto e veramente morto, alla vita ed al film. Nessuna caduta dalla finestra sul selciato percorso dalle rotaie del tram, nessun treno che travolga in un vortice di polvere e di fumo un vecchio ed il suo bastardo dagli «occhi intelligenti »: soltanto un campo lunghissimo nel quale l'immagine ludica della loro triste vita sfuma nelle mille possibilità della morte. (continua)

* Viene da pensare all’immagine di infinito nella sequenza conclusiva di Miracolo a Milano: ancora una volta un finale «soddisfacente», ma in realtà amarissimo perché irreale o comunque non risolto.

Franco La Polla, BN BIANCO NERO, MENSILE DI STUDI SUL CINEMA E LO SPETTACOLO 9/12, 1975


domenica 5 maggio 2019

LA CITTA' E LO SPAZIO in Vittorio De Sica - Umberto D


Del resto, il trattamento della dimensione spaziale trova in De Sica altri impieghi di significazione. In particolare, un’altra importante componente spaziale funzionale operante all‘interno del sistema d'opposizione più sopra indicato è senza dubbio la «prospettiva». L'uso della prospettiva è presente in questo periodo del cinema di De Sica almeno sin da Ladri di biciclette (ad esempio nella fuga del ladro sullo sfondo del tunnel, ad indicarne la velocita ed insieme ad anticiparne l'irraggiungibilità]. Ma dove la prospettiva assume un suo ruolo primario, dove essa trova un suo pieno, autonomo sviluppo, divenendo non mezzo occasionale di significazione, ma vera e propria componente articolata del film e senza dubbio in Umberto D. come risultato di un lungo lavorio formale, traguardo di un cinema in progress , che di volta in volta trova nuove soluzioni spaziali sempre tese verso la ricerca di una dimensione che si presenti finalmente nuova conquista. La dimensione puramente figurativa del cinema di De Sica esula dal nostro discorso e terminiamo il nostro accenno a questo punto. Ma se ci e consentito un giudizio di valore all'interno di un discorso critico che parte da presupposti che non lo includono, Umberto D. è a parer nostro la cosa più alta di tutto il cinema di De Sica, l'opera più ineccepibile e completa, superiore in perfezione anche ai film migliori di quella produzione. Di questa qualità lo stesso impiego della prospettiva è in fondo testimone eloquente, componente non secondaria. Tutto il film si articola, appunto, su una serie di prospettive che ne sono i nuclei di base, e su un complesso compositivo di carattere prospettico che si presenta secondo due moduli fondamentali. I nuclei di base sono, in ordine: a] il corridoio della casa di via S. Martino della Battaglia; b) la corsia dell'ospedale; c] il giardino pubblico nelle sequenze finali. l complessi compositivi di carattere prospettico sparsi per tutto l'arc0 dei film sono: a) |'inquadratura obliqua di un elemento orizzontale costeggiato da uno verticale; b] la composizione complessiva di figura, edificio e cielo [ovviamente inquadrata dal basso verso l’alto]. Incidentalmente sono infine rilevabili altre più estemporanee utilizzazioni prospettiche specificamente funzionali a singole significazioni, cui accenneremo fra breve.
Per quel che riguarda i nuclei di base, non e difficile rilevare che essi — e in special modo quello del corridoio della casa — corrono per tutto il film a scandire la profondità dei luoghi quotidiani di Umberto. Il corridoio ad arco della casa scorre portando irresistibilmente l'occhio verso il salotto nel fondo. |E a questo punto non sarà inopportuno rilevare che la casa stessa si articola secondo tre componenti spaziali: la camera di Umberto, la cucina che è il luogo della servetta, e il salotto che e invece una sorta di vera e propria tana della terribile padrona di casa. Il corridoio, dunque, nel quale la camera di Umberto e la cucina della servetta si fronteggiano, corre verso il suo punto di fuga, il luogo della padrona. Il linguaggio dello spazio non potrebbe essere più esplicito, la dipendenza delle due vittime ne viene magnificamente espressa; il corridoio è nella sua dimensione prospettica il testimone della loro inferiorità, della loro sconfitta. Inutilmente Umberto tenterà di opporvisi. Per un certo tempo egli riuscirà stentatamente a mantenere una sua privacy, ovvero una sua possibilità di sopravvivenza. Nonostante le formiche, nonostante le invasioni che regolarmente ritmano il suo spazio: la sua camera è subaffittata a una coppia di adulteri (un fiero colpo anche alla morale dell’integerrimo Umberto), è il luogo delle comunicazioni fra la servetta e i due militari [ancora, l'invasione riveste aspetti che, sia pure questa volta in modo meno dirompente, investono quelli che si intuiscono i fondamenti morali del vecchio pensionato], è invasa persino dai rumori del vicino cinematografo (ed  è ancora da fare la storia della presenza del cinematografo nel cinema di De Sica, almeno da Sciuscià in poi) che non a caso, dopo la musica della Settimana Incom (ancora una volta un documentario, come in Sciuscià), permette di cogliere parole {“ …  con i galeotti in queste condizioni, fra due giorni... “] altamente allusive a due dei temi centrali del film stesso, la reclusione e il tempo. Persino la sveglia, l'oggetto, invade lo spazio di Umberto, suonando imperterrita mentre il vecchio la sta puntando, e continuando a suonare anche sotto le coperte mentre lui tenta di addormentarsi.
Ma la sconfitta del protagonista apparirà definitiva soltanto quando, tornato dalla terribile esperienza del tentativo di accattonaggio al Pantheon, troverà la sua camera squarciata in una parete nella quale troneggia un grosso buco. Dall’interno della camera piena dei segni assurdi di una composizione di vernici tale da sembrare quasi un quadro informale. Umberto guarda verso il buco con infinita tristezza. Per la prima ed ultima volta nel film la macchina da presa lo inquadra nella sua camera da uno spazio esterno, ad indicare l'impossibilità di recuperare una dimensione perduta. Il lavoro dei muratori non l‘aveva ancora convinto, ma ora Umberto sa che se ne deve andare, che il suo spazio gli e stato negato, che non ha più una camera e una casa. Il suicidio è l’inevitabile conseguenza che gli balena alla mente. (continua)
Franco La Polla, BN BIANCO NERO, MENSILE DI STUDI SUL CINEMA E LO SPETTACOLO 9/12, 1975



martedì 16 aprile 2019

LA CITTA' E LO SPAZIO in Vittorio De Sica - Il furto di Ricci


Ciò che figurativamente colpisce nel cinema di De Sica è la cura straordinaria posta nella costruzione dell'inquadratura nel momento- fulcro relativo al problema umano e morale del protagonista. Ovvero, l'attenzione compositiva tutta tesa a creare un’immagine che sia di per sé eloquente correlativo oggettivo dell'isolamento del personaggio. Uno degli esempi più chiari è senza dubbio in Ladri di biciclette.
La sequenza è quella del furto di Ricci, vale a dire il punto d'arrivo verso il quale tutte le linee portanti del film avevano teso fino a quel momento. Disperato, il protagonista si imbatte in un deposito di biciclette fuori dallo stadio esultante. A lui il divertimento è precluso perché è precluso il lavoro, la speranza di una vita vissuta in modo più umano, la sicurezza che quel piccolo impiego gli aveva in un primo tempo concesso. Il furto subito è stato una sorta di ritorno alla realtà, o meglio, l’occasione di verificare l'indifferenza, l’ottusità, la brutalità, la menzogna, la crudeltà della città, del gruppo, della società. Lì, davanti allo stadio, la prima epifania, l'improvviso pensiero che un modo ancora c'è per risolvere la sua disperata situazione, il suo problema di uomo e di lavoratore: le biciclette se ne stanno ammassate l'una all‘altra, un groviglio di ferro inestricabile, basterebbe allungare una mano ed una di esse ne uscirebbe fuori senza che l'insieme ne venisse in qualche modo diminuito, senza che nessuno potesse accorgersi del furto. La trovata è di una formidabile profondità psicologica naturalmente il furto è impossibile, trattandosi di un deposito custodito, ma il momento è perfettamente la dimensione psicologica che rende possibile, fattibile il furto come atto in sé agli occhi del protagonista. Poi, il secondo momento. Ricci vede  una  bicicletta appoggiata all'esterno di un portone [e il pensiero dello spettatore corre subito al momento in cui, accompagnata la moglie dalla veggente, il protagonista aveva lasciato allo stesso modo la sua bicicletta sulla strada, chiedendo a un ragazzo di darle un'occhiata mentre lui si assentava e creando, fra l'altro, un momento di notevole suspense , subito ridimensionato dalla presenza del veicolo,  scoperto con calcolata indifferenza dalla macchina da presa che aveva accompagnato alla uscita marito e moglie già per le scale interne dell'edificio). Allontanato con una scusa il figlio, l'uomo si avvicina alla bicicletta: l’inquadratura è perfetta, gli elementi che la compongono, essenziali. L'ala dell‘edificio che sta alle spalle del protagonista presenta una sostanza geometrica non casuale: balconi, finestre, spigoli, grondaia, intelaiatura del portone, l'inquadratura è fatta di una serie di linee geometriche la cui funzione è quella di staccare il protagonista dallo sfondo, isolarlo nel gesto del furto, evidenziarne la situazione psicologica e morale. L'uomo non ha sullo sfondo una casa o un muro, ma, appunto, una serie di linee, verticali e orizzontali che si intrecciano in senso normale e che fungono da antitesi figurativa all'uomo e all'oggetto, al puro fine di isolarli nel momento culminante del problema di fondo, nella scelta etica imposta dalla disperazione. E‘ certo un momento di grande bellezza, poiché in esso la costruzione figurativa diventa, come si diceva, segno della situazione morale e umana (si noti, fra l'altro, che a differenza del ladro che gli ha rubato il suo veicolo, l‘uomo si dà alla fuga dirigendosi per una strada in leggera salita, ad indicare ulteriormente non soltanto la sua ingenuità, ma soprattutto, attraverso di essa, la sua sostanziale estraneità morale di fondo all’atto che ha compiuto].
Una scena simile è rintracciabile più di una volta nel cinema di De Sica. In Sciuscià, per esempio, quando la macchina da presa inquadra il ragazzo seduto insieme al malatino napoletano sulla panchina del cortile della prigione durante l'ora di ricreazione. Pasquale è stato appena accusato di tradimento da Giuseppe e il suo isolamento morale e ben indicato, secondo il medesimo procedimento compositivo della scena del furto in Ladri di biciclette, dalle linee geometriche della panchina e del muro di fondo dalle quali, per così dire, emerge   isolato il personaggio {qui, anzi, la presenza del malatino contribuisce a rafforzarne ancor più l'isolamento, dal momento che l'unica persona che ne accetta la vicinanza è un bambino che è l'immagine stessa della solitudine, e virtualmente un morto]. Oppure ancora, in Umberto D., in una scena che già abbiamo citato e che è uno dei culmini dell'atroce peripezia morale del protagonista, Umberto ha appena deciso di abbassarsi all'umiliazione della carità (lui, per anni è un funzionario dello Stato] e ad evidenziare la sua tragica decisione si innalza alle sue spalle la possente verticalità del Pantheon, a ridurne la figura a dimensioni microscopiche, a minacciarne la dimensione di uomo povero, afflitto, disperato.
Sono momenti esemplari, questi, nel cinema di De Sica, e momenti nei quali |'impiego dello spazio si svela come il protagonista figurativo di tutta l'opera in quanto suo catalizzatore emozionale, elemento compositivo che evidenzia, ingigantisce e finalmente fa esplodere la problematica dei protagonisti. (continua)
Franco La Polla, BN BIANCO NERO, MENSILE DI STUDI SUL CINEMA E LO SPETTACOLO 9/12, 1975


lunedì 1 aprile 2019

LA CITTA' E LO SPAZIO in Vittorio De Sica - spazio aperto, spazio chiuso


L'umile, il povero, il reietto non partecipa della stratificazione storica e culturale della città: la storia della città borghese non è la sua. Suo è soltanto il numero nella sua asetticità, nella sua neutralità culturale. Ogni retorica è programmaticamente estranea alla città alternativa [“un luogo dove buongiorno vuole veramente dire buongiorno »...]; non c’è storia, tradizione, costume che la fondi, che stratifichi sul povero la polvere delle convenzioni {e si pensi, in questo senso, anche alla formidabile carica di estraneità del CoIosseo sullo sfondo della triste marcia del muratore scacciato con il suo materiale e le sue cose in II tetto. La bellezza non si misura sul terreno della funzionalità architettonica e della complessità estetica, ma sul fascino della giovinezza, della grazia, della purezza (la statua). Ma anche quello spazio mostra presto il suo risvolto. La città alternativa non si libera dal vizio delle regole sociali di classe; e se pure differenze reali di classe non sussistono, ne permangono però le sovrastrutture, le apparenze. Il conflitto stesso per la statua è una sorta di preannuncio della fine, cosi come l'arrivo della famiglia borghese con  tanto di domestica
[e non a caso Totò —- un vero e proprio Galahad del Graal della umiltà — si innamorerà di quest'ultima), o, ovviamente, la presenza del petrolio, un petrolio, però, che ha la stessa trasparenza dell'acqua, a sottolinearne il valore simbolico di elemento essenziale, naturale che esso ha per i semplici abitanti dell‘Anticittà. Ed è proprio alla natura che faranno ricorso i poliziotti di Mobbi mimetizzati con fili d'erba mentre avanzano sullo sfondo lontano, imponente e maligno della metropoli, chiamati dal sicofante Rappi, altro catalizzatore della sconfitta inevitabile della nuova comunità. L'unico, vero spazio alternativo allora è il cielo, l'infinito, il superamento totale, assoluto della dimensione stessa della città, lo spazio che soltanto la favola di Miracolo a Milano può elargire ai diseredati. Ma nel cinema di De Sica solo Miracolo a Milano impiega la dimensione della favola. E anche una città che tanto di favola potrebbe avere [sia pure nei termini corposi, sapidi, nervosi e gesticolanti che le sono propri], Napoli, rientra invece nel quadro dolente e sofferto, spesso tragico, che è la dominante del cinema di De Sica. La città di L‘oro di Napoli (1954) potrà anche assumere aspetti colorati, sgargianti — secondo una tradizione narrativa che va almeno da Mastriani a Marotta — ma la sua più sincera realtà è rinchiusa nei limiti angusti e profondissimi del dolore, dell'umiliazione. L‘episodio del “pazzariello” ne è ottimo esempio. In esso il dramma è giocato una volta ancora sull'opposizione fra spazio chiuso e spazio aperto, sulla perdita del proprio luogo che rivela la sostanza umana e morale dello spazio e, dall'altro lato, sull'apparenza gioiosa, festiva dello spazio esterno, lo spazio della città e della tradizione [sia pure una tradizione tutta partenopea] che è in realtà specchio perfetto della propria miseria e della propria sconfitta. Non c'è libertà, non c'è affrancamento dalla propria umiliazione nel pover’uomo bardato a festa più di quanta non ve ne sia fra le mura della sua casa usurpata. La sua festività è falsa come la sua remissione; anzi, essa “è” la sua remissione. E solo un rifiuto di essa potrà riscattarne la vergogna. Per non dire della complessa dialettica spaziale e — occorre ormai aggiungerlo? — psicologica e morale dell'episodio della prostituta. Da un Iato la strada, la città nel suo aspetto più triste e degradante, la vergogna, la miseria, l'abiezione, dall‘altro la casa sontuosa dell'aristocratico, lo spazio antitetico della salvezza, del riscatto, la promessa di un decoro, di un orgoglio che permetta di dimenticare. Ma i due spazi morali sono inconciliabili, il disegno dell'uomo si rivela per quello che è, un solco ancor più profondo tracciato fra i due: e la donna, che ha partecipato, conosciuto il superamento morale e umano dell'antitesi dopo averne vissuto fino in fondo il dramma, si ritrova al punto di partenza dopo un'ultima, finale umiliazione. In questo contesto la risoluzione non può essere altro che la morte dell'altra vita, o più specificamente, l'accettazione del disegno dell'uomo come superamento del limite stesso cui la vita della donna è giunta: insomma, una morte metaforica del vecchio “sé” per rinascere nell'odio come donna e non come prostituta 13. Ecco quindi che l’antitesi fra spazio aperto e spazio chiuso non si presenta secondo una precisa e limitante direzione univoca, ma articolata a sua volta secondo una piccola grammatica dei valori: Io spazio aperto e Io spazio chiuso di Sciuscià è evidente, non sono affatto comparabili, ma anzi sono direttamente antitetici, a quelli testé indicati in L’oro di Napoli. Da un Iato, infatti, sta lo spazio aperto in quanto spazio naturale, termine inconfondibile di libertà e umanità; dall‘altro, Io spazio aperto della città, Io spazio cioè della sconfitta e dell’umiliazione, della solitudine e dell'incomprensione, Io spazio della prostituta di L'oro di Napoli, delle peregrinazioni di Umberto D., del Ricci di Ladri di biciclette, della coppia di Il tetto. A sua volta lo spazio chiuso si articola secondo un'opposizione chiara e sofferta: Io spazio-salvezza della casa, del riscatto, il rifugio della propria vita (la camera di Umberto, la casa di Il tetto e quella di certi personaggi di L'oro di Napoli, ecc.) e Io spazio chiuso inteso come la dimensione della segregazione che non è solo la prigione di Sciuscià o il cellulare dello stesso film, di Miracolo a Milano, di Umberto D., ma anche la dimensione claustrofobica di certe strade, di certi portoni, delle istituzioni stesse della città-società. Serie di opposizioni che schematicamente si configura:

dove, naturalmente, i termini di spazio privato e spazio istituzionale si presentano volta a volta secondo una serie di varianti. Rispettivamente: camera, casa, ecc. e prigione, cellulare (ma anche spazio angusto, ristretto della città), ecc. (continua)
13 Per una breve ma profonda analisi dell'aspetto psicologico della scelta di Teresa cfr. André Bazin:  “Qu'est-ce que le cinéma? », cit., p. 11.

Franco La Polla, BN BIANCO NERO, MENSILE DI STUDI SUL CINEMA E LO SPETTACOLO 9/12, 1975


martedì 19 marzo 2019

LA CITTA' E LO SPAZIO in Vittorio De Sica - Spazio alternativo

E dunque, la città dell'umile non è quella del ricco. Essa va conquistata metro per metro: lo dimostrano bene le sequenze al Prenestino di Il tetto. Ma non -— e qui è un punto importante — per assimilarvisi supinamente, bensì perché nella conquista dello spazio si esplichi un' essenziaIe creatività alternativa. Il tetto abbonda di panoramiche verticali ad indicare il tema fondamentale della costruzione [del resto necessariamente presente in un film che, dopo tutto, narra della vita di un muratore — e, detto per inciso, in questo senso il film e una piccola lezione sul concetto marxiano di alienazione]. E’ la storia dello spazio dell'umile, del suo fondamentale diritto ad esso in opposizione alla struttura capitalistica della città. E’ la storia della ricerca e della costruzione dello spazio essenziale alla propria vita, al di là delle intenzioni stesse di uniformarsi a un modello sociale stabilito 10 {qui chiaramente indicato dal matrimonio, anche se non va dimenticato che in questo caso l'istituzione stesse viene problematizzata, negata dalla realtà sociale ed economica della società: non per nulla il padre della ragazza si oppone a un matrimonio fondato sul semplice sentimento e non garantito da una sicurezza economica iniziale]. Ciò appare ancor più chiaro in Miracolo a Milano, nel quale lo spazio alternativo compare a dimensioni d'affresco: un‘intera città viene eretta dai reietti della metropoli. E non per nulla essa viene eretta ai margini di questa. Quello, insomma, che costituiva la comunità caotica dei barboni come luogo di emarginazione diventa lo spazio altro da opporre alla città. Ogni rapporto, anzi, con lo spazio si configura in termini di alterità: si pensi alla scena in cui Totò apre per un bambino una porta dietro la quale non c'è nulla. La porta sembra la fragile, assurda linea divisoria di uno spazio vuoto. ln realtà quello che poteva essere un  gag  da film muto americano acquista un suo preciso senso simbolico: virtualmente la città alternativa è già costruita, Totò col suo gesto l‘ha già istituita, fondata,  ideata per i suoi compagni. Perché essa è la città della fantasia, e basta un gesto nello spazio vuoto per evocarla dal nulla. La fantasia, follia del povero, diventa realtà nel momento della sua costituzione 11. Certo, i gesti sono simili, ma il sistema non può essere lo stesso: ogni luogo della città alternativa e un fatto culturale, indicato da un numero. Attraverso il numero i bambini imparano, è vero, ma al tempo stesso esso indica l'assenza — o forse il rifiuto? — non tanto dello spazio della città tradizionale e distaccata, ma piuttosto di una tradizione, di una storia » 12. (continua)

10 E’.  indicativo che l’unico luogo, l'unica casa (sia pur temporanea) che la coppia trova disponibile si presenti nell‘ambito di un ritorno al paese natale della ragazza: si tratta, naturalmente, della casa della propria infanzia, e non a caso li riceve la madre cui, psicoanaliticamente, sempre si indirizza questo ritorno. Cfr. Gaston Bachelard: ”La terre et les réveries du repos), Paris. Corti, 1971, pp. 120-22.
11 Come scrive molto bene Bachelard, “La maison vécue n'est pas une boite inerte. L'espace habité transcende l’espace géométrique”  e ancora, “La maison, plus encore que le paysage, est un état d'ame"». Cfr. Gaston Bachelard: “La poétique de |‘espace “, Paris. Presses Universitaires de France. 1974. pp. 58 e 77.
12 La cosa assume addirittura dei risvolti mitologici se si pensa alle parole di Eliade: “Un’era nuova’ si apre con la costruzione di ciascuna casa: ogni costruzione è un inizio assoluto, cioè tende a restaurare l’istante iniziale, la pienezza di un presente che non contiene nessuna traccia di storia”, e ancora, “una costruzione è una nuova organizzazione del mondo e della vita”. Cfr. Mircea Eliade: “Il mito dell'eterno ritorno”, Torino, Borla, 1968, pp. 104 e 105.
Franco La Polla, BN BIANCO NERO, MENSILE DI STUDI SUL CINEMA E LO SPETTACOLO 9/12, 1975




lunedì 4 marzo 2019

LA CITTA' E LO SPAZIO in Vittorio De Sica - Miracolo a Milano


Cosi, ancora una volta, la città è lo spazio dell'estraneità, della alienazione, della repressione e spesso dell'ingiustizia e della sopraffazione. In una dimensione che ha il sapore dell'apologo è ciò che ci ripete Miracolo a Milano, con quella sua oleografia del capitalismo disegnata in stile disneyano; e lo spazio che la contraddistingue non si presta certo a equivoci. Il palazzo di Mobbi, ampio, slanciato verso l'alto secondo imponenti linee verticali di marca architettonica fascista sembra indicare un'altezza irraggiungibile dalla povera gente delle baracche, alla cui esistenza reale Brunella Bovo — nel film una di loro — si rifiutava a suo tempo di credere, un'altezza che invece verrà raggiunta e di gran lunga superata nella famosa sequenza finale con i barboni librati su una Milano che mostra soltanto qualche tetto e l’immancabile immagine della guglia più alta del Duomo, destinati a un cielo che di sicuro non è il paradiso della classe operaia né tantomeno quello del credente, ma soltanto un ideale, fiabesco spazio alternativo nel quale la sopraffazione del potente non poté più avere la meglio sul povero, come invece era stato persino nell'Anticittà di Totò. Pure, l'esperienza di questa Anticittà non va sottovalutata. Miracolo a Milano in generale, anzi, si presenta come momento essenziale nell'«iter» spaziale del cinema di De Sica. Si noterà per prima cosa come il teatro di ogni cosa semplice e vera, di ogni sincerità naturale, è regolarmente situato nell'area esterna alla città 8. Il film si apre su una periferia semirurale e il gioco di Lolotta e di Totò in una delle primissime sequenze è proprio quello di saltare su una piccola città finta posta sul pavimento della casa. La città vera, del resto, è connotata in modo alquanto esplicito: la si vede la prima volta in occasione del passaggio del carro funebre della vecchia Lolotta, e ciò che la qualifica molto presto è un'immagine di furto e di inseguimento [il ladro e i carabinieri}. Una città che mostra i più vistosi squilibri: Tot passa, uscito dal collegio, davanti a un gruppo di operai al lavoro (un lavoro duro, sporco, ingrato] e la sera stessa davanti alla Scala fra uno scintillio di toilettes, un'esibizione di benessere e di scostante ricchezza. Non a caso Totò stabilirà facilmente un contatto con i primi, mentre con gli altri si limiterà alla distante ammirazione del semplice nel confronti del ricco, lui che trova naturalissimo salutare affabilmente gli estranei che gli passano accanto, suscitando irosi commenti 9.

8 E vengono in mente le parole di Mumford: Il sobborgo riesumò, superficialmente, il sogno della democrazia jeffersoniana, quasi cancellata dalle tendenze oligarchiche del capitalismo, e presentò le condizioni essenziali alla sua attuazione: una piccola comunità di individui che si conoscono tra loro e che partecipano alla pari alla vita collettiva ». Cfr. Lewis Mumford: «La città nella storia», Milano, Ed. di Comunità, 1964, pp. 623-24.
9 E sulla estraneità e l'anonimità programmatiche della città si leggano le chiare pagine di Harvey Cox:  La città secolare , Firenze Vallecchi. 1968, nel cap. La forma della città secolare, pp. 38-59. (continua)

Franco La Polla, BN BIANCO NERO, MENSILE DI STUDI SUL CINEMA E LO SPETTACOLO 9/12, 1975



giovedì 21 febbraio 2019

LA CITTA' E LO SPAZIO in Vittorio De Sica - Stazione Termini

La città, insomma, è del tutto indifferente, anzi potenzialmente ostile, al dramma di Ricci, dai singoli alle istituzioni [commissariato, sindacato e associazione di carità compresi]. l netturbini sono gli unici a differenziarsi da questo atteggiamento proprio in virtù della loro funzione [pratica, ma soprattutto simbolica]: quella di addetti alla pulizia della città, coloro che non si limitano — come per la polizia —a una presenza intimidatoria ma anche — almeno in un caso come quello del furto in questione — impotente, o ad una azione sostanzialmente garante della persistenza delle strutture tradizionali della società, come è quella dell'associazione di carità. I netturbini se da un punto di vista realistico sono coloro che meglio degli altri conoscono la città per ovvie ragioni professionali, da un punto di vista simbolico sono coloro che presiedono alla sua pulizia, che in qualche modo incidono con il loro lavoro sul volto dell’aggIomerato urbano, che della città, insomma, garantiscono un quotidiano mutamento tale da renderla sempre uguale a se stessa, e in modo sostanzialmente positivo, nel suo aspetto esteriore, che è quello che loro compete [e si ricordi la loro presenza, meno incidente,  vero, ma non per questo casuale, anche in Miracolo a Milano.I netturbini, dunque, non si pongono affatto come antitetici allo individuo proprio perché istituzione per così dire «esterna» alle strutture della citta [ma a questo punto è più che evidente che il termine “città” sta per “società”). Non istituzione sociale tout court quindi, ma semplicemente istituzione che non partecipa delle finalità conservative e in ultima analisi repressive della organizzazione sociale {fatta salva, ovviamente, nel film l’istituzione del sindacato 5.Questa repressività è manifesta, ad un livello tutto particolare ed esemplare, in un film purtroppo tutt'altro che riuscito come Stazione Termini 6. Il film che fa coincidere il tempo reale col tempo narrativo (vecchio sogno zavattiniano), inscena uno spazio urbano “in assenza”; ovvero, la stazione diventa a poco a poco nelle immagini che la qualificano una piccola città con i suoi luoghi caratteristici: l'ufficio postale, l'ospedale [il pronto soccorso], il ristorante, il bar, il commissariato. C’è persino — ma per poco — uno spazio privato nella sequenza del vagone abbandonato. Ed inoltre non mancano tutti i tipi nevrotici e alienati dell’«entourage» urbano, l‘impenitente e risibile dongiovanni, la famiglia numerosa, la famiglia di emigrati, i sacerdoti {qui stranieri — come del resto, ma con ben altra funzione, in Ladri di biciclette 7: -dopotutto siamo in una stazione internazionale), i carabinieri, persino quel simbolo nazionale che è la bandiera [anzi, parecchie bandiere]. E’ una piccola città, o addirittura una piccola Italia, fatta di macchiette ma anche di rispetto per l’autorità (si veda la sequenza dell'arrivo al commissariato ferroviario) e soprattutto di “moralità”. Non per nulla il bel faccione onesto di Gino Cervi nella parte del commissario, da tutti riverito al suo arrivo, non si limita a chiedere i documenti ai due malcapitati, ma aggiunge domande sulla situazione familiare della donna: è sposata? ha del figli? E’ la voce della coscienza, certo, ma anche la voce delia città e dell'istituzione che schiaccia l'adultera alle sue responsabilità. E’ il punto finale di tutta una serie di ostacoli che la stazione-città ha posto ai due amanti clandestini. Al ristorante non si può restare perché non è ancora aperto, dal bar è meglio andarsene perché, dice Giovanni, “c'è troppa gente”, nel vagone si è addirittura fermati dalla polizia; per non dire di tutti i piccoli intoppi seminati, magari in termini di comicità (ma anche di dramma), davanti ai due protagonisti. Il loro amore, insomma, è un crimine, proprio perché non è istituzionalizzato. L'unico momento di pace e tenerezza concesso ai due il film non lo mostra, sostituendo la scena con un campo lunghissimo aperto sullo spazio del tramonto nell'unica direzione in cui la macchina da presa non può incontrare la stazione-città, quella verso cui si dirigono i treni in partenza; cosi come l‘unico momento di pace e di tenerezza per i due protagonisti di II tetto [1956] sarà anch'esso sullo sfondo riposante di un tramonto liberato dalla città.
5 Come afferma multo giustamente Bazin, “L’indifference du syndicat est normale et justifiée, car les syndicats travaillent pour la justice et non pour  la charité”. Ibld., p. 50.
6 Sul fallimento del film valga per tutti il breve e acuto commento di Guido Aristarco in André Bazin: ”Vittorio De Sica”-, Parma, Guanda, 1953, pp. 31-34.
7 Su questa funzione ha visto ancora giusto André Bazin: “Qu'est-ce que le cinéma?”, clt., p. 50.

Franco La Polla, BN BIANCO NERO, MENSILE DI STUDI SUL CINEMA E LO SPETTACOLO 9/12, 1975


mercoledì 13 febbraio 2019

LA CITTA' E LO SPAZIO in Vittorio De Sica - Reclusione/Libertà

 Specificamente, il cinema di De Sica si offre, in termini spaziali, come un’opera strutturata su una serie di opposizioni sostanzialmente tutte riconducibili ad una fondamentale: Spazio aperto/Spazio chiuso (o, se si vuole, “reclusione “/” libertà”). Fin da Sciuscià (1946), i cui titoli di testa si snodano sullo sfondo immobile della prigione per ragazzi e la cui prima sequenza presenta, al contrario, una immagine di libertà campestre, di spazi aperti e naturali (della quale la corsa fra i cavalli è il vistoso emblema), l'opposizione e la dominante che polarizza ogni singola opera ed insieme tutto il “corpus” dell’intero periodo in questione. D'altro canto, non va dimenticato che essa già si intravedeva in opere precedenti: si pensi a Teresa Venerdì (1941) o allo stesso Un garibaldino al convento (1942). Se la città, e ciò che le si oppone, e, come vedremo, Io sfondo generale dei cinema di De Sica, l’ossessione della reclusione ne è un'immagine rappresentativa e significante. Il cellulare che trasporta in Sciuscià i due amici — mentre, si noti, all'esterno un gruppo di bambini corre felice nel gioco — tornerà anche in Miracolo a Milano [195O] e per certi versi nello stesso Umberto D. [1952], quando il protagonista si avventura nella penosa odissea del canile. Collegio, cellulare o prigione, il luogo della reclusione è senza dubbio un'ossessione costante. Ma essa trova altre immagini per esprimersi oltre a quelle, per così dire, istituzionali. In Sciuscià, dopo il processo, gli imputati ormai ritenuti colpevoli lasciano sotto scorta |'ampio cortile del tribunale per incanalarsi in una sorta di buio cunicolo che li porterà di nuovo nella prigione. In Stazione Termini [1953] i due amanti, scortati da poliziotti e ferrovieri, vengono condotti, dopo essere stati sorpresi nel vagone vuoto, al commissariato della stazione attraverso quella specie di discesa agli inferi  che è il buio sottopassaggio. in un certo senso, e con implicazioni ben più ampie, lo stesso avviene all’inizio di Umberto D. quando le jeep  della celere costringono i dimostranti, spauriti e disorganizzati, ad imboccare un vicolo stretto e in ombra abbandonando la piazza soleggiata della dimostrazione, ormai preclusa dai veicoli della polizia che di traverso ne sbarrano l’entrata.
Si noterà che collegio, cellulare o prigione, cosi come polizia e tribunale, sono comunque luoghi o fatti istituzionali, emanazioni <<sociali » tese in un modo o nell’altro a limitare la libertà di individui spesso profondamente  liberi. La città, insomma, nella sua organizzazione e nei suoi aspetti “reclusivi” diventa termine di opposizione nei confronti dell'individuo. In questo senso, forse, non è casuale che in Ladri di biciclette [1948] gli unici ad aiutare fattivamente, anche se inutilmente, il derubato siano proprio i netturbini, là dove praticamente nessuno presta attenzione al suo dramma. Anzi, proprio in Ladri di biciclette tutta la seconda parte del film è giocata sull'opposizione fra la disperazione del protagonista e l’atmosfera festosa catalizzata dalla partita di calcio cui in più di un momento dell'opera vien fatto esplicito riferimento (ne accennerà lo stesso Ricci chiedendo al figlio informazioni sulla squadra del Modena: ottimo correlative oggettivo della sua estraneità all'avvenimento e all‘atmosfera rilassata e festosa che esso comporta. (continua)

Franco La Polla, BN BIANCO NERO, MENSILE DI STUDI SUL CINEMA E LO SPETTACOLO 9/12, 1975