mercoledì 26 febbraio 2020

C'era una volta la presentazione


Contro le presentazioni

Dalle colonne del “Lavoro Fascista” ed al microfono della radio ho iniziato una crociata per l'abolizione delle presentazioni. Voglio ora rivolgermi al pubblico appassionato di cinematografo dei lettori di “Film” per esporre le ragioni artistiche e pratiche che militano a favore di questa abolizione, o quanto meno di radicale trasformazione.
Ragioni artistiche. La dignità di uno spettacolo cinematografico è gravemente offesa dall’intrusione di queste brevi antologie del film futuro, redatte in forma di miscellanea caotica, con frammenti di scene senza nesso che non danno affatto l’idea del contenuto reale delle intenzioni, del valore del film. Inoltre il produttore, nell’illusione di far colpo sul pubblico, condisce questa insalata, con delle didascalie apologetiche che potrebbero servire ad esaltare il lucido da scarpe sugli affissi delle cantonate “Il più brillante prodotto dell’annata” “due ore di continuata ilarità” “Il vertice dell’emozione e della passione” e avanti su questo tono. Tutto ciò degrada Io spettacolo.
Ragioni pratiche. Tali “presentazioni” sono assolutamente negative come richiamo pubblicitario. Il pubblico non abbocca alle qualifiche mirabolanti e non è affatto solleticato dai frammenti proiettati. Chiunque assiste a tali presentazioni ascolta, dai vicini, esclamazioni ironiche che assicurano dell’effetto sconcertante ed allontanante della miscellanea comparsa sullo schermo. A questo si aggiunga che l'inclusione degli interessantissimi corti metraggi, resa recentemente obbligatoria, suggerisce la necessità di alleggerire il programma. Ora le “presentazioni” normalmente sono due invece di una ed hanno assunto un metraggio il cui ingombro nell’economia generale, è più che evidente. Interpellati, i produttori sono stati lieti di adeire all'abolizione di una simile spesa inutile.
Rimangono gli esercenti i quali ritengono che tali presentazioni giovino a richiamare l'attenzione sui prossimi spettacoli. Per aderire a tale loro desiderio si potrebbero ridurre le “presentazioni” a un semplice annuncio tipografico contenente il titolo del film futuro, il nome del regista e quello dei suoi interpreti. Se quest'annuncio puramente tipografico è poco visivo si può anche consentire che venga riprodotta l’immagine degli interpreti principali. Comunque, dovrebbe essere tassativamente proibito:
1 – che tali presentazioni oltrepassassero la misura di 50 metri;
2 – che se ne proiettasse più di una per spettacolo.
Credo che l’opportunità di questa riforma sia oramai entrata nella convinzione dei dirigenti la nostra cinematografia e mi auguro tanto cha essa, venga al più presto applicata.
Alessandro De Stefani

Caro De Stefani, vorrei aggiungere una cosa. E perché non si dovrebbe abolire anche la parola “presentazione” che deriva dal “present” americano? Perché un film –  che è dopo tutto uno spettacolo -
deve venire “presentato” dalla tal casa, mentre gli altri spettacolo vengono “rappresentati” (da rappresentare, rappresentazione)? Quel “presenta” non da un po’ fastidio? Mi fa temere – quando lo vedo – che di li a poco, la distribuzione degli attori (“cast”) sarà chiamata “casto”. Che ne dici?
 D.

 film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V - N. 7  14 FEBBRAIO 1942 XX

Presentazione, rappresentazione, prossimamente qui, infine vinse il trailer che soccombette al coming soon!
Scaletta foto: 1  Clara Calamai e Vittorio de Sica ne La guardia del corpo  (Prod. Inac, Distr. Titanus) - 2 Ilsa Werner nel film Ufa Arditi dell’oceano  (Distr. Enic) - 3 Alida Valli e Carlo Ninchi in Catene invisibili prodotto dall’Italcine e distribuito dall’Ici. (Fotografie Bragaglia, Ufa e Vaselli)

lunedì 24 febbraio 2020

CINE ma POPolare - L'ultima parola


Il favore del pubblic(in base alle cifre d'incasso) sorienta prevalentemente sui film (melo) drammatici su quelli comicicon preferenza verso i primiseguonoa distanza e nell'ordinegli avventurosi (cappa e spadapseudostorici), i musicali (riduzioni di opere lirichebiografie di musicisti famosicanzoni sceneggiate) e i patriottici (serie sulla prima guerra mondiale, serie sulla secondaserie triestina). Il sotto-gruppdei napoletani”, formacome abbiamo visto, capitolo a séInoltre, eccezion fatta per il cospicuo successdi Cielo sulla palude dovutalla capillare diffusione nelle sale parrocchiali, si può affermare che non esiste ancora in Italia una cinematografia di ispirazione religiosa, che raccolga un largo favore popolare.
A risultati tantsgradevoli quantsignificativci conduce l'analisi comparativa delle cifre 'incasso riferite al periodo 1948-1953: agli 889 milioni di Anna fanno eco i 401 di In nome della leggeagli 819 de I figldi nessuno si contrappongono i 368 di Non c'è pace fra gli ulivi e via di seguito. L'evidenza delle cifre pubblicate nel seguente quadro riassuntivo non ha bisogno di commenti esclamativi quanto di serie considerazioni sui rapporti fra cinema e pubblico inteso nel senso più ampio.
Neprimnumerde “Il Contemporaneo” Luigi Chiarini, riferendosi agli stessi dati, scriveva«Nopensiamo che queste cifre dimostrino come quefilmgiudicati brutti su un piano artisticomeritino di essere analizzati pevedere quali elementi contengono conformi alla psicologia popolare tanto nelle loro caratteristiche spettacolariquanto nel contenuto umano che rappresentano». L'istanza non potrebbe essere più giustificata quando si pensche il successo o l'insuccesso commerciale di un film è dovuto non già alle "prime'' ma giustappunto alle seconde, alle terze e alle quarte visioni: l'ultima parolaquella decisiva, non spetta alla coppia elegante di, un "Metropolitano di un ''Arlecchino", bensì agli umili spettatori di un cinemetto rionale o di paese. Le lodi della critica e di un pubblico qualificato non hanno consentito a Bellissima di incassare, fino al 30 settembre 1953, più della modesta cifra di 142 milioni Questa la realtà: chiudere gli occhi dinanzi ad essa anziché sforzarsi di comprenderla e modificarla significa – come sottolinea ancora il Chiarini - scavare un solco sempre più profondo fra la critica e la cultura cinematografica da un lato e la moltitudine degli spettatori dall'altro. (continua)
CARLO SANNITA
CINEMA quindicinale di divulgazione cinematografica Volume XII Terza serie  Anno VII 1954 10 Novembre

Nella foto d'apertura un momento di Non c'è pace fra gli ulivifilm del 1950 diretto da Giuseppe De Santis.

lunedì 17 febbraio 2020

Indimenticabile Folco Lulli



FOLCO LULLI PUO’ ESSERE CONSIDERATO COME UNA CREATURA DEL NEOREALISMO CINEMATOGRAFICO
Ha una «maschera» che non si dimentica
La produzione italiana non ha mai valorizzato l’attore e le sue vere possibilità
I migliori film li ha fatti all'Estero
Roma, agosto
Nel caleidoscopico mondo del cinema c'è posto per tutti. Non è no detto, ad esempio, che per quanto riguarda gli omini occorra essere il «bello» della situazione ad ogni costo, né tanto meno che le solite ammiratrici debbano comunque coricarsi con la vostra fotografia sotto il cuscino. La verità. è che in certi casi, dovendo fare affidamento soltanto sul proprio talento drammatico e sulla propria maschera che non sempre riscuote, agli effetti personali, l’unanime entusiasmo del pubblico, la carriera di un attore diventa più difficile, meno soggetta, insomma, agli estrosi capricci di una fortuna che dal punto di vista critico difficilmente si giustifica. In compenso si hanno maggiori soddisfazioni, come avviene appunto nel caso del nostro Folco Lulli, attore popolare e intelligente, che la produzione italiana non ha sempre valorizzato secondo le sue vere possibilità.
Folco Lulli, come attore, è nato nel dopoguerra. Lo si può definire una creatura del neorealismo, in quanto è stato preso, come si usa dire in gergo cinematografico, dalla strada. Debuttò nel film «Il bandito» e in breve tempo si rese conto che per recitare di fronte alla macchina da presa con efficacia e convinzione, occorre essere veramente preparati. Di qui il tormento che lo perseguitò nei primi anni e la insaziabile sete di cultura agli effetti drammatici che lo distinse, inducendolo a ridurre ai minimi termini il sonno per leggere e studiare tutto ciò che riteneva potesse tomargli utile. Tuttavia queste sue buone intenzioni non gli impedirono di partecipare all'interpretazione di films, che da un punto di vista prettamente artistico lasciavano molto a desiderare. D'altra parte il cinema ha le sue esigenze commerciali, che spesso dettano legge a produttori e registi, e di fronte alle quali vengono meno anche i migliori propositi di un attore. Così tra un film notevole ed un altro meno buono, trascorsero i primi anni della carriera di Folco Lulli, il quale attendeva sempre la buona occasione per mettere in piena evidenza il suo talento.
Clouzot, il grande e diabolico regista francese, ebbe la opportunità di incontrarsi con Folco Lulli sulla costa azzurra quando stava scegliendo gli interpreti di «Vite vendute». Osservò attentamente l'attore italiano e fu colpito specialmente dalla sua maschera; una maschera - egli disse -- che non si dimentica. Il resto è noto, dal clamoroso successo internazionale del film alla popolarità di Folco Lulli che finalmente il pubblico imparò veramente a conoscere. Da allora numerosi registi stranieri gli hanno fatto sostenere i ruoli più disparati, ma sempre in carattere con la sua maschera che ha una mobilita espressiva non comune. Essa si presta, intatti, alla caratterizzazione di personaggi tanto diversi, dal rude e semplice contadino al criminale incallito, dall’uomo sempre ingenuo e ricco di buon umore all’individuo subdolo, calcolatore e arrivista.
In questa ultimi tempi Folco Lulli ha interpretato diversi films all'estero, in Francia, Germania e Spagna. Uno dei lavori ai quali si dice particolarmente affezionato è «Ritorno alla vita», una vicenda intensamente drammatica e umana, nella quale ha avuto a fianco la grande attrice tedesca Lida Baarova che dopo una lunga parentesi di attività teatrale è finalmente rientrata nel mondo cinematografico, Alberto Closas, il noto protagonista di «La morte di una ciclista», Josephine Kipper ed altri, sotto la direzione del regista spagnolo Nieves Conde. Com'è noto, questo film nel quale Lulli sostiene un ruolo molto incisivo e stato premiato al festival di S. Sebastiano per la regia, la sceneggiatura e l’interpretazione. Fatta questa premessa, si spiega facilmente l’entusiasmo che dimostra il nostro attore nel parlarne, tratteggiandone la vicenda. «Ritorno alla vita» narra di tre uomini che dopo avere scontato in carcere le rispettive condanne rientrano nella società. Julian un medico condannato in seguito ad un incidente professionale, non crede più nella sua abilità di chirurgo. Nicola, malgrado la sua giovane moglie gli sia rimasta fedele, trova molte difficoltà nel riprendere la vita normale. Iniesta, un tipo allegro e non più giovane, beve per dimenticare suoi guai. I tre hanno appena lasciato il carcere e viaggiano, di notte sul treno, dove un bambino, ammalatosi gravemente, dovrebbe essere operato d’urgenza. Il treno è fermo in mezzo alla campagna bloccato da una bufera di neve. Mentre gli altri viaggiatori e i suoi stessi compagni vivono tutta l’angoscia del momento, Julian appare estraneo al dolore del bambino e alla disperazione di sua madre. Egli non vuole più fare il chirurgo, ma dopo una sequenza oltremodo suggestiva e drammatica, risolve finalmente il suo assillante problema e senza ulteriori indugi opererà felicemente il bambino.
Folco Lulli è un uomo estremamente semplice, modesto, amante della conversazione. Quando gli impegni della macchina da presa glielo permettono, egli siede sovente ai tavolini di un bar di via Veneto, frequentato da giornalisti e scrittori tra i quali conta molti amici. Sorride sempre Folco Lulli e appare informatissimo su tutto e su tutti, ma si astiene dal fare qualsiasi pettegolezzo. E' innamorato della Spagna e della sua gente. Dice che a Madrid si sente un poco come a casa sua perché là tutti lo conoscono e gli vogliono bene. Nonostante in molti films abbia tatto il «duro», in realtà egli è l’essere più mansueto e generoso che ci si possa immaginare, al punto che una sola goccia di sangue sia pure artificiale, cioè fatta appositamente dal truccatore per esigenze di scena, lo infastidisce. Ma se il regista di un suo film gli ordina di comportarsi in un determinato modo, egli diventa aggressivo e violento, pronto ad uccidere freddamente chiunque si oppone alle sue mire ed ambizioni, precedentemente stabilite dalla sceneggiatura del personaggio che interpreta.
Piero Pressenda
GAZZETTA DEL SUD 14 agosto 1957


venerdì 14 febbraio 2020

Un leone a Culver City - The big parade



Il trionfo della "Grande Parata,,

Fra i registi giovani e "buoni a tutto fare" sui quali l'executive producer poteva con sicurezza fare assegnamento, ve n'era in quell'epoca uno che conosceva a fondo il mestiere, King Waltis Vidor, il quale aveva cominciato giovanissimo a lavorare nel cinema, dirigendo il silo primo film nel 1918.
Nativo del Texas, semplice e tranquillo, si era già segnalato alla Vitagraph e alla First National, nonché da Goldwyn e alla prima "Metro", come un diligente esecutore, privo di una spiccata personalità ma pieno i
intuito nel dirigere gli attori: da Laurette Taylor a Virginia Valli, da Aileen Pringle a Will Rogers. A un certo momento Irvinb Thalberg gli affidò un soggetto di Laùrence Stallings, la storia di un americano qualunque travolto dalla grande guerra, suggerendogli di farne un'esaltazione dell'intertevento degli Stati Uniti nel conflitto. Lo stesso Vidor non doveva nutrire eccessiva fiducia nell'esito commerciale di un film imperniato su un argomento del genere (basti pensare all'insuccesso dei troppi film bellici nell'immediato dopoguerra) se è vero - come si racconta - che egli rifiutò una cointeressenza finanziaria nella produzione.



Ma quando The Big Parade (La grande parata, 1925) apparve sugli schermi d'America, gli scettici dovettero ricredersi poiché il pubblico decretò al film un successo senza precedenti. Nella sola New York esso tenne il cartellone per ben novantasei settimane consecutive, e la stampa specializzata lo classificò fra le opere più grandi di tutta la storia del cinema. Quando poi The Big Parade giunse in Europa, nonostante qualche risentimento locale (specie in Gran Bretagna) per l'impostazione nazionalistica del film secondo la quale la guerra sembrava essere stata vinta solo dalle truppe americane, fu il trionfo. 


John Gilbert e Renée Adorée divennero stelle internazionali, King Vidor uno dei maggiori registi americani del momento e la Metro Goldwyn Mayer una ditta di primissimo ordine, impegnata a produrre non solo film commerciali ma anche autentiche opere d'arte, le quali onoravano il cinematografo. In realtà The Big Parade, che pure rientrava nella migliore tradizione realistica del cinema americano e risentiva ad esempio della benefica influenza di Griffith (basti pensare a Isn't Life Wonderful?, realizzato in Germania e presentato poco prima, nel 1924), era un'opera romantica e superficiale, impregnata di facile retorica e di detestabili sentimentalismi: ma furono proprio questi elementi deteriori, forse, dovuti non tanto al talento di Vidor che si rivelava in pieno anche nei momenti più discutibili, quanto alla furberia di Thalberg a determinarne il successo. Vidor stesso, in seguito, dovette ammettere che ad esempio la scena più famosa del film, quella in cu la ragazza francese si aggrappa al soldato americano per impedirgli di partire per il fronte, riusciva - è vero - a "strappare le lacrime", ma era essenzialmente il frutto di un compromesso. Di ben altro vigore era tuttavia la sequenza della marcia dei soldati nella foresta, narrata con un esemplare crescendo, attraverso un accorto e cosciente uso del montaggio. Il successo del film si rinnovò comunque anche a distanza di anni: ricordo che ancora nel 1935, in Italia, ne circolava un'edizione sonorizzata che all'intensità della sequenza citata, ad esempio, aggiungeva la spettacolare suggestione degli elementi sonori. (continua) 
FAUSTO MONTESANTI
CINEMA QUINDICINALE DI DIVULGAZIONE CINEMATOGRAFICA ANNO VII - 1954 10 NOVEMBRE 

Nella seconda foto, è riconoscibile al centro, in piedi, King Vidor mentre dirige i protagonisti in una scena d'amore in esterni. Nella terza John Gilbert e Renée Adorée in una scena del film medesimo.

giovedì 13 febbraio 2020

La bella di Lodi




La bella di Lodi il film di Mario Missiroli del 1963 è una di quelle sorprese che uno non si aspetta viziato com’è dalle critiche che lo stroncarono alla sua uscita. Rivisto oggi lo si può benissimo affiancare a Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci, Vive sa vie di Jean Luc Godard e sulla falsa riga della commedia all’italiana. A questa conclusione ci porta il trattamento che ne hanno fatto Alberto Arbasino e Mario Missiroli. Tutto per merito di Stefania Sandrelli, Adriana Asti che la doppia e Goffredo Rocchetti che la trucca. Con loro uno stuolo di nomi oggi assisi sull’olimpo del grande cinema: Fernando Franchi, Enzo Ocone, Andreina Casini, Giuseppe Ruzzolini, Angelo Novi, Danilo Donati, Nino Baragli, Piero Umiliani, Tonino Delli Colli, Manolo Bolognini, Alfredo Bini. In ultimo, lo strato sonoro dovuto alle melodie di allora confluite nel film come dopo avrebbe fatto Martin Scorsese.

mercoledì 12 febbraio 2020

Carmine Gallone



I REGISTI (senza peli sulla lingua)
CARMINE GALLONE
DI EUGEGIO GIOVANNETTI

Ecco finalmente la testa di Jokannan innanzi a me, nel bacile d'argento. Debbo proprio confessare che non so più che farne? Debbo proprio ammettere che nella commedia umana ci sia posto anche per una figura, o un figuro, di Salomè disillusa?
Tutto sommato, che m'aveva fatto quest'uomo, perché io ce l'avessi tanto con lui? Era stato sempre cortesissimo con me le rare volte in cui c'eravamo incontrati. In fondo, assai più che la sua persona, m'era forse ostica la baracca della Cines, in cui si esibiva: quella baracca in cui l'intellettualità di Emilio Cecchi non era che incompetenza ed il dilettantismo di Ludovico Toeplitz non era che la leggerezza pesante d'un «figlio di papà» cui papà aveva assegnato per i minuti filmistici piaceri i milioni della Banca Commerciale.
Ora che ho la sua testa sul bacile, posso pur confessarmi con perfetto candore al mio Jokannan. Ero sempre incline a giudicare con asprezza i suoi film, per due mie segrete intolleranze, contro cui, senza saperlo, egli aveva dato del capo: intolleranza per il cosmopolitismo linguistico, intolleranza per il marcantonismo estetico.
Contro la prima, egli aveva urtato col primo colpo di manovella ai tempi di «Casta diva», verso il 1935, quando, ritornato in Italia dopo una esperienza franco-tedesca che a mio parere non l'aveva messo affatto più in alto d'un Righelli o d'un Malasomma, era stato salutato improvvisamente dagli incompetenti e dai dilettanti della Cines come l'uomo dei grandi fiIm, come l'uomo del domani.
Per qual mai ragione, io mi chiedevo allora, questo regista va tanto a genio a quella gente? E fui allora invitato con molti altri al primo colpo di manovella per «Casta diva», che voleva significare una specie di giornata storica. Tutto il bel mondo era infatti là, ministri, deputati, letterati, banchieri, dame.
Dirigendo operatore e tecnici tutti a nuovo, irti e sgargianti come coleotteri, Carmine Gallone sfoderava un suo gergo da studio, franco-tedesco-inglese, col fasto con cui in altri secoli un dottore della Sorbona avrebbe sfoderato il suo scolastico latino. Quanto quella iattanza di sorbonico portiere d'albergo mi ferisse il lettore non può immaginare. Non già che io non ami il cosmopolitismo portuale a i grandi capricci orchestrali del letterario come l'«Ulysses» di Joice. Lo conosco le lingue europee e le conosco assai meglio di Carmine Gallone, ma adoro come incantevoli amanti, per le cose mirabili di cui arricchiscono la mia solitudine: e le parlo il meno possibile, perché, prima di tutto, mi rivolta l'idea che un uomo possa trovar grossolana la sua lingua nella mia bocca, e poi perché mi par che, parlandole e non essendo più creative prettamente strumentali, elle si sessualizzino e si prostituiscano.
Insomma, quell'orgia linguistica tecnico-officiosa cui il regista Gallone mi faceva assistere, mi repugnava profondamente e mi spiegava, forse a torto, perché del suo impensato troneggiare alla Cines. Ecco - io pensavo ed avevo forse torto - quel che ha dato nel genio al dilettante Toeplitzche parla anche lui familionarmenete le lingue colte d 'Europa e che concilia così floridamente nella sua persona, i quattrini d'un ebreo ed il badiale d'un frate.
Posso avere avuto torto, ripeto, e concesso troppo alle apparenze da un Iato, alle mie fobie dall'altro.
Psso aver dato troppa importanza a quel gergo da studio, necessariamente borioso quanto servile, giudicandolo dall’altezza d'una Europa adorabile di cosmopolitismo morale, qual' è quella cui io respiro: quella che va dal Montesquieu al Principe di Ligne. Ma debbo pur confessare che la sgradevolissima impressione s'acutizzò in me sino all violenza arbitraria d'un pregiudizio e che, da allora in poi, io non ho più saputo giudicare con la debita serenità un film di Carmine Gallone. Questa troppo estetica, troppo sensitiva impressionabilità, non dovrei metterla in piazza adesso, perché
mi si ritorce e m'abbaia contro come una ridicola debolezza: ma che ci fareste voi? Sono un po’ come quel barbiere bolognese, giudice ipersensitivo di cantanti, che di una celebre mezzo-soprano, di cui era infatuato, diceva: «Ha una voce ch'è una palazzina a quattro piani, col belvedere", e, quando qualche avventore, per giuoco, si provava a contraddirlo, cedeva di colpo pennello e rasoio al garzone e usciva gridando: «Continua tu, perché io non rispondo più di me».
La faccenda del marcantonismo è un po' più seria e ci porta in pieno «Scipione».
lo odio d'un odio fanatico il marcantonio, il greve, l'energetico che, sforzandosi, si teatralizza e si scorpa.
Ho scritto tulto un libro noioso sulla religione di Cesare, in odio a cotesta estetica tumefatta del Romanticismo alessandrino, che fu, ahimè, per tanti lati, la romana, e che i tempi vorrebbero ricacciarmi sott'occhio. C'è un certo ponte romano, ornato di colossali carciofi marmorei, che vorrebbero essere gruppi statuarii ed al mio stomaco danno, senza iperbole, l'oppressione e la sottile nausea d'una scorpacciata.
Per me il divino, e l'eroico stesso nel divino, è leggerezza, è luce, è quella compenetrazione dell'intelligenza e della carità, della grazia e del fuoco, che io chiamo in senso trascendente «discrezione». Nel romanesco, tuffo posso tollerare tranne il culto del forzuto smargiasso, del «greve», quel culto che la statuaria barocca, ben congiunta in questo con la decaduta imperiale, ha impercettibilmente educato e mi par di sentir rispuntare persino nel malinconioso Pinelli che s'è pur così nobilmente studiato dì veder classico e romano nel plebeo romanesco. Sì: cotesto culto del «greve», che soltanto il Belli aveva superato nel suo realismo veramente abissale, era rispuntato nella cinematografia romaneggiante del Guazzoni come nell'architettura baroccheggiante del Brasini, ed il mio incolpevole Jokannan, il mio pluriloquente Gallone, trovandolo ancora nell'aria di Roma, ci aveva dato dentro a corpo morto, lo aveva respiralo a pieni polmoni, regalandoci «Scipione».
lo so che qui il tetrarca Doletti comincerà a strillare come una gazza, altamente dolendosi d'avermi concessa la testa di questo povero Jokannan: ma io m'impegno qui onestamente di scusare la mia vittoria, di dimostrare che cotesta estetica aberrante del marcantonio non era affatto un errore suo: che ella era già nell'aria, che bisognava inalarIa dovunque, transitando pei ponti, leggendo un giornale, vedendo o rivedendo un film di soggetto romano.
Come avrebbe potuto questo disgraziato Jokannan sottrarsi alla tremenda, universa suggestione? Elefanteggiare era necessario: non vivere. Ed egli elefanteggiò, nincheggiò. marcantonizzò sino ai limiti supremi del marcantonizzabile.
Per me lo «Scipione» davvero trionfante, quello che un'arte della luce e della discrezione avrebbe sola potuto creare e mandar per tutto il mondo, non chiedeva neanche un elefante, neanche uno; ed, invece d'un energumeno, invece del solito marcantonio romanesco dei film guazzoniani, voleva un attore fine, supremamente fine, uno schermitore tra lo sdegnoso e l'elegante.
Sicuro! Tutto ci assicura che il vincitore di Zama era proprio questo: uomo di raffinatissima cultura, un sognatore supremamente discreto e singolare d'aristocratici disdegni: un uomo fine e sovrano nel fisico come nel morale, una lama d'acciaio, uscente dalla più vasta isola del sogno eroico e dell'orgoglio divino, che i tempi avessero mai creata in seno alla romanità.
Ma sento che il mio tetrarca è su tutte le furie, e mi richiama fieramente all'ordine. «Carmine Gallone - egli tuona - è un uomo che, quando vuole, sa usare mirabilmente la chiave dei grandi successi filmistici. Questo è innegabile: ed io non tollero insinuazioni su questo punto ch'è, in fondo, per un regista, l'essenziale».
Perfettamente d'accordo io mi guarderei bene dal negare che Carmine Gallone conosca le chiavi del successo e che, volendo, sappia «girarle e rigirarle sì soavi» da imprigionare il pubblico. Quel che io gli rimprovero è precisamente di non volerle mai volerle girare abbastanza, quelle famose chiavi, tant'è la sua fretta d'imprigionare il pubblico. La sua esperienza, la sua finezza, la sua duttilità, il successo di cassetta almeno, sono sempre incontestabili: ma è quasi sempre una piccola fretta smaniosa di riscuotere il successo ultrasicuro, quella che impedisce la perfetta girata di chiave, l'attenzione cioè dovuta alle arie, alla squisitezza vera, alle vere solidità e durevolezza del successo.
E' un po' la situazione di quel benemerito impeccabile mirabile sacerdote che, vantando immensi crediti, dimenticava quasi sempre i suoi piccoli debiti, e di cui un poeta romanesco diceva:
è tanto indaffarato in der riscote.
che non ci ha più un minuto per pagà.
Insomma, le grosse virtù del regista sono anche per me innegabili: quelle che mi paion dubbie sono le virtù minori, le leggere e le squisite.
Vediamo, alla prova dei fatti, nell'ultimo film «L'amante segreta».
Ecco, a primo sguardo, una virtù di primissim'ordine, che il Gallone possiede come pochi: l'arte di far figurare un'attrice. Il Gallone è il primo, tra i nostri registi, che sia riuscito a scoprire, con «Manon Lescaut», la bellezza di Alida Valli, ed anche oggi è il solo che sappia farla brillare, Nell'«Amante segreta» ha saputo veramente vagheggiarla, acconciarla con finezza. Ma è un successo da «Figaro» direte voi. Piano! E' riuscito perfino a far pettinare e vestire e gestire Vivi Gioi, e questo è un autentico portento.
Insomma, Carmine Gallone, che abbiam voluto così pervicacemente far decollare, è un regista di molte e diverse e pregevoli qualità, che non vale affatto meno d'un altro e che vorremmo ora, dopo tanto truculento e vano salomeggiare, restituire cordialmente alla vita.
Eugenio Giovannetti

Opere di Carmine Gallone: Il bacio di Cirano (1919); Amleto e il suo clown (1920); Cavalcata ardente, Terra senza donne (1929); li figlio della strada, Una notte a Parigi (1932); Una notte a Venezia (1933); E lucean le stelle, Casta diva (1935); Scipione l'Africano (1937); Solo per le, Un dramma al circo. Marionette, Giuseppe Verdi (1938); Sogno di Butterfly, Manon Lescaut (1939); Oltre l'amore, Amami Alfredo, Melodie eterne (1940); L'amante segreta, Primo amore (1941); La Regina di Navarra (1942).


film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V - N. 8  21 FEBBRAIO 1942 XX

La testata si riferisce al film Fedora interpretato da Luisa Ferida, Amedeo Nazzari, Osvaldo Valenti, Rina Morelli (Prod. Consorzio Icar – Escl. Generalcine)

lunedì 10 febbraio 2020

CINE ma POPolare - uomini e mezzi

La produzione che abbiamo definito qualitativamente minore non si esaurisce nei film prodotti con pochi quattrini e molti arrangiamenti: ai nomi modesti e poco noti dei produttori Oreste Palella, Roberto Amoroso, Natale Montilla, Mario Ferrigno, Enzo Di Gianni ecc. si affiancano, sovrastandoli di molte spanne, quelli di Case famose come la Titanus, la Ponti-De Laurentiis, la Lux, la Rizzoli-Royal, 1a Romana Film, la Manenti Film, la Produzione Venturini ecc. Queste Case, ad ulteriore conferma della sentenza che l'arte non è la cosa più importante nel cinema (Balàzs), hanno prodotto e producono film commerciali, che differiscono da quelli anzidetti per due fattori: a) la copia dei mezzi finanziari; b) una linea di più corretto artigianato. Il primo è una provvidenza concessa al censo, al credito bancario e alla mirabolante fortuna di alcuni produttori; il secondo è dovuto alle prestazioni di abili registi specializzati (Matarazzo, Brignone, Costa M., Mattoli, Coletti, Gallone, Bragaglia C. L., Campogalliani ecc.) e di interpreti famosi (Nazzari, Totò. Fabrizi, Rascel, Sanson, Mangano, Marzi, Lollobrigida, Pampanini).
Eccezion fatta per queste differenze, i filmetti di categoria B e i filmoni, per così dire, di categoria . . . "super B" prodotti dalle grandi Case·hanno in comune questo carattere: la nessuna parentela con l'arte e con la cultura.
Potentemente equipaggiate in uomini e mezzi, le predette Case, superato il disorientamento dell'immediato dopoguerra, sono partite alla conquista del grande (e grosso) pubblico fin dal 1949: è questo l'anno di Catene (Titanus Matarazzo- Nazzari-Sanson), cui seguono in bell'ordine Il lupo della Sila (Ponti-De Laurentiis- Lux-Coletti-Nazzari-Mangano), La sepolta viva (Brignone), Il bacio di una morta (Brignone), Totò cerca casa (Steno-Monicelli), L'imperatore di Capri (Comencini-Totò). Gli anni successivi confermeranno il crescente successo di questa produzione minore articolata nei vari generi, drammatico, comico, musicale, cappa e spada, patriottico, napoletano. L'incidenza quantitativa dei film commerciali sul complesso della produzione nazionale è predominante: assumendo il numero 150 come quota massima raggiunta nel 1953; reputiamo di essere abbastanza ottimisti parlando ad una incidenza pari ai nove decimi. (continua)
CARLO SANNITA 
CINEMA quindicinale di divulgazione cinematografica Volume XII Terza serie  Anno VII 1954 10 Novembre

Nelle foto: Silvana Mangano e Jacques Sernas in Il lupo della Sila; Alda Mangini e il principe De Curtis in Totò cerca casa. Due film del 1949. 

domenica 9 febbraio 2020

giovedì 6 febbraio 2020

Musolino a Reggio e Gambarie


E' giunto a Reggio, ed ha preso alloggio presso l'Albergo Miramare, il noto attore, nostro concittadino, Vincenzo Musolino, il quale è in compagnia dell'affascinante stellina Fosca Piergentili.
Vincenzo Musolino, che si fermerà a Reggio alcuni giorni, tornerà fra qualche mese per girare gli esterni del film “Duello fra gli abeti” nei pressi di Gambarie.
In questa nuova, fatica cinematografica, affiancherà il bravo Vincenzo Musolino la nota attrice Laghe Cheriman. La regia sarà di Roberto Montero
Ieri sera una piccola folla ha sostato dinanzi all'Albergo Miramare per inscenare una manifestazione di simpatia all’attore reggino, che tanto successo ha ottenuto sugli schermi di tutto il mondo in questi ultimi anni.


GAZZETTA DEL SUD  2 FEBBRAIO 1955

Con Roberto Bianchi Montero Vincenzo Musolino girò solo Nessuno a tradito del 1954 e successivamente Dramma nel porto nel 1956. Il "duello fra gli abeti" a Gambarie non si ebbe, come svanite nel fumo sono Fosca Piergentili e Laghe Cheriman.