martedì 26 novembre 2019

Emilio "el Indio" Fernández - S. M. Eisenstein e il cinema sovietico

Anche dall'architettura del suo paese Fernandez ha saputo trarre effetti specifici. Si veda infatti la pertinentissima funzione scenografica di certa architettura coloniale: la chiesa di Enamorada, il cortile del
collegio in Las abandonadas, il cortile che percorre il fucilando in Flor silvestre, il lunghissimo portico di Enamorada, (ripreso poi anche da Ford in The Fugitive). Si veda anche, per la parte sonora, il commento
musicale, originalissimo - anche se talvolta troppo facilmente insistito - a base di canti corali indios.
Talvolta però Fernandez  mosso da preoccupazioni narrative, se non addirittura da costrizioni produttive - è indotto ad un folclorismo di maniera, quasi ad una standardizzazione turistica, con accostamento agli schemi delle “follie” hollywoodiane (per esempio la festa popolare in La perla).
D'altronde già nel cinema questa individuazione d'un repertorio indigeno aveva avuto un precedente illustre in S. M. Eisenstein. Eisenstein, col distacco lucido dello straniero, aveva colto, nella sua incompiuta epopea di Que viva Mexico i motivi più caratteristici della civiltà e del folclore messicani. Benché il suo atteggiamento di fronte al Messico sia improntato ad una estrema libertà di ispirazione – Que viva Mexico, svolge dialetticamente una tesi marxista - Eisenstein ha tuttavia sentito il senso, quasi mistico, della tradizione millenaria messicana, la grandezza eroica degli Aztechi che sopravvive nello stoicismo disperato dei “peoñes”. Que viva Mexico doveva aprirsi con una rassegna di antiche sculture messicane (il motivo dei volti di pietra è stato poi ripreso da Fernandez in Maria Candelaria, ma con ben altro temperamento). In Eisenstein troviamo già accuratamente inventariati gli elementi d’un'immagine mitica del Messico, un Messico romantico e leggendario, che certamente offrì a Fernandez una suggestione specifica forse più importante dell'esempio pittorico. Ma come l’influsso della pittura anche quello di Eisenstein non va oltre quest'indicazione di genere. Il Messico di Fernandez, sfumato ed elegiaco, è infatti ben diverso dal Messico di Eisenstein, eroico e crudele, perché diversi sono i temperamenti dei due registi. E profondamente diversi sono anche i mezzi di linguaggio e di grammatica.
Quanto poi ad un'influenza sia pure “di complesso” (sic) del cinema sovietico sul cinema messicano e su Fernandez, influenza escogitata da Glauco Viazzi (1) (< dietro a Rio Escondido pare profilarsi Il Maestro di Gherassimov; e dietro a Enamorada: Il commissario di brigata di Rasumny >) ci sembra un'ipotesi piuttosto aerea, che cede forse a suggestioni e a lusinghe, per così dire, extra-estetiche. (continua)
(1) Glauco Viazzi: Enamorada in Bianco e Nero n. settembre 1949.
Franco Venturini in BIANCO E NERO ANNO XII – N. 4 -  APRILE 1951

Nella foto "El Indio" durante le riprese di Duelo en las montañas, 1950

lunedì 25 novembre 2019

Flames of Passion, a preview









David LeanBrief Encounter,1945

domenica 24 novembre 2019

SICILIA! - 6 clapperboards by Straub/Huillet







Pedro CostaOù gît votre sourire enfoui?, 2001

giovedì 21 novembre 2019

Pasolini/Dovzenko



Aleksandr Dovzenko, Taccuini

Sono stato in questi giorni all’università di Trieste; anzi, per essere esatto alla «Casa dello Studente», per invito, sia dell'Arci che ha organizzato l'«autogestione» della «Casa dello Studente», sia, inizialmente, di un gruppo di studenti che segue un corso sul cinema italiano degli anni Sessanta, tenuto da Lino Miccicchè.
C'erano circa settecento studenti, il grande e nudo salone era gremito; ma silenzioso, ordinato. Il tema del dibattito era un tema trattato da me, frammentariamente, proprio su queste pagine: Cultura borghese cultura marxista - cultura popolare. ….
… Oltre all’adorabile Marianne Moore, offro alla meditazione dei giovani marxisti anche il libro di un regista sovietico che, provenendo dagli anni Ruggenti del formalismo russo, ha dovuto vivere appunto il periodo del culto della personalità e del realismo socialista: Aleksandr Dovzenko. Strano, ma anche a lui che faceva film (quei pochi che riusciva a fare) sul nativo mondo ucraino, affrontando i temi della Rivoluzione attraverso la naturale concretezza realistica del poeta, da una parte, e dall’altra attraverso la squisitezza tecnica, così asciutta, netta, inventiva, priva di ogni specie di sentimentalismo, anche formale, della Scuola formalistica - anche a lui, e attraverso la viva voce di Stalin in persona, veniva consigliato di entrare in fabbrica e di vedere in un operaio comunista che vi lavorava l’unico modello umano positivo possibile.
Così il povero Dovzenko — come il suo amico Majakovskij - come i suoi colleghi più autorevoli Ejzenstejn e Pudovkin - è stato costretto per tutta la vita a difendere la sua ideologia formale adattandosi ad accettare discussioni tanto interminabili quanto cretine. Dall’altezza intellettuale degli anni Venti, in cui si era formato, è stato costretto a degradarsi a un livello intellettuale di una bassezza penosa, tutto fatto di luoghi comuni, di ricatti accademici, di confronti puerili. Dovzenko non era un uomo forte, e non era molto forte neanche come scrittore. Il suo lungo martirio, forse proprio per questo, appare in tutta la sua spaventosa miseria nei Taccuini che lo testimoniano. Il dover difendere il minimo ovvio diritto possibile di un autore, contro un’ignoranza di carattere, si, franchista o fascista, senza per questo disperatamente venir meno alla fede comunista (rinunciando a qualsiasi specie di «gesto») vale certamente la Siberia; se non è peggio.
Pier Paolo Pasolini
Settimanale TEMPO, 12 aprile 1974

mercoledì 20 novembre 2019

Un leone a Culver City - Rudolph & Alla


Il mito di Valentino


La "Metro Picture Corporation" era stata fondata nel 1915 da un gruppo di distributori di film, ribellatisi al monopolio della "Motion Picture Patents Company" e passati alla produzione, sotto la presidenza di Richard Rotbland. Nel 1919 gli studios della Metro venivano acquistati da Marcus Loew, padrone di un'importante catena di sale cinematografiche, e dal suo socio Nicholas Schenck, ai quali faceva capo la "Loew's Consolidated Enterprises". La produzione della nuova " Metro " non tardò ad affermarsi sul piano anzitutto della qualità, grazie al successo di alcuni film di prestigio, il più famoso dei quali rimane senza dubbio The Four Horsemen of the Apocalypse ("I quattro cavalieri dell'Apocalisse", 1921), di Rex Ingram, tratto dal popolare romanzo di Ibanez ridotto per lo schermo da Juné Mathis. Affidato a un regista giovane e sufficientemente malleabile, il film fu soprattutto il risultato - spettacolarmente straordinario - di un considerevole sforzo produttivo, un'opera cioè che pur non recando il segno di una personalità dominante si segnalava all'attenzione della critica come il prodotto di una vasta ed affiatata collaborazione, costruito essenzialmente in funzione di un grande successo di pubblico. La risonanza del titolo e del soggetto avrebbe inoltre supplito alla mancanza di grandi nomi di "stars". The Four Horsemen fu infatti il film delle rivelazioni: lngram e la Mathis in primo luogo, che da quel momento divenivano rispettivamente un regista e una scenarista adatti a produzioni di grande impegno; Alice Terry, la protagonista femminile, promossa di punto in bianco al rango di "star "; e infine la più sensazionale di tutte - Rudolph Valentino (un oscuro attore italiano, passato fino ad allora quasi inosservato in convenzionali ruoli di  "vilain'') che con l'insolito personaggio di "Julio Desnoyers" portava sullo schermo un tipo inedito di "eroe", destinato a rivoluzionare i canoni del fascino virile allora in voga. Fra i film cui Valentino prese parte alla Metro, prima di passare alla Paramount, vi fu anche Camille (La signora dalle camelie, 1921), con Alla Nazimova, la più intellettuale e sofisticata delle attrici del tempola quale interpretò e persino produsse per la ditta alcuni film ricordati di solito per una certa quale stravaganza della loro impostazione figurativa spesso in aperta polemica con la produzione corrente: uno di questi fu The Red Lantern (1919), diretto da Albert Capellani. (continua)
Fausto Montesanti

CINEMA QUINDICINALE DI DIVULGAZIONE CINEMATOGRAFICA ANNO VII - 1954 10 NOVEMBRE 

Nella prima foto Rodolfo Valentino in The Four Horsemen of the Apocalypse (I quattro cavalieri dell'Apocalisse, 1921), di Rex Ingram; nella seconda Alla Nazimova in The Red Lantern (1919), di Albert Capellani.

domenica 17 novembre 2019

GIOVACCHINO FORZANO


I REGISTI (senza peli sulla lingua)
GIOVACCHINO FORZANO
DI EUGEGIO GIOVANNETTI

lmmobil resta a ver la terra
inchina un ginocchio a pregar ...

La paterna baritonal voce di Guglielmo Tell quanta onda d'immagini sommuove dalle perdute stagioni!
Tutta un’età, cui volti ad essa appartenenti e di cui essa dolcemente si colora, ecco risollevare, d'un tratto sull'ala grave del canto! Profondità, trepide della memoria, pieghe avvolgenti del paterno mantello, che solo la baritonal voce sa riscuotere e ricomporre intorno all'algore della mental solitudine, eccovi ancora, a sommo dei pensieri, con le note di papà Rossini cui l'anima s’affidò e s’affida.
Al primo freddo d'autunno non ci avvolgiamo ancora di quella tal voce, di quel tepor luminoso cha riaffiora d'improvviso in noi dalla grande estate ottocentesca della passione e della patria? I solari e accurati volti della nostra estate paesana, della nostra «stagione d'opera» in cui quell'estate culminava, non si riassunsero un giorno nel volto di quell’onesto baritono che dette al nostro provinciale teatrino un esemplare, un indimenticabile Guglielmo Tell?
Quanto di questo buon pathos baritonale, grave e luminoso, scenografico e carezzante, cui l'anima non sa resistere anche se la mente protesti, Giovacchino Forzano ha saputo portare nel cinema italiano! Che qualcosa protesti innanzi ad un film di Giovacchino accade molte volte, in quanto la nostra mente, nella sua mattinale limpidità, in cui par riflettersi ancora per un attimo la platonica Mente divina, odia tutto le furberie ed i lenocinii d'una bassa teatralità: ma l'anima, nata e rimasta farfalla, si lascia pur prendere dalla baritonal finezza del cinema forzanesco. Arriva sempre, in un film forzanesco, la scena in cui l'anima, imberluccata come l’uditorio di qualche stornellante trasteverino, è costretta a far coro e ad ammettere: «come canti bè! come canti bè!»
Ricordo l'esordio del regista Forzano in Camicia nera, La mente aveva un bel mettersi in guardia contro la furberia scapinesca dell'uomo di teatro: arrivava il momento in cui bisognava cedere, in cui l'emozione vi pigliava alla gola, in cui l’anima si ricordava di appartenere, grammaticalmente almeno, al genere femminile, d’esser cioè nata per commuoversi ad un certo punto, per illanguidirsi, per lasciarsi rapire. L’uomo di teatro, l’irresistibile cantore, aveva vinto anche nel cinema, vi aveva messo nel sacco insieme con gli altri, vi portava via, volente o nolente. Che ci starebbero a fare nel mondo gli oratori, gli uomini di teatro, i cantori squillanti o soavi, se non avessero su di voi questo tremendo potere?
Cantore squillante, Giovacchino Forzano? No: quello ch'egli porta nel cinema è il patetico delle grandi arie, la dolcezza grave e nostalgica, una punta d'accoramento, che, come tessitura melodica, non va mai, di solito, oltre il sol. Quello che conta è per lui, la tempestività, la chiarezza, la teatralità della nota.
0 speranze perdute, o memorie...

Non già che gli manchi, volendo, la baldanza, lo squillo di Eacamillo nella Carmen:
Toreador … la festa del valor…

Ma non è il suo genere. Giovacchino Forzano, come regista, è l’uomo dell'emozione nobile ed alta. Non gli chiedete il pittoresco, il descrittivo, il piƒ-paƒ del baritono degli Ugonotti: chiedetegli la grande movenza, il linguaggio sostenuto del cuore, l’eloquenza degli eterni affetti. Come i veri uomini di teatro, Giovacchino Forzano attinge soltanto a quelli che sono i sentimenti eterni: l'odio generoso e l'amore come costruttiva speranza. Nessun abisso; nessuna profondità; ma la media più emozionante e più rasserenante.
Che il dramma storico lo attraesse anche nel cinema, e particolarmente nel cinema, era fatale. Il dramma storico è l’atmosfera stessa del grande patetico e dell’emozione: è, si direbbe, l'emozione allo stato gasoso. Ma che il Forzano qui, come sommuovitore di masse a scopo filmistico, abbia rivelata una sapienza più fine e più spettacolosa che quella d’un Guazzoni o d'un De Mille, io non direi. Nei suoi film storici sono ancora, più o meno, le masse della Scala, senza alcuna nuova dynamis filmistica: senza le prospettive magnificanti d’un Gance, senza l'intuito poetico d'un Lang. ln altri termini, anche nel cinema forzanesco, siamo ancora al vecchio culto scenografico della «massa per la massa», al quello che, in una Traviata della Scala, proporzionando la folla degli invitati alla vastità e alla dignità del boccascena, trasformava il pranzo di Violetta in un banchetto elettorale.
Il film storico e spettacoloso è stato, in sostanza, il più rovinoso equivoco di Giovacchino. Anche nei drammi filmistici, la vera forza di Giovacchino deriva dalla foga del cantabile, dalla veemenza emotiva e subitanea degli «a solo», dalla persuasività dilagante di qualche sentimento nobile quanto elementare. Ho sempre avuto il sospetto che il fondo vero di quest'uomo di teatro sia non il dramma spettacoloso, per cui egli non è che un Sardou in diciottesimo, ma il mimo arguto ed idilliaco, di cui avrebbe potuto essere un ravvivante e popolare maestro. In età della nostra meno convulse, e meno ansiose di dramma, Giovacchino sarebbe forse fiorito come commediografo limpido e a fior di terra, e non avrebbe mai pensato a mescolarsi con figure di shakespeariana levatura, che – lui personalmente -non lo riguardano né punto né poco. 
Non ci doliamo tanto del falso truce ch'egli ci ha dato, quanto ci doliamo dello schietto, del mattinale, del festante, ch'egli avrebbe potuto darci e, per la pressura dei tempi, non ci ha dato. Quel che di veramente grandioso egli ci dava, non era- farina del suo sacco, ma in fondo al suo sacco è pure un dono del mattino, un che di terso e di trillante, tra il grillo e il passero, una felicità canora appartiene a lui solo e che vorremmo ancora sentire.
Troppo superficialmente il critico Adriano Tilgher chiamava «giovacchinate» le cose teatrali di Giovacchino. Noi riconosciamo volentieri che, in fondo alla facilità con cui Giovacchino giovacchineggia, è qualcosa che somiglia alla felicità in quanto questa è voce terriera di gjrillo, di rana, dì passero. Non tutto è usignolo o allodola nella sinfonia dello spirito: non tutto, è lirica solitudine. Il passero è il cordiale baritono della natura, che potrebbe dire qualcosa di buono a tutte le ore, a patto, s’intende, di non impreziosire come un canario e di non volar alto come l’aquila.
Nei film storici del nostro Giovacchino il passero s’affanna troppo e non ha quasi mai la sua schietta voce. Di tanto tramenio, di tanto fracasso, non una nota che sia rimasta. La vena sommessa del cantore, la vena della tenerezza giocosa, è infinitamente più schietta. Ah, se il nostro Giovacchino fosse stato sempre all'altezza umile e giuliva d'un baritono rossiniano, forte nel Guglielmo Tell come nel Barbiere di Siviglia! Per questa felicità versatile, per questa popolaresca, limpidità, il nostro uomo era forse nato. Il cinema lo ha obbligato troppo a sforzar la nota, e, nello stesso tempo, a darsi un contegno; a limitarsi per un lato, a strafare per l’altro; a raffazzonare, a camuffare, a rimediare, a rimpasticciare per ogni verso. Lo rimproveravamo d'aver le mani buche del prodigo; ed il cinema quale gliel’avevano congegnato, ne faceva un crivello, una graticola, un bucataio, qualcosa che deve affannarsi da mattina a sera e da sera a mattina, per non istringer mai nulla o non conchiuder che a grandissimo stento.
Il cinema ha proprio minacciato d'inaridire questo cantore istintivo, dall’inesauribile vena. Serate dolci della bella stagione piene di raganelle vicine, e blandie dagli echi di qualche serenata lontana, ecco un tragico regista che, solo in mezzo al suo gramo castello di celluloide, si trambascia pensando a Tredici uomini e un cannone, il nuovo film dopo gli strepitosi storici Villafranca, Campo di Maggio, Fiordalisi d'oro.
Un cannone! Ecco il nuovo tremendo baritono cui bisogna pensare.
II cannone? Ma è proprio un baritono, o non è piuttosto, come pensava il poeta Ragazzoni, un tenore
scoppiante, un tenore petardiero? Da piccoli, abbiamo tanto sentito parlare d'un tenore Tamagno la cui voce, tutti dicevano, «tuonava come il cannone». Maturatosi con quest'idea, il poeta Ragazzoni aveva creduto, un giorno, di poter finalmente invertire le parti. Ricordo il sorprendente, melodrammatico effetto che faceva il verso ragazzoniano:

Il cannone, Tamagno delle battaglie...

Ma io vorrei tornare ad invertire le parti e, restituendo l'immagine alla primitiva grandiosa semplicità, son tentato a chiedermi oggi: non è stato, non è Giovacchino Forzano il cannone dei baritoni? Non è la voce naturalmente grave e paterna, che, al cinema, ha dovuto d'un tratto scoppiare, tonitruare, rimbombare, fragoreggiare, rotolar d'eco in eco e, dilagando per le ultime convalli, affievolirsi lenta nello stupor della vallata?
Nell'inane stupor del nostro cinema, Giovacchino Forzano è passato cosi, come la più roboante cannonata.
Ci ha lasciati con una nostalgia infinita del mezzitoni, delle inflessionì
carezzose, delle paterne dolcezze ammonitrici, delle prospettive verdi di rimpianto e d'idillio, per cui soltanto la voce baritonale pare nata. Maneggioni assassini del cinema, siete voi che di questo facile e felice cantore avete fatto il gigione tonitruante che, per la vallata grigia del film, deve passare come la metaforica cannonata del Barbiere di Siviglia, non lasciando che vuoto e rimpianti dietro di sé:

alla fin trabocca e scoppia,
si propaga, si raddoppia,
e produce un'esplosione,
come colpo di cannone,
come colpo di cannone!

Le sue commedie più riposate e più serene dovevano portarle altri al cinematografo. A lui, dopo qualche alloro iniziale e dopo. tanto chiasso e tanto mondano rumore, il cinema non riservava più che noie e triboli senza fine.
Ma non è detta l'ultima parola. Non è detto che Giovacchino Forzano debba cantare già, col Filippo II del Don Carlos:
Dormirò solo nel manto mio regale.

Vogliamo sentirlo finalmente in una serenata lieve, in un film tiepido e chiaro come una mattinata d’aprile, in qualcosa che blandisca l’anima, come la serenata mozartiana di Don Giovanni:

Deh, vieni alla finestra, o mio tesoro ...

Il nostro cinema ha già anche troppi gigioni lugubri. Quello di cui c’è tanto bisogno è il leggero, l'aereo, il carezzante. Ci faccia sentire, il nostro Giovacchino, qualcosa del più trillante repertorio, qualcosa che odori ad un tempo di campo e di nobile festa. Avanti! Non si faccia più pregare...
Non insistiamo, per non aver l’aria degli onesti borghesi che intendono farsi pagare dal celebre concertista il grazioso invito fattogli ed il buon pranzo datogli. Un grande pianista, credo fosse Listz, in circostanze sìmili, data una manata sulla tastiera, voltava le spalle dicendo: «tenete: per il vostro pranzo».
Eugenio Giovannetti
Opere di Giovacchino Forzano: Camicia Nera, Villafranca (1933) -- Campo di Maggio, Maestro Landi (1934) – Fiordalisi d’oro, Colpo vento, Tredici uomini e un cannone (1936) – Sei bambine e il Perseo (1939-40) - Il re d’Inghilterra non paga (1940-41). 


film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V - N. 6  7 FEBBRAIO 1942 XX
La testata si riferisce al film Rossini diretto da Mario Bonnard e interpretato da Nino Besozzi, Armando Falconi, Camillo Pilotto, Paola Barbara (Produzione Nettunia Film)

giovedì 14 novembre 2019

mercoledì 13 novembre 2019

Emilio "el Indio" Fernández - & Gabriel Figueroa

Il cinema di Fernandez si ispira appunto alla particolare suggestione del paesaggio messicano e si avvale d’un repertorio caratteristico di colore indigene. Diceva recentemente Figueroa ad amici romani - e il suo discorso vale sicuramente anche per Fernandez - che egli non potrebbe lavorare fuori del Messico, in un paese che non è il suo, in mezzo ad una realtà che gli è estranea. E il fondamento della sua collaborazione con Fernandez - diceva ancora Figueroa - è appunto nello stesso modo che entrambi hanno di sentire il Messico.
Nella sua scoperta del paesaggio messicano Fernandez ha tratto proficue indicazioni dalle esperienze compiute da artisti messicani contemporanei attivi in altri generi, particolarmente dai pittori. Figueroa ha
dichiarato ad André Camp (1):  “Il nostro cinema è essenzialmente pittorico. La scuola messicana di pittura, è la prima del mondo. Diego Rivera, Clemente Orozco, David Alfaro Siquieros sono i maggiori pittori della loro generazione. Essi hanno creato uno stile che esprime perfettamente l'anima e le aspirazioni del paese. Per noi, la via era già tracciata: non avevamo che da tradurre in immagini ciò che essi sviluppavano in quadri e affreschi”. I pittori messicani, raccolti attorno al dottor Atl nell'Accademia di S. Carlos, fin dall’inizio del secolo si ispirarono infatti, non senza intenzione polemica verso la cultura pittorica europea, alla tradizione indigena.
Nella pittura del suo paese Fernandez trovò appunto, già catalogato, tutto quel materiale illustrativo che egli andava cercando. Molti spunti dei suoi soggetti erano già stati individuati dall’iconografia della pittura messicana contemporanea. Il motivo di Enamorada, ci rinvia, per esempio, ad un quadro di Orozco “Le donne dei soldati”, dipinto verso il 1928 e Maria Candelaria fa subito pensare alle venditrici di fiori, così frequenti nei quadri di Rivera.
Sappiamo inoltre che Fernandez e Figueroa intrattengono stretti rapporti con i pittori messicani. Fernandez è amico intimo di Diego Rivera, che egli venera come un maestro e cui sottopone, in visione privata, i suoi film appena ultimati. Sappiamo anche che talvolta Figueroa studia preventivamente assieme a Rivera il disegno delle sue inquadrature. Alcune inquadrature di Maclovia sono state integralmente dettate da Rivera. Rio Escondido, nella versione originale, si apre con la visione degli affreschi di Rivera nel palazzo del governo di Città del Messico (la sequenza è stata tolta, naturalmente, nella versione nostrana, intitolata Il mostro di Rio Escondido, dal distributore italiano).
Va tuttavia rilevato che nonostante questi palesi accostamenti, diciamo così, di genere, il cinema di Fernandez si distingue dalla pittura messicana per un diverso stile figurativo. Mentre infatti la pittura nonostante il suo assunto illustrativo, risente qua e là di stimoli espressionistici, le immagini di Fernandez e di Figueroa non escono da un romanticismo naturalistico. (continua)
 (1André Camp: “Aperçus sur le cinéma mexicain” in «La revue du cinéma, n. 5, luglio 1948. 
Franco Venturini in BIANCO E NERO ANNO XII – N. 4 -  APRILE 1951


Nella foto il cinematographer Gabriel Figueroa con Emilio Fernandez sul set di Duelo en las montañas, 1950

martedì 12 novembre 2019

Guys & Phones




I don't know what it is with you guys and your generation.
"You guys"?
Jesus. Don't you guys live life for something outside the goddamn phone?

Non so cosa abbiate, voialtri della vostra generazione.
''Voialtri''?
Cristo, non ce l'avete una vita al di là di quel cavolo di telefono?
Clint Eastwood, The Mule, 2018

lunedì 11 novembre 2019

Un leone a Culver City - L'industria



Il complesso industriale della M.G.M. risiede in una località che dista una decina di miglia da Hollywood: "Culver City", una città vera e propria, il cui nome deriva da quello di Harry Culver, un proprietario che nel lontano 1915, allo scopo di attrarre nella zona - allora poco frequentata - la gente del cinema, ebbe la furberia di offrire gratuitamente nientemeno che a Thomas H. Ince, uno dei maggiori pionieri del cinema americano, un vasto appezzamento di terreno. Ince, che proprio in quel momento stava per fondare una nuova casa di produzione ed aveva bisogno di uno studio più vasto di quello di Santa Monica (che era
oltre tutto troppo distante da Los Angeles, sua residenza abituale), accettò la proposta e dopo aver costruito quattro teatri di posa, inaugurò nel marzo del 1915 la produzione della cosiddetta "Triangle " (nome derivato dalla forma del terreno occupato) con il film Civilization. Lavoravano in quel tempo per Ince alcuni attori già popolari: William S. Hart, Dorothy Dalton, Lew Cody, Billie Burke, Leo Carillo e Jean Hersholt. Al fallimento della "Triangle", gli studios vennero occupati nell'estate del 1918 da un produttore di New York, Samuel Goldwyn, il quale dopo quattro anni di fortunata attività, seguendo l'indirizzo generale
della produzione, volle tentare l'esperimento del grande film di prestigio, un film "colossale" sulla scia dei mastodontici spettacoli italiani di Guazzoni e Pastrone, già ripresi da Griffith e poi da De Mille: la riduzione cinematografica cioè del romanzo di Lew Wallace, Ben Hur, che tanti guai aveva già procurato alla "Kalem" quando nel 1907 ne aveva effettuato una versione in una sola bobina e in sedici quadri senza preoccuparsi di acquistarne i diritti. Goldwyn si accinse all'impresa con grande impegno: accaparratosi i diritti di riduzione del testo nel 1922, inviò in Italia due registi, Charles Brabin e Christy Cabanne, la scenarista e incaricata della supervisione June Mathis, e un atletico attore già affermatosi in vari film, che avrebbe sostenuto ù ruolo del protagonista, George Walsh. Ma i mezzi dei produttore non risultarono sufficienti, e l'impegnativa produzione venne interrotta, con una perdita di oltre un milione di dollari. E' a questo punto che intervengono i nomi di Marcus Loew e di Louis B. Mayer, cui faceva capo una ditta costituitasi da qualche tempo, la "Metro Picture Corporation", i quali avevano appunto intenzione di acquistare gli studios di Culver City. (continua)
Fausto Montesanti

CINEMA QUINDICINALE DI DIVULGAZIONE CINEMATOGRAFICA ANNO VII - 1954 10 NOVEMBRE 

Nella foto gli studios come si presentavano nella prima metà degli anni '50.