mercoledì 28 gennaio 2015

Caro, caro Signor Francesco Berté


Apprezzamenti per l'Orione
Gentile Direttore, accolgo l'invito per un dibattito sui Cineforum messinesi lanciato da un vostro lettore nel numero scorso.
Non sono più molto giovane ed il cinema è uno dei miei svaghi preferiti. Ho accolto quindi con viva sorpresa le critiche rivolte nei confronti del Cineforum Orione. Seguo questo circolo ormai da diversi anni e non posso parlarne che bene. Se non ci fosse stato l'Orione, penso spesso, che sorte avrebbe avuto
la cultura cinematografica cittadina? A chi sarebbe stata affidata? Al circolo Barbaro che un anno fa
attività in posti per me inaccessibili e per tre anni scompare? Oppure al circolo che svolge attività al cinema Olimpia?
A questo proposito inviterei il lettore critico a fare una visitina a questo Cineforum, di cui ho commesso l'errore di comprare la tessera. Vedrà il sig. Mittiga gente stipata all'inverosimile per colpa degli organizzatori che hanno pensato solo agli incassi; soci abbandonati a se stessi senza nessuno che li
guidi per una buona cultura cinematografica; giovani e giovanissimi che vengono solo per fare caciara con
gli amici. Durante la proiezione del film «La caduta degli dei» ho avuto l'«impudenza›› di chiedere silenzio ad un gruppo di giovinastri. Non l'avessi mai fatto, sono stato sepolto d'insulti e ho dovuto abbandonare la sala. Ho visto in pace il solo «Flauto magico» perché in sala eravamo una decina di spettatori. E vogliamo mettere questo con l'Orione, ma non scherziamo! Al cineforum Orione ho sempre trovato gente educata, ben disposta, competente di cinema, in un ambiente accogliente, con tante ed interessanti attività collaterali e schede esplicative molto chiare.
Quando ha cominciato l'Orione a Messina c`era il nulla. Poi ci sono state decine di tentativi di imitazione, ma nessuno ha avuto la vita e la serietà dell'Orione. Anche quest'anno all'Olimpia si tenta di imitare l'Orione: tessere simili, impostazione dei programmi simili, molti film già proiettati gli anni scorsi all'Orione. Per questo so già in partenza che l'Olimpia prima o poi finirà, nonostante il successo di quest'anno così come sono finiti il Barbaro, l'Achille Grandi e tanti altri. E poi non si può dimenticare che l'Orione ha portato il cinema in periferia  che ogni estate ci consente di vedere gratuitamente la rassegna del Filmnuovo.
Ma forse il sig. Mittiga non si occupa di cinema, perché nella sua lettera era tutto preso dalla politica. Io vorrei consigliargli invece di fare la tessera dell'Orione e vedere i film: non si può dire che un circolo che ha dato tanto alla città non sia valido solo perché un organizzatore ha dato un giudizio su un film che, Mittiga mi consentirà, era molto bello, ma anche un po' spinto». E poi per la gioia della sinistra l'Orione ha organizzato pure un ciclo per le femministe. Mi creda, sig. Mittiga, a Messina chi ama il cinema non può non amare l'Orione.
Francesco Bertè

Pubblicato sul settimanale Il soldo il 23 Dicembre 1978

martedì 27 gennaio 2015

40 Childrens

The Best Performances by Children 12 and Under

By Film Comment

Paper Moon Tatum O'Neil
1. Tatum O’Neal Paper Moon, age 10
Meet Me in St. Louis
2. Magaret O’Brien Meet Me in St. Louis, 7
Alice Doesn't Live Here Anymore
3. Jodie Foster Alice Doesn’t Live Here Anymore, 12
Bicycle Thieves
4. Enzo Staiola The Bicycle Thieves, 9
Let the Right One In
5. Kåre Hedebrant Let the Right One In, 11
Spirit of the Beehive
6. Ana Torrent The Spirit of the Beehive, 7
Welcome to the Dollhouse
7. Heather Matarazzo Welcome to the Dollhouse, 12
Wild Child Truffaut
8. Jean-Pierre Cargol The Wild Child, 12
The Addams Family
9. Christina Ricci The Addams Family, 11
ET Drew Barrymore
10. Drew Barrymore E.T.: The Extra-Terrestrial, 7
The Piano
11. Anna Paquin The Piano, 9
The Bad Seed
12. Patty McCormack The Bad Seed, 11
Bigger Than Life
13. Christopher Olsen Bigger Than Life, 10
National Velvet
14. Elizabeth Taylor National Velvet, 12
Night of the Hunter
15. Sally Jane Bruce Night of the Hunter, 5
I Was Born But
16. Tomio Aoki I Was Born, But... , 6
Let the Right One In
17. Lina Leandersson Let the Right One In, 11
Bright Eyes
18. Shirley Temple Bright Eyes, 6
The Other
19. Chris & Martin Udvarnoky The Other, 11
Ponette
20. Victoire Thivisol Ponette, 5
Good Morning
21. Masahiko Shimazu Good Morning, 7
Interview With the Vampire
22. Kirsten Dunst Interview with the Vampire, 12
The Innocents
23. Martin Stephens The Innocents, 12
City of Pirates
24. Melvil Poupaud City of the Pirates, 10
The Fallen Idol
25. Bobby Henrey The Fallen Idol, 9
Zazie
26. Catherine Demongeot Zazie in the Metro, 12
Tiger Bay
27. Hayley Mills Tiger Bay, 12
Whale Rider
28. Keisha Castle-Hughes Whale Rider, 12
River's Edge
29. Joshua John Miller River’s Edge, 12
The Kid
30. Jackie Coogan The Kid, 7
Near Dark
31. Joshua John Miller Near Dark, 12
Gloria
32. John Adames Gloria, 6
To Kill a Mockingbird
33. Mary Badham To Kill a Mockingbird, 10
Witness
34. Lukas Haas Witness, 9
Tarnished Angels
35. Christopher Olsen Tarnished Angels, 12
The Boy With Green Hair
36. Dean Stockwell The Boy with Green Hair, 12
Secret Garden
37. Kate Maberly The Secret Garden, 11
Alice Doesn't Live Here Anymore
38. Alfred Lutter III Alice Doesn’t Live Here Anymore, 12
Little Miss Sunshine
39. Abigail Breslin Little Miss Sunshine, 10
The Shining
40. Danny Lloyd The Shining, 7
L'originale è qui:
http://www.filmcomment.com/article/film-comments-trivial-top-20-expanded-to-40-the-best-performances-by-childr

domenica 25 gennaio 2015

Provvidenza per Iginio Lardani

Soltanto raffrontandolo ad altri si può attribuire questo prossimamente ad Iginio Gigi Lardani. La grafica e i fermo immagini rielaborati sono inconfondibilmente Lardani.


mercoledì 21 gennaio 2015

Al di sotto di ogni teoria, sul piano della cronaca letteraria o meglio dei piccoli con sigli:lo stato della critica cinematografica

 DIECI SUGGERIMENTI 
diEMILIANO MORREALE


Le osservazioni disordinate che seguono si mantengono al di sotto di ogni teoria, sul piano della cronaca letteraria o meglio dei piccoli consigli. Si tratta in breve di una guida personale, di buoni propositi, in cui si mescolano idee semi-teoriche e brute analisi di costume. Piccole regole da riscrivere e riverificare a seconda delle situazioni, anche se le linee di fondo mi pare valgano in generale per una situazione che è quella emersa dagli anni ‘80, ossia la definitiva entrata della cultura nella “società dello spettacolo”, il trionfo della comunicazione, l’ineludibilità della dimensione di massa fin dentro gli angoli dell’opera più altera e solitaria. E, secondariamente, c’è alla base la constatazione che oggi, in Italia e non solo, la situazione della critica sia gravissima. Le periodiche diatribe sulla crisi della letteratura e del cinema e sulla loro rinascita, ad esempio, nascondono un dato di fatto brutale: che a essere in una crisi irreversibile, anzi quasi scomparsa, è proprio la critica. Non sono certo gli artisti a mancare, oggi in Italia, ma gli interlocutori, i mediatori–non–funzionari. Una cosa che chi non frequenta le raccolte di saggi, le antologie e le emeroteche non può immaginare, sono le dimensioni della scomparsa della critica. Se ci si trova a leggere recensioni cinematografiche e letterarie anche italiane fino a un paio di decenni fa, ci si trova spesso davanti a descrizioni articolate e soprattutto nette, leggibili. Riflessioni, personali e discutibili certo, ma nel merito del lavoro degli artisti. Anche gli onesti artigiani settimanali della critica letteraria o cinematografica o teatrale vedevano come compito il raccontare e valutare in maniera appropriata, precisa. Chi si sforza di leggere, capire e spiegare un’opera si trova in un’oggettiva situazione di minorità e di opposizione rispetto al sistema della comunicazione.

1. Una certa mobilità intellettuale. Per decenni, le generazioni di giovani critici e intellettuali si sono formate quasi esclusivamente a contatto con veri feticismi metodologici, e quindi con una secca separazione tra i testi e la vita. Personalmente ho avuto a che fare con giovanissimi aspiranti specialisti, talvolta semplicemente inorriditi all’idea di una qualche prosecuzione (conseguenza, applicazione) di ciò che studiavano nella loro maniera di vedere le cose, di leggere la realtà, di muoversi nella società. Il tentativo di rifuggire dagli specialisti è doveroso per tutti – tranne forse che per i giornalisti, per i quali dovrebbe essere un dato di partenza da emendare – ed è stato più volte invocato negli anni, ma lo si potrebbe anche declinare in maniera più precisa, comportamentale, nel senso di tenersi al di fuori delle logiche autoreferenziali, di non farsi intrappolare nelle polemiche e gratificazioni dei propri micro-ambienti. Per evitare di impantanarsi nello specialismo e nel discorso delle conventicole, di scrivere lanciando messaggi trasversali, bisognerebbe anche praticare una certa mobilità intellettuale. Essere davvero competenti in un settore aiuta a capire cosa è la serietà, e a capire cosa significa studiare prima di parlare. Ma bisognerebbe coltivare delle posizioni esterne da cui guardare al proprio lavoro, se non altro per sentirsi lievemente a disagio, estranei in ogni situazione troppo chiusa. L’ideale sarebbe sentirsi per qualche secondo un po’ sociologi quando si è tra i critici letterari, o, quando si guardano i film, ricordarsi che alcune cose le dice meglio il fumetto. Anche per non accontentarsi della realtà delle singole arti così come sono. Detto in altro modo, e ampliando lo sguardo, questo si potrebbe anche chiamare radicalità. Appunto: non accontentarsi dell’esistente. Chiedere molto al proprio oggetto di studio (che è, si spera, anche un oggetto di amore e talvolta d’odio), atteggiamento che può addirittura essere salutare come visione del mondo, e che dovrebbe essere l’atteggiamento nei confronti del mondo che ci circonda, nel suo complesso.

2. I ferri del mestiere. In apparenza, le due grandi vie quando si fa critica sono o la via interna (smontare l’opera, spiegarla iuxta propria principia, mostrarne il meccanismo) o quella esterna: chiarire il contesto, trovare efficaci punti da dove guardarla e collegare con altri testi, altri luoghi, momenti storici. Un metodo diciamo analitico e uno comparativo. Ma a ben vedere, si può azzardare che la critica è sempre comparativa (il celebre “only connect”). Solo che nel caso della critica analitica i termini di paragone sono stati raccolti, asciugati e ridotti a strutture o a funzioni. Gli strumenti dell’analisi non discendono per via deduttiva dall’ordine delle idee, ma hanno a monte un lavoro di raccolta, analisi: impuro e storico. Allora la conoscenza dei “ferri del mestiere”, delle correnti e dei gerghi letterari, è spesso solo una scusa per non incontrare direttamente le opere ma i loro fantasmi. E le connessioni che si possono fare direttamente hanno sempre un altro sapore, un’altra sorpresa, rispetto a quelle comparazioni mediate e raffreddate che sono le sussunzioni in un sistema.

3. La curiosità necessaria. Siccome non c’è da fare molto affidamento sulla virtù sublime e pressoché estinta della generosità (e anzi l’egoismo e il narcisismo temo possano essere considerati, nel campo di cui parliamo, quasi alla stregua di malattie professionali, o di prerequisiti), rimane pur sempre molto da puntare sulla curiosità. La capacità di trovare cose nuove, che ci sono, di muoversi. Anche fisicamente: è incredibile quanto poco si spostino all’interno dell’Italia gli intellettuali. Credo che la metà dei critici cinematografici non sia mai stata in Sicilia o in Calabria per più di un weekend. I registi e gli scrittori comunque si spostano di più, e forse è uno dei motivi per cui sono spesso più reattivi.

4. Un dovere morale. Non so se gli artisti debbano preoccuparsi della coerenza personale; forse possono farne a meno, e talvolta possono veder riscattare le miserie personali dagli esiti della propria arte. Ma credo che gli intellettuali, i commentatori e i critici, proprio perché non hanno l’alibi dell’arte, abbiano qualche dovere morale in più. (Forse anche per questo motivo, sempre più critici amano vedersi come artisti: perché immaginano segretamente che con questo avrebbero meno piccole responsabilità quotidiane, personali). Con un paradosso si potrebbe dire: per essere artisti non è necessario essere brave persone, ma per essere degli intellettuali sì. Mi spiego: civettare con i media, la politica, le conventicole forse fa male a tutti, ma è immediatamente esiziale per chi cerca di capire le opere, perché lo rende terminale e referente di idee ricevute. Perché in qualche modo quando frequenta, discute, spiega sta già facendo il proprio lavoro. Ed è molto difficile che i piccoli compromessi che il salotto, l’istituzione o il mercato istillano periodicamente restino senza conseguenze per l’igiene mentale.

5. Contro il neo-dandysmo. Va di moda oggi il terzismo, l’intellettuale che spiazza (magari citando Camus e Simone Weil e avendo buon gioco contro i peccati degli intellettuali comunisti del secolo scorso), o civetta con il cattolicesimo come i decadenti francesi di cent’anni fa. In questi casi viene brutalmente da chiedersi quanto sia comodo questo atteggiamento, che cosa ci guadagna e cosa rischia chi lo pratica. Se rinascessero oggi, i salutari immoralisti, i dandy e i camp d’un tempo, sarebbero dei moralisti addolorati (in parte lo sono anche diventati, come Arbasino da Un paese senza in poi). I grandi critici, da Flaiano a Edmund Wilson, da Chiaromonte a Frye, da Garboli a Kracauer, sono stati insieme degli spiriti liberi e dei grandi moralisti. Negli anni ‘50, e ‘70, e magari ‘80, rifiutarsi alle ideologie più invadenti e alle “grandi narrazioni” era un gesto coraggioso. Ma oggi il neo-dandysmo è, semplicemente, l’atteggiamento più conformista e remunerativo per chi scrive di cultura e d’arte.

6. Una questione di stile. In tempi di Internet, può risultare strategico tornare a curare lo stile. La scrittura, intanto, giacché bene o male il critico attraverso le parole si esprime. Il rifiuto della frase morta. Ma anche il passo, il tempo del proprio pensare. Stile è una bella nozione, perché in sé riunisce l’estetica e l’etica. Ed è una dimensione che, dopo il crollo delle Grandi Teorizzazioni e dei Super Metodi, dalla semiologia allo strutturalismo, finisce con assumersi un carico fin troppo pesante. Non quindi cercare una propria cifra riconoscibile, un marchio, ma piuttosto avere la responsabilità della propria retorica, delle proprie retoriche, stare attenti a tic e automatismi e darsi un minimo di pazienza nei percorsi mentali, nelle associazioni. Una moda del tempo dei blog è quella della scorciatoia, della battuta tutta rivolta all’immediata definizione, allo slogan. Si tratta certo di esibizionismo, che riguarda le patologie della folla solitaria davanti al computer: e magari, la ricerca di piccole tribù attraverso il gergo. Ma in questo modo Internet ci mette anche davanti al problema, sempre presente per un critico, di gestire le proprie idiosincrasie e i propri narcisismi. La rete ha dato sfogo in maniera diffusa al lato oscuro della pratica critica. In questo modo, possiamo vedere con particolare chiarezza quali sono i rischi: in qualche modo siamo tutti blogger, in potenza o per pochi minuti al giorno. Il che dovrebbe suscitare un impegno nella direzione opposta, ossia nel riempire di spessore, argomentazione e raziocinio il proprio lavoro. 

7. Nemici. Non si è mai troppo superiori ai propri nemici, diceva uno scrittore. Per questo bisogna sceglierli con intelligenza e passione. Sono molto tristi certe battaglie di fioretto e di sciabola che i critici intraprendono, sprecando salve di indignazione, contro nemici di cartone, tanto da dare l’impressione di pure esibizioni, anzi di storno d’attenzione del lettore. Spesso la polemica migliore è con chi ci è quasi vicino, quella che contiene dei grani d’autocritica o che quanto meno non spinge a sentirsi troppo separati e migliori.

8. Rivendicare radici locali. La generazione dell’Erasmus e dell’Inter-rail ha prodotto una sorta di fascia trasversale di simili, indistinguibili da nazione a nazione, più o meno con la stessa cultura, gli stessi gusti, le stesse facce. A questo punto, può essere salutare rivendicare delle radici locali, l’interesse verso le realtà più prossime. Il “di più” che gli uomini di cultura italiani possono dare sta proprio nel peso che portano in quanto italiani, nella necessità di decifrare i cortocircuiti e le interazioni tra le pratiche artistiche e un luogo. Occuparsi dell’Italia è, per i critici, anche un dovere. Una prospettiva internazionale (e storica) serve ancora una volta a ridimensionare la portata dei dibattiti interni, ma i grandi maestri della critica sono stati anche e soprattutto, con fastidio e con angoscia, uomini di questo paese. 
L’essere italiani dà poi, a saperlo sfruttare, un altro vantaggio. Quello di provenire da un paese di recente modernizzazione, in cui i conflitti tra il vecchio e il nuovo si possono sentire fino alle ultimissime generazioni. Anche i ventenni sono cresciuti a contatto con lacerti ultimi di realtà quasi pre-moderne, unite a versioni da terzo mondo dei media. E questa è una grande fortuna, in fondo: perché ha prodotto una dolorosa coscienza di sé, anche in artisti e critici delle ultime generazioni. L’essere semi-cyborg è qualcosa che può essere una tragica fortuna (e che, ormai, si ritrova con più facilità tra gli italiani del Sud, o della provincia). Sapere con precisione chi si è, quanto si è provinciali, aiuta a non farsi illusioni e a creare strategie di riacquisizione e “riuso creativo” di quelle merci culturali che invece ormai sono, lo si voglia o no, uguali per tutti.

9. Un punto di partenza. Lo stesso discorso fatto sul dandysmo intellettuale vale per l’atteggiamento nei confronti della cultura di massa. Chi si illude oggi che sia ancora eretico gridare “La corazzata Potemkin è una cagata pazzesca”? Il nuovo conformismo prevede mille cautele e qualche amo gettato per le rivalutazioni in vita, perché domani non si sa mai, un libro, una retrospettiva, il recupero di un fenomeno paraletterario... Anche qui, l’indifferenza o l’ironica delibazione dei prodotti di massa non è segno di apertura mentale. Il fatto che, come diceva a suo tempo giustamente un grande critico, “i film nascono liberi e uguali”, non è una conquista da affermare, ma un dato di fatto, dal quale partire, per discernere. Altrimenti il rischio è quello del Manifesto o di Extra, la grande pappa. E come far capire, allora, che i Simpson, i cartoni della Pixar sono un grande prodotto culturale, la serie Boris è una commedia acuta e intelligente, mentre il 99% della musica pop, del cinema italiano e americano, delle sitcom e fiction e miniserie è tranquillamente immondizia?

10. Per chi si fa critica? E con questo ci avviciniamo a quello che è forse il tema decisivo: il pubblico. È un problema, temo, che artisti e critici hanno in comune, ma è anche quello che segna una delle più istruttive differenze tra loro. L’esistenza di una fitta rete di destinatari ideali, generazionali o sociali, e dello scopo che si cerca di ottenere. A questo punto, però, per i critici si impone, lo si voglia o no, il problema della comunicazione. Che è, come sappiamo, spesso fonte di impedimento e corruzione per gli artisti più radicali (a meno che non tentino quella via encomiabile del confronto con il pubblico di massa, e ci riesce uno su un milione). Ma è anche, invece, la ineludibile dimensione dei critici, il cui compito paradossale è anzi forse di difendere, attraverso la comunicazione, gli spazi di “fuga dalla comunicazione” e dallo spettacolo degli artisti migliori. 
Per chi si fa critica, dunque? Verso chi, o in nome di chi o di cosa? Cosa valuta i giudizi, li fonda idealmente? Certo, il super-Io è passato di moda da diversi decenni, il “mandato dell’intellettuale” ci fa sorridere, ma il problema rimane. Ed è comune, anche stavolta, a critici e artisti, e in molti sani casi nutre sensi di colpa, indignazione, moralità, ricerca. Non ci si può trincerare (per fortuna) davanti all’idea di un’alleanza con coloro che un tempo si chiamarono gli oppressi. Il che significa in qualche caso meno alibi e meno malafede, ma anche il rischio di altri e nuovi alibi alla propria chiusura, morale e culturale. Alcuni libri possono, o potevano, fondare una percezione del mondo che diventava più importante delle ideologie. Si può dare corpo e sangue alla propria visione degli uomini leggendoMartin EdenLa StoriaIl primo uomoL’isola del tesoroLa classe operaia in Inghilterra... o guardando Zero in condottaLo zio di BrooklynNostra signora dei TurchiEuropa 51. Ma è possibile oggi dare una qualche consistenza a coloro che ci sembrano i destinatari di un discorso sensato? La prima risposta che mi viene in mente giace nel paradosso, ed è: i futuri cittadini, i “nuovi arrivati”. Ossia: da un lato le nuove generazioni, e dall’altra gli immigrati. Coloro, tra l’altro, che non hanno voce in capitolo e che sono più fuori dal circo dei media e nello stesso tempo ne sono più vittime. E se, in questa direzione, il problema della critica non fosse troppo dissimile dal problema di cosa significa essere di sinistra? Critica e sinistra come due concetti del secolo scorso, coi quali non sappiamo più bene cosa fare? 
Una premessa pessimistica che può paradossalmente consolare viene proprio dalla constatazione della vanità della lotta politica attuale. Il lavoro culturale sembra più decisivo e perfino più urgente della lotta politica, perché la barbarie che ormai serenamente accettiamo e alla quale in varia misura contribuiamo non può in nessun modo essere eliminata con l’arma diretta del confronto politico (e da chi, poi?). E la dilazione o la rimozione di un lavoro culturale profondo e paziente rischia di trasformare ogni eventuale piccola vittoria della politica e della società civile sul peggio del nostro tempo in un’illusione, o addirittura in un involontario passo verso un disastro umano, che lascia sempre meno margini di intervento, di pensiero, di vita.

(originariamente pubblicato in "Lo straniero", 118, aprile 2010)

L'originale è qui:
http://www.filmidee.it/article/196/article.aspx

martedì 20 gennaio 2015

Il disgustoso mondo di Amélie


di Elisa Cuter

Feuchtgebiete potrebbe avere come sottotitolo “Il disgustoso mondo di Amélie”. Il riferimento al lezioso film caposcuola di Jeunet sembrerà fuori luogo per parlare di quello che è stato considerato il film scandalo di Locarno, ovvero le disavventure di un'adolescente che vive la sua ribellione verso i genitori incompetenti e infelici godendosi il sesso con deliberata noncuranza igienica, narrate con voluta nonchalance per il buon gusto dello spettatore. È proprio l'inconsapevolezza della protagonista a fare di lei un personaggio memorabile, in cui tenerezza e disgusto si fondono evitando l'ingenuità kitsch dell'Amelie Poulain di cui sopra. Allo stesso tempo, è questo stesso suo rimando naif a rendere fecondo il film: la sua forza sta proprio nel saper restare a cavallo tra un tipo di narrazione mainstream e un punto di vista inedito come quello di una ragazza capace di ignorare tutte le convenzioni che normalmente a una ragazza vengono imposte.
Più che un film che punta a scandalizzare il grande pubblico, Wnendt sembra voler far storcere il naso a certa critica snob. Non solo narra di tavole del water incrostate ed emorroidi sanguinolente, ma lo fa seguendo anche nella messa in scena un cattivo gusto demodé (si pensi agli imbarazzanti titoli di testa animati) e un frenetico stile registico da video-clip che poteva forse essere provocante negli anni '90, ma ora non fa che circoscrivere un target. Il film, però, ha senso proprio in relazione a questo target giovanile: non è un film scandalo, né un pamphlet “per imparare divertendosi” (anche se in questo caso centrerebbe il bersaglio in pieno), ma piuttosto un raro esempio di film che comprende profondamente il suo pubblico e allo stesso tempo punta ad educarlo. Perché di questi tempi c'è sicuramente bisogno di prodotti che indaghino il lato “sporco” del corpo (e dello sguardo) femminile, a maggior ragione senza morbosità né ammiccamenti “artistici” ma con spirito giocoso, celebrativo, verrebbe da dire punk (pensando ai Ramones).
Parte del merito dell'operazione va attribuito alla promettente attrice protagonista Carla Juri, cui basterebbe il fascino candido per spingere lo spettatore ad empatizzare con il personaggio; ma si farebbe volentieri a meno degli psicologismi un po' superficiali che tentano di  giustificare il desiderio di libertà per mezzo di traumi infantili, tradendo in parte gli intenti dell'omonimo bestseller di Charlotte Rocha da cui il film è tratto. Come il libro, il film restituisce comunque la voce di una nuova generazione tedesca attenta a formarsi ribaltando quelle che nel corso dello scorso secolo sono state le sue fatali debolezze: se lo spirito tedesco è stato a lungo dominato da un'analità nevrotica e ossessiva - in termini freudiani -, ecco una celebrazione della fecalità come fulcro dello humor, stavolta però in chiave ironica, non morbosa né subita - infantilismo abbracciato con consapevolezza.
Una generazione di cattivi maestri che sa scendere a compromessi (l'innegabile avvenenza di Juri ad esempio sembra purtroppo confermare la massima secondo la quale “a woman is allowed to be crazy, as long as she's hot”), perché ambisce a parlare a tutti, e ci riesce.

L'originale è qui:
http://www.filmidee.it/archive/37/article/521/article.aspx

lunedì 19 gennaio 2015

Helen è Carla

OGGI
al Circolo di Cultura Cinematografica “ Yasujiro Ozu

Figlia di genitori inetti Helen è una ninfa in stato di grazia che ha bruciato tutte le tappe della sua giovane età. In clinica per un … incidente?... ripercorre la sua ribellione prima di entrare pure lei nella normalità.
Feuchtgebiete (2013) è un’opera che si rivolge ad un pubblico under 20 pressappoco come Pretty in pink (1996), made in Germany questa volta. Senza un attimo di tregua, rapido, le sequenze fuggono con musica, canzoni, Helen sullo skateboard lungo i corridoi della clinica pavimentata da GOING UP THE COUNTRY dei Canned Heat, e Carla Juri che mette ko molte sue colleghe di tutto il globo. David Wnendt non sarà Marcel Proust ma nel tratteggiare e frantumare i caratteri se la cava; non sarà Leo Carax ma il mestiere è nelle sue mani per cui alla fine il film scuote pure i meno giovani e quelli più grandi di loro.  Non so perché: ma la Helen di Carla Juri mi fa ronzare in mente la Valentina Gherardini di Monica Vitti in La notte (1961) di Michelangelo Antonioni. E comunque l’unica pellicola che vi possiamo accostare, per quanto ci riguarda, è Io sono curiosa (Jag är nyfiken , 1967) dittico di Vilgot Sjoman, per il realismo con cui le due protagoniste,  Carla Juri e Lena Nyman, aggrediscono la vita a loro contemporanea.


domenica 18 gennaio 2015

Quand'ero polemico

Cineforum? Per carità!
Pubblichiamo il pezzo di Luigi Mittiga per "contribuire ad un dibattito sui circoli cinematografici cittadini”, come egli stesso afferma nella lettera con la quale lo presenta.
Assistendo, da non socio, ad un dibattito pubblico presso il Cineforum «Don Orione» che aveva come spunto il film di Miklos Jancso «Vizi Privati. pubbliche virtù» ho avuto modo di convincermi ancora di più che il «Cineforum» in quanto a basi culturali, sia in materia cinematografica che extra  ne ha pochine se non
niente del tutto.
Arrivo subito al punto.
Il conduttore del dibattito ha esordito etichettando il film «fascista›› («nel senso lato» dice
lui). Questa classificazione è: presuntuosa, arbitraria e falsa.
Presuntuosa in quanto il conduttore, di tutto il film. ha visto solo l'ultima metà del 1° 'tempo e niente più; la sua pretesa era di condurre il dibattito basandosi sulla lettura veloce e di pochi istanti prima, di alcune recensioni apparse sulle riviste di cinema.
Arbitraria perché nessun critico che abbia un minimo di preparazione, a qualunque tendenza politica appartenga, si è sognato di classificare il film «fascista» anche «nel senso lato». Anzi proprio questo film è stato una vittima del fascismo quotidiano delle Commissioni di censura e della Magistratura italiana.
Falsa perché è rivolta ad un autore tra 2 più rispettabili e coerenti, se non l'unico attualmente, che sappiano fare del cinema di idee. Tra l'altro etichettare a quel modo un film realizzato da un autore di formazione marxista mi sembra un tantino esagerato.
Ora, ogni dibattito che si svolge al Cineforum «Don Orione» è la dimostrazione proprio di quelle carenze culturali che lamentano prima e che sono alla base di quasi tutti i componenti che gestiscono il «Cineforum» (vorrei ancora ricordare i dibattiti per i film La marchesa von..., I duellanti che sono stati una vera. e propria dimostrazione di ignoranza.
Tessendo una lunga lode per quello che ha rappresentato il Cineforum in alcune stagioni passate, aggiungo anche che gli ultimi cicli sono stati uno spreco di tempo, denaro ed energia in programmi cinematografici e manifestazioni collaterali (queste ultime annunciate e mai realizzate) del tutto inutili, a discapito di
quello che poteva essere un vero circolo di cultura cinematografica.
La situazione del circoli cinematografici cittadini è penosa; ed allora è meglio che il Cineforum si rimbocchi le maniche, si svecchi dei suoi componenti che non hanno più nulla da esprimere (la stabilità del Consiglio Direttivo è paragonabile solo al trentennio di governo democristiano e qualcuno in seno a questo non
ha mai espresso niente) e cerchi di percorrere una strada nuova per il suo prestigio ed il bene dell'intera comunità.
Luigi Mittiga

Pubblicato sul settimanale Il soldo il 16 Dicembre 1978






mercoledì 14 gennaio 2015

Nuova musica, nuovi rumori: nuovo cinema


A Firenze, molti anni fa, suonavo con il gruppo “Nuova Consonanza” e il nostro era un programma straordinariamente sperimentale. Tutta la prima parte di quel concerto verteva su questo tipo di spettacolo: si cominciava quando la gente ancora non era entrata nella sala del concerto. E questo il pubblico non lo sapeva. C`era un signore che stava in sala e quando la gente entrava, saliva sul palcoscenico. Tutti pensavano che fosse un operaio. Una volta sul palcoscenico, si toglieva il cappotto e lo appendeva a un attaccapanni. Poi saliva su di una specie di soppalco e incominciava a lavorare con una scala che stava lì appoggiata. Con le mani muoveva le due assi che tengono i pioli facendo uscire dal legno degli strani suoni. La gente, intanto, continuava a entrare, non sapendo sempre che lo spettacolo era già iniziato: aspettava che lo spettacolo cominciasse. E lo spettacolo continuava così. Dopo quaranta minuti, il pubblico cominciò a capire che lo spettacolo era iniziato e cominciò a fare silenzio. Il cigolio con la scala andò avanti per un'altra mezz`ora. Alla fine, il signore sul palcoscenico si rimise il cappotto, scese dal palcoscenico e uscì. Così finiva la prima parte dello spettacolo. E il pubblico non si accorse egualmente che era finita la prima parte dello spettacolo. Per me questo è stato un insegnamento fondamentale. La filosofia di questo esperimento era che qualsiasi suono della vita, quello della campana della chiesa che stiamo sentendo in questo momento, quello di una mosca, di una goccia d`acqua , messo al centro di un silenzio, isolato da tutti gli altri suoni diventa un suono e acquista una importanza completamente diversa da quella della sua natura. Diventa fondamentale questa nuova espressività del suono tolta dalla sua paternità iniziale.
 Quest’ episodio che vi ho raccontato l`ho raccontato anche a Sergio Leone e lui riuscì a fare, all'inizio di C'era una volta il West, una sequenza che io ritengo straordinaria e che costituisce l”inizio del film. Credo che questa sequenza sia particolarmente riuscita per la considerazione che il regista ha dato alla chiarezza dei suoni e che questi suoni, proprio per la loro chiarezza, assumono, dentro l’immagine, una grandissima importanza.
Ennio Morricone, Il cinema è musica Centro Studi Cinematografici Anno XX n. 1-2 gennaio/aprile 1990


martedì 13 gennaio 2015

HEAD, the album

The Monkees had been haphazardly recording since late 1967 for "The Birds, the Bees, and the Monkees". They all went into the studio and recorded separately and were left with too much material to fit on one album. When it became definite that they were to make a movie, work on the soundtrack album officially began in early 1968. Although not all of the songs were specifically written for the film ("Can You Dig It", for example, was demoed during the Headquarters sessions), the songs that eventually became the soundtrack were handpicked by Rafelson, Nicholson and the other Monkees. 
The first song recorded for HEAD, "Circle Sky", was first recorded on December 9, 1967. "Circle Sky" was recorded by Mike and his friends Bill Chadwick, Keith Allison (among others) and is the source of much debate between Mike and Peter. This recorded version took three sessions to complete and was originally not going to be on the soundtrack. Another version of "Circle Sky" was recorded nearly six months later, only this time it was a live concert by the Monkees at Valley Auditorium in Salt Lake City, UT on May 21st. Rafelson had envisioned a concert sequence for the film, so the Monkees trekked over to Utah to give thousands of Monkees fans a full concert where they were to play "Circle Sky" live for the movie. They recorded everything but the vocals that day, and returned to the studio three days later to cut Mike's vocal. Yet sadly, this energized performance of "Circle Sky" was left off the soundtrack album in place of the original studio version without the other Monkees. The inclusion of this version is unknown, some suspect that Mike or Jack Nicholson may have included it on the soundtrack for various reasons. No one really knows why, not even Nez himself; "I don't have any idea how that happened. I think that The Monkees always played it better. I can't remember a studio version being better than the way we played it live. 'Cause live it was just pure unbridled energy." Nevertheless, the live version remains the more popular cut today and is the version that appears on all box sets.
 
The second song recorded for HEAD was another Nilsson tune, "Daddy's Song", which was in Davy's "Broadway rock" style. "Daddy's Song" features the usual Monkee cohorts (Keith Allison, Bill Chadwick, Eddie Hoh), and Monkees' (Mike Nesmith ). Interestingly, this song was originally sung by Mike (that version appears as a bonus song on the HEAD CD) in January of 1968. When it was decided that the filmmakers needed a song for Davy's dance sequence, the Monkees recut it in April of 1968 with Davy on vocals. This song was originally considered as a strong second single from HEAD, though it ended up only being released in the U.K.
 
Peter's two HEAD tracks, "Long Title" and "Can You Dig It" were recorded in January 1968, along with his other songs "Lady's Baby" and "Merry Go Round". Peter's songwriting around this time was more prolific than ever, yet none of his compositions except for the two on HEAD were ever released. "Long Title" was a rousing power trio song that he had written in mid 1967. He explains; "I remember very well that the song just fell out of me one day. I was just playing those chord changes on the guitar and opened my mouth, and that's what popped out. Once I had the first verse, the second verse followed the theme for the first verse. The weird thing is that the song has been prophetic. I had no idea that that was going to be my attitude about anything having to do with music when I wrote the song. It just came out that way. I wrote the lyric in London." The song features Peter's pal Lance Wakely on guitar, Buddy Miles on drums, and Peter on guitar, bass, and vocals.
 

"Can You Dig It?" was something Peter had been messing around with since his college days. He demoed an instrumental version during the Headquarters sessions, with a slightly different guitar part. The lyrics were written on the set of the TV show and were inspired by the Tao Te Ching. This song was first recorded on January 28, 1968 with Peter on electric guitar and bass, Lance Wakely on accoustic guitar, Dewey Martin (from the Buffalo Springfield) on drums. Buddy Miles is supposedly on the track, and it's rumoured that Stephen Stills played some role. Who knows. The song was originally recorded with Peter on vocals, but Schneider asked if Micky could sing it, since the song was to come right after Micky's solo scene in the movie. "CYDI" was recut with Micky on vocals in March of 1968. The movie version of "CYDI" actually has a different mix than the one on the soundtrack. I must say, I think the movie version kicks ass a tiny bit more than the soundtrack one. But maybe that's just me. 
The next song recorded, "Porpoise Song" began the phase of recording specifically for the movie. "Porpoise Song" was a psychedelic, dreamy, acid trip of a song that was specifically written for the movie by Gerry Goffin. The song was recorded with minimal Monkee input, chosing to use session players like Leon Russell, Ken Bloom (from the Lewis and Clarke Expedition) & Danny Kortchmar making the only Monkee involvement the vocal work by Micky and Davy. Micky insists to this day that Goffin wrote this song with him in mind; "I was told that by somebody. If you listen to it, it's about me committing suicide. It was written for the movie. It wasn't a song that she pulled out of a drawer. 'Riding the backs of giraffes for laughs,' I'm sure, was a reference to Circus Boy. At least I was told that." "Porpoise Song" was the only HEAD track released as a single, and it didn't fare well, mainly because it was unlike any other Monkee song to ever be released as a single. The teenybopper's didn't want their idols releasing psychedelic, drug induced songs. Needless to say, the song only got to #62 on the charts, and was only on there for six weeks.
 

The last full song to be recorded for HEAD was "As We Go Along", a roaming, mellow accoustic number penned by Carole King and sometimes Rafelson paramour, Toni Stern. "As We Go Along" was recorded on May 30th, 1968 and features an incredible combination of the best session players and producers. None of the Monkees were involved, other than Micky's vocals, instead, "AWGO" features Neil Young (!!!!!), Ry Cooder (!!!!), Ken Bloom (from Lewis and Clarke Expedition), Carole King (!!!), and Danny Kortchmar on guitar. No wonder it's a kickass song. Neil freakin Young plays on it. Legendary arranger Jack Nitzche also participated. Yet even with these heavy names, "As We Go Along" never charted. It was released as the B-side to "Porpoise Song" and ended up bubbling under at #106 on the Billboard Charts. Yet even today, the song remains a favorite to many Monkees fans, and to the Monkees themselves. Peter remarks; "Carole King is an astounding creature. The 'Porpoise Song' is a great song, and I think 'As We Go Along' is even better. Carole King could write with anybody. She could write with Mike Nesmith, after all!" Micky agrees; "That was a bitch to sing. It was in 5/4 time or some bizarre signature. I had a lot of trouble picking it up. Typically, we didn't have a lot of time to rehearse this stuff. We were filming. I'd go in, and they'd play the song a few times. I remember that was a tough song to sing, but I loved it. I still love it. It's actually one of my favorites." 
The last two 'songs' recorded for HEAD were Ditty Diego, which was recorded in July of 1968, and Happy Birthday To You, which was recorded in August. "Ditty Diego" is unique in that it's probably the only pop song that Jack Nicholson received writing credit for. "Ditty Diego" (original title: "Movie Jingle") is the unofficial theme song of HEAD and serves to sum up the plot of the film. "Happy Birthday To You" was recorded to complete the "MIKE BIRTHDAY PARTY" sequence and featured three part chanting from Peter, Micky, and Davy.
 
The remainder of the album consisted of collages of sound bites from the movie and Ken Thorne's instrumental tracks put together by the album's co-producer, Jack Nicholson. "Opening Ceremony", "Supplico", "Gravy", "Superstitions", "Dandruff", "Poll", and "Swami-Plus Strings" all serve the purpose of promoting the film and filling out the rest of the album. These sound bites are noteworthy, however, because of Nicholson's witty editing techniques.
 
HEAD the album was released to the public on December 1, 1968 and was their first album not to reach the TOP 5 on the album charts. By this point in time, the Monkees' popularity was waning, as they were all getting older, getting married, and not in the public eye as much. This added to the fact that teen magazines were promoting newer and groovier teen idols like the Cowsills, Bobby Sherman, Sajid Khan and Brenden Boone (whoever the fuck that is), caused their fan base to look elsewhere. HEAD did reach #45 on the charts, perhaps buoyed by the single "Porpoise Song", but it was not on the charts for long and even today, it hasn't gone gold. The release of HEAD was an important one in Monkee history. It was the last Monkees album of the 60s to feature all four Monkees, the only Monkees album in the 60s not to feature a song by Boyce and Hart (maybe that's why HEAD is so good?), and it was the last Monkees project to have involvement from Rafelson and Schneider. It also is considered one of the Monkees' best works as a group. With the failure of the movie and the soundtrack, the Monkees began to start re-thinking their role in the whole Monkee project, and after HEAD, a lot of their interest in the band and project was lost. HEAD the album expresses the themes of the movie as well; the fight between the band and those who try to control them. While Mike and Peter both participated in the recording and writing of the songs on HEAD, the 'singles' and most of the songs were authored by the same people that were hired by Donnie Kirshner, and feature minimal Monkee involvement. This is perhaps to say that while they did "overthrow" the PTB during Headquarters, ultimately, the PTB never lost control of the Monkees music career. This concept is summed up in the movie of HEAD with the prophetic ending when Big Victor (aka RCA Victor, who owned Columbia/Colgems) captured the Monkees in the tank.
 
But enough analysis, HEAD remains the weirdest Monkees album in history and also one of their best. I highly recommend it to anyone.
 

L'originale è qui:
http://www.psycho-jello.com/monkees/headman.html

lunedì 12 gennaio 2015

Carnevale al Kinefotografo



Kinefotografo - Lo spettacolo di Via, Pozzoleone, 39, va prendendo voga ogni sera più.
E' una continua ressa di gente che vuol godere dell' interessante passatempo e che ad
ogni rappresentazione gremisce la sala soddisfatta della nuova serie di vedute veramente originali e belle.
La Partita a carte, la Ballerina, la Via Piccadilly a Londra; sono davvero dei quadri di grande effetto.
La scena comica, la Cuoca, fa ridere di cuore grandi e piccini.
Stasera l'Impresa, per comodità delle famiglie che vogliono condurre i loro bimbi
a divertirsi, incomincerà alle ore 5 p. m.
Ecco il nuovo programma:
1. Domatore di cavalli, 2. Partita a carte,
3. Lavandaie, 4. Ballerina, 5. La cuoca,
6, La famosa via Piccadilly a Londra.
Cedendo al desiderio di molti, intanto, la Impresa ha deciso di ridurre ,il prezzo entrata,
per questi giorni di carnevale, a 25 centesimi.

Pubblicato sulla Gazzetta di Messina e della Calabria