lunedì 28 aprile 2014

Monroe Stahr, il nichelino e il cinema


  " Lasciate stare i dialoghi per un momento “  disse  Stahr. «Ammetto che i vostri dialoghi sono più eleganti di quelli che sanno scrivere quei due sceneggiatori... vi abbiamo fatto venire qui per questo. Ma immaginiamo qualcosa che non sia né un pessimo  dialogo  né un salto nel pozzo. C’è una stufa nel vostro ufficio,  una di quelle che si accendono con un fiammifero ? “  “ Credo di si “ rispose Boxley, sulle sue. «Ma non  l'adopero mai. ››  « Supponete di trovarvi in ufficio. Avete duellato o  scritto per tutto il giorno e siete troppo stanco per continuare a duellare o a scrivere. Ve ne rimanete seduto,  guardando nel vuoto... intontito, come capita a tutti,  qualche volta. Una graziosa stenografa che già conoscete entra nella stanza e voi la guardate... apatico. Lei  non vi vede, benché le siate molto vicino. Si sfila i  guanti, apre la borsetta e ne rovescia il contenuto su  un tavolino... ››          
  Stahr si alzò, gettando sulla scrivania il mazzo delle  chiavi.
  « Ha due monetine d'argento, un nichelino... e una  scatoletta di svedesi. Lascia il nichelino sul tavolo, rimette le monetine nella borsetta, prende i guanti neri,  si avvicina alla stufa, l'apre e vi mette dentro i guanti.  Nella scatoletta c'è un solo fiammifero e lei fa per  accenderlo inginocchiata accanto alla stufa. Voi notate  che la finestra aperta lascia passare una forte corrente  d'aria... ma proprio in quel momento suona il telefono.  La ragazza prende il ricevitore, dice pronto... ascolta...  poi, in tono reciso, dice al telefono: “Non ho mai  posseduto un paio di guanti neri in vita mia”. Riattacca, si inginocchia di nuovo accanto alla stufa e, proprio mentre accende il fiammifero, voi vi voltare, di  colpo, e vedete che nell'ufficio c'è un altro uomo, a  spiare ogni movimento della ragazza... ››   
  Stahr tacque. Prese le chiavi e se le mise in tasca.
  « Avanti» disse Boxley, sorridendo. «Che cosa succede? ››
  «Non lo so ›› rispose Stahr. «Stavo soltanto facendo del cinema. ››
  Boxley senti di essere stato messo nel sacco.
  «Non è altro che melodramma ›› disse.
  «Non necessariamente ›› replicò Stahr. «In ogni modo, nessuno si è mosso con violenza o ha avuto una  qualsiasi espressione facciale, né vi è stato alcun dialogo volgare. V'era una sola brutta battuta, e uno scrittore come voi potrebbe migliorarla. Comunque, sembravate interessato. ›› 
  «A che serviva il nichelino? ›› domandò Boxley,  evasivo.
  «Non lo so ›› disse Stahr. A un tratto rise. « Ah,  sí... il nichelino serviva per andare al cinema. ››  
     
Tratto da Gli ultimi fuochi di F. Scott Fitzgerald, trad. Bruno Oddera, Oscar Mondadori 1974

domenica 27 aprile 2014

Faulkner, Hemingway, Malraux e il cinema italiano nel dopoguerra


Tecnica del racconto 

Come nel romanzo, è soprattutto partendo dalla tecnica del racconto che si può rivelare l’estetica implicita dell’opera cinematografica. Il film si presenta sempre come una successione di frammenti di realtà nell’immagine, su un piano rettangolare di proporzioni date, dove l’ordine e la durata di visione determinano il “ senso “. ‘oggettivismo del romanzo moderno, riducendo al minimo l’aspetto propriamente grammaticale della stilistica, ha rivelato l’essenza più segreta dello stile. Certe qualità della lingua di Faulkner, di Hemingway o di Malraux non potranno certamente essere rese in una traduzione, ma l’essenziale del loro stile non ne soffre affatto perche lo “ stile “ si identifica quasi totalmente in loro con la tecnica del racconto. La sceneggiatura di Quattro passi nelle nuvole è altrettanto ben costruita di quella di una commedia americana, ma scommetterei che un terzo delle inquadrature non era rigorosamente previsto. La sceneggiatura di Sciuscià non sembra affatto sottomessa a una necessità drammatica rigorosa e il film termina su una situazione che avrebbe potuto benissimo non essere l’ultima. Il delizioso filmetto di Pagliero La notte porta consiglio si diverte a legare e slegare malintesi che potevano essere senza dubbio mescolati del tutto diversamente. Sfortunatamente, il demone del melodramma, al quale non sanno mai del tutto resistere i cineasti italiani, vince qua e là la partita, introducendo allora una necessità drammatica dagli effetti rigorosamente prevedibili. Ma questa è un’altra storia. Ciò che conta è il movimento creativo, la genesi particolarissima delle situazioni. Il cinema italiano possiede quell’andamento da reportage, quella naturalezza più vicina al racconto orale che la scrittura, più allo schizzo che l dipinto. Ci voleva la spigliatezza e l’occhio di Rossellini, di Lattuada, di Vergano e di De Santis. La loro macchina da presa possiede un tratto cinematografico molto delicato, delle antenne meravigliosamente sensibili, che gli permettono di cogliere d’un tratto quel che si deve, come si deve. Nel Bandito, il prigioniero di ritorno dalla Germania scopre che la sua casa è distrutta, Non resta più degli edifici che un ammasso di pietre circondato da muri in rovina. La macchina da presa ci mostra la faccia dell’uomo, poi, seguendo il movimento dei suoi occhi, fa una lunga panoramica di 30 gradi che ci rivela lo spettacolo. L’originalità di questa panoramica è doppia: 1) all’inizio siamo esteriori all’attore dato che lo guardiamo tramite la macchina da presa, ma durante la panoramica ci identifichiamo naturalmente a lui, al punto di essere sorpresi quando, scoperti i 30 gradi, scopriamo un volto in preda all’orrore; 2) la velocità di questa panoramica soggettiva è variabile. Comincia di filato, poi quasi si ferma, contempla lentamente i muri in rovina e bruciati al ritmo stesso dello sguardo dell’uomo come mossa direttamente dalla sua attenzione. Un’inquadratura del genere si avvicina nel suo dinamismo, al movimento della mano che disegna uno schizzo; lasciando dei bianchi, abbozzando qui, là delineando e frugando l’oggetto. In un découpage del genere il movimento di macchina è molto importante. La macchina da presa dev’essrere pronta tanto a muoversi quanto ad arrestarsi. Carrelli panoramiche non hanno il carattere quasi divino che dà loro a Hollywood la gru americana. Quasi tutto viene fatto ad altezza d’occhio o a partire da punti di vista concreti come potrebbero essere un tetto o una finestra. Tutta l’indimenticabile poesia della passeggiata dei bambini sul cavallo bianco in Sciuscià si riduce a un’angolazione dal basso che dà ai cavalieri e alla cavalcatura la prospettiva di una statua equestre. La macchina da presa italiana conserva qualcosa dell’umanità della Bell-Howell da reportage inseparabile dalla mano e dall’occhio, quasi identificata con l’uomo, prontamente accordata alla sua attenzione. Quanto alla fotografia, va da sé che l’illuminazione non assumerà che un debole ruolo espressivo. Prima di tutto perché essa esige il teatro di posa mentre la maggior parte delle riprese vengono fatte in esterni o in ambienti naturali, e poi perché lo stile reportage si identifica per noi col grigiore dei cinegiornali. Sarebbe un controsenso curare o migliorare eccessivamente la qualità plastica dello stile.

 Il neorealismo e il post-neorealismo.
 Il cinema italiano secondo André Bazin, op. cit.

mercoledì 23 aprile 2014

Dos Indios mui valientes


Emilio " Indio " Fernandez 1904 - 1986


Gian Maria " Indio " Volonté 1933 - 1994

martedì 22 aprile 2014

Gabino Torres matador

OGGI
Pellicole come quella di oggi erano escluse dalla programmazione domenicale del Cinema Loreto di Platì. Esse venivano proiettate durante la settimana lavorativa, il martedì o il giovedì, esclusivamente per un pubblico adulto alle 19,10, spettacolo unico. Un trentenne squattrinato aspirante toreador vive con una combriccola di suoi coetanei ai margini di Mexico City sognando sempre il momento della verità. Ha una fidanzata che gli vuole bene e gli passa il denaro per i bisogni di tutti i giorni. Essa allo stesso tempo simpatizza (solo?) con altri ma ama solo Gabino che ama l'arena. Un giovane già affermato toreador un giorno dice a Gabino che andrà a partecipare ad una toreada che ha lo scopo di raccogliere soldi a fini caritatevoli in un paese poco distante la grande metropoli. Gabino si presenta al sindaco del paese offrendo disinteressatamente la sua prestazione ma è rigettato perché sconosciuto nelle arene. Senza scoraggiarsi trova un sostenitore nel parroco del paese a cui spiega la partecipazione alla gara al solo fine di esaudire un voto contratto con Santa Lucia a favore della madre sofferente. Gabino con l'aiuto della fidanzata e degli amici riesce a procacciarsi i soldi che servono per partecipare alla gara, vestiario compreso. Il giorno arriva ma il sogno di diventare torero si infrange a causa della mediocre prestazione di Gabino, al quale non rimane che un amaro ritorno in città. L'idea originale del film è dello stesso attore protagonista, Fernando Casanova, a cui Luis Alcoriza si presta per la sceneggiatura. Il lavoro, portato a termine da Benito Alazraki lo si può spartire in due parti fuse in moviola dall'esperta Gloria Schoeman: quella prettamente di finzione in cui agiscono gli attori professionisti e quella semi documentaria attorno alla vita delle mattanze a discapito dei tori. La prima, col senno di poi, sembra che debba qualcosa ai ragazzi di vita o all'accattone pasoliniani, e dobbiamo dire che il regista se la cava egregiamente abbozzando tutta una moltitudine di marginali, non solo l'aspirante torero e la sua fidanzata, tra cui citiamo il padre di lei ex allenatore di toreri confinato sulla sedia a rotelle per un incidente sul lavoro e l'amico consigliere che segue e incoraggia il protagonista nel suo girovagare per trovare un ingaggio. La parte semi documentaria è senza dubbio la più riuscita. Sono centinaia i film che hanno i toreador e l'arena per soggetto (compreso quello con Totò, Fifa e arena), ma ai toreri e alle arene messicani non siamo avvezzi. Sin dalle prime immagini Benito Alazraki ci immerge in tutto ciò che accade dopo e attorno alla mattanza accostandoci alla moltitudine di persone che la seguono o vi prendono parte: i bambini che corrono dietro al matato toro appena uscito dalla polverosa arena, sgozzato il quale ne bevono il sangue; e ancora tutta quella moltitudine di campesinos assiepati sugli gradinate o seduti sui corral che bevono gassosa. E la vita paesana che ruota attorno ai festeggiamenti per la santa portata in processione in mezzo a bancarelle e ambulanti venditori con la conclusione notturna con i fuochi d'artificio a base di girandole scintillanti e cavalluccio, o forse è un toro?, scoppiettante. Questa parte, per tornare all'inizio, ricorda molto quanto accadeva a Platì per la festa della Madonna del Rosario o dell'Immacolata davanti alla chiesa del Rosario con il popolo esultante.

giovedì 17 aprile 2014

Come in un gioco insensato. Appunti sulla Calabria di De Seta.

Vittorio De Seta
1923 - 2011
La costruzione sconsiderata del Sud, così come massimamente si è compiuta dal secondo dopoguerra in avanti, è il concetto cardine di In Calabria, il lungo documentario che Vittorio De Seta girò nel 1993, quarant’anni dopo quelli che il regista palermitano da poco scomparso dedicò alla civiltà preindustriale del Mezzogiorno. È un film a colori, girato in 16 millimetri e della durata di ottanta minuti, sulla disintegrazione del sistema sociale meridionale già paventata negli anni Cinquanta all’interno dei documentari più brevi dei quali si è parlato nei numeri 42 e 44 di «Lunarionuovo» e che, come rivelano le immagini di In Calabria, puntualmente si è compiuta nella fase tarda della modernità: al tempo ritualizzato e all’esigenza di armonia di una volta sono subentrati il ritmo frenetico e il progresso insensato legati a un’idea di industria e di macchina che, non funzionando, è sfociata in degrado ambientale, emigrazione, disoccupazione e criminalità. De Seta individua in Calabria alcuni dei simulacri di questo fallimento e ne estende la portata all’intera civiltà capitalistica; il più delle volte si tratta di luoghi abbandonati: i paesi fantasma, come Laino Castello, le rovine delle fabbriche disseminate sulla piana di Lamezia Terme, il porto inutilizzato e il centro siderurgico di Gioia Tauro, sono tutti residui di una insufficienza che, secondo De Seta, è spirituale prima ancora che economica e sociale e che il rinnovamento della sacralità tradizionale di alcune feste religiose, come quella dei santi Cosma e Damiano a Riace, della Madonna della Montagna al santuario di Polsi e di san Rocco a Gioiosa Jonica, non riesce, ovviamente, a colmare del tutto. Ma, d’altro canto, permane in quel vuoto anche il sapere accademico, frammentato com’è in un’infinità di specializzazioni che non sono capaci di rispondere alle domande essenziali dell’uomo e che, in Calabria, trova il suo equivalente nella fredda struttura dell’Università di Arcavacata come De Seta non tarda a evidenziare nelle sequenze centrali del film.
La religiosità cui egli allude è, più propriamente, un principio di bene morale e di solidarietà, cui è possibile attingere soltanto attraverso un richiamo continuo al proprio senso di responsabilità e, in conseguenza di ciò, alla propria vera identità, all’autenticità della propria cultura, al progresso delle coscienze. E invece
 In Calabria mostra un Sud senza senso («tutto alla rinfusa, senza un disegno, come in un gioco insensato» recita la ferma voce fuori campo commentando gli ultimi fotogrammi della pellicola) che versa in una condizione ormai difficile da risanare, nonostante sia lo stesso De Seta a indicare con chiarezza e, specialmente nel finale, con qualche eccesso di retorica, quale strada si sarebbe potuta percorrere: quella della semplicità, dell’accordo con la natura, della concordia, dell’altruismo. Un cammino che, però, non conduca a un recupero liturgico di tali elementi, ma che pervenga, piuttosto, alla celebrazione di una comunità che si riconosca giorno per giorno in ogni aspetto della propria vita. Appare subito evidente come il momento rituale si impregna di significato soltanto se il riconoscimento, e dunque l’esercizio critico delle competenze, è quotidiano, non servendosi esclusivamente, come è accaduto troppo spesso finora, dell’occasione festiva o del richiamo a una tradizione o a una familiarità infondate nel vano tentativo di rinnovarsi, di attualizzarsi. Guardando le immagini delle celebrazioni calabresi, infatti, sorge piuttosto il sospetto, cui si è fatto cenno in precedenza, che esse, funzionando come specchi sui quali cogliere i difetti delle comunità che le allestiscono (oppure insistendo forzatamente su un vincolo tra vita sociale ed evento rituale ormai da tempo consumatosi), finiscano per partecipare al tracollo spirituale del Meridione. Sul versante opposto, è bene comprendere come la Calabria di De Seta incarni il rischio che potrà correre l’umanità intera qualora dovesse prendere in considerazione l’opportunità di attenersi alle logiche del benessere e del profitto a tutti i costi cui si è condannato l’intero sistema sociale rappresentato nel film del ’93.
Ma cosa si nasconde al di là delle rovine così recenti mostrate da De Seta? Esse non costituiscono i frammenti di ciò che è stato deteriorato o di ciò che è crollato; sono, piuttosto, l’indice di ciò che non è stato fatto, di ciò che è rimasto incompiuto e, mediante un paradosso soltanto apparente, di ciò che potrebbe verificarsi in un futuro non troppo lontano. Quei resti sono segni di pietra e di metallo che rimandano esemplarmente a un tempo che consente di misurare il carattere effimero dei destini umani. Ad essi, insomma, non ci si può accostare mediante l’emozione di ordine estetico che suscitano le antiche spoglie di una civiltà scomparsa: segnalano, invece, un tempo vuoto, ma coperto di cemento e di erbacce e, in un certo senso, impuro, spiegabile soltanto storicamente. È per questo che a De Seta è sembrato utile osservare gli scheletri abbandonati delle fabbriche e dei porti calabresi al fine di una comprensione efficace della situazione meridionale nel corso di quella che Marc Augé definisce
surmodernità: essi insegnano a riprendere coscienza della storia proprio nel momento in cui – come sostiene l’antropologo francese – «tutto concorre a farci credere che la storia sia finita»1. Somigliano a cantieri, circondati da terreni incolti, e suscitano un senso di attesa che, destinato a protrarsi indefinitamente, comunica visivamente un disagio di lungo corso, accertato storicamente. Che, rispetto agli anni Cinquanta, il senso dei luoghi sia mutato, che si viva ormai in assenza di riferimenti culturali e che la prospettiva futura sia definitivamente compromessa è facile desumerlo dal modo in cui De Seta, ora più di allora, riesca a creare un piano di riflessione uniforme sul quale porre ogni residuo naturale, l’artificio e le fabbriche, le città abbandonate e quelle infestate dai fumi di scarico delle automobili, le ricorrenze religiose e il modo di viverle. Per constatare cos’è rimasto sotto tutto questo, il regista cerca (e trova) una modalità espressiva che sia in grado di mostrare più efficacemente la disintegrazione del Sud: unisce in un unico ambiente filmico il suono delle campane e il baccano delle automobili e dei camion sui viadotti, i segnali colti spesso in presa diretta dei clacson e dei macchinari per il calcolo e il rumore dei tuoni, dell’acqua piovana e del coltello che incide la pelle del maiale, e persino gli inserti cantati della corale greco-albanese di Lungro e i frequenti ma non debordanti commenti della voce off di Riccardo Cucciolla. Ne viene fuori un film, come di consueto girato da De Seta sulla base di un’esile sceneggiatura, che riesce a documentare il ritmo di quell’universo contaminato, insensato, incomprensibile, senza però sovraccaricare troppo l’attenzione dello spettatore che, mediante un imprevisto quanto flebile esercizio d’ottimismo, continua a essere chiamato a integrare ciò che osserva con la sua sensibilità. Ciò è possibile perché lo sguardo del regista mantiene quell’inquietudine originaria che già caratterizzava i suoi lavori precedenti e che nasconde la reale natura del suo modo di intendere il documentario: esso, in fin dei conti, consiste nel riprendere quello che succede, senza barare, senza cioè influenzare o cercare di indirizzare il corso degli eventi mostrati, anche se questi dovessero sussumere la negazione di ciò che, oltre la superficie delle cose, definirebbe l’essenza del Meridione. Persino nel caso in cui questa dovesse rivelarsi vacante.

ALESSANDRO GAUDIO
1.      M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo (2003), trad. di A. Serafini, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p.
L’originale è qui:

mercoledì 16 aprile 2014

Vittorio De Seta - Il mio viaggio in Calabria




“ … l'oggetto filmato, la Calabria perduta, si assenta e si sospende, scoprendo contemporaneamente la potenza utopica e ucronica del cinema. “ Jean-Louis Comolli

I film di Vittorio De Seta I dimenticati (1959) e In Calabria (1993), a cui si può aggiungere Lu tempu di lu pisci spata (1954), costituiscono nell'esplorazione che stiamo facendo sulla rappresentazione della Calabria nel cinema, uno spartiacque ma anche il cuore, o se volete, il centro, tra passato e avvenire. La parola futuro è sistematicamente esclusa. “ Il futuro non appartiene a noi altri “ recitava Henry Fonda in C'era una volta il west
Vittorio De Seta la Calabria l'ha sentita fin dal suo concepimento nel grembo della madre, che era calabrese. Il suo cinema cominciò altrove ma ebbe termine, come un viaggio, con il ritorno nel grembo materno, regalando alla Calabria un film stilisticamente perfetto pur nella sua brevità: Articolo 23.
Ne I dimenticati viene registrato, per la prima volta, il rito arcaico della festa dell'abete (pita) che si svolge ad Alessandria del Carretto. Oggi questo rituale, divenuto una sagra paesana, è esclusivamente rappresentato per  giovanotti e signorine cittadini che vi arrivano firmati dai loro zainetti a tracolla, scarpette da trekking e occhiali da sole. All'epoca Alessandria del Carretto era staccata dal contesto sociale, come lo era Polsi; si raggiungevano questi due posti solo a dorso di mulo e di questo animale, che conta meno di un asino, si faceva uso per il trasporto di qualsiasi necessità acquistata fuori.
In quest'opera, come nella successiva In Calabria, sotto i colori della Ferrania De Seta lascia parlare i volti delle persone siano essi grandi o piccoli ma essenzialmente  suoni e rumori carpiti e registrati in diretta: lo scroscio della pioggia con il conseguente scorrere dell'acqua per le vie del paese; i ferri calzati dai muli con il loro infrangersi sulle rocce del fiume; le voci, i canti ed i suoni, i colpi di mortaio, la banda dietro la processione; tutto questo determina un passato orribilmente cancellato.
La distanza tra  I dimenticati  e In Calabria è di trenta anni, “ alle soglie del terzo millennio “ ricorda la voce fuori campo. I colori Ferrania sono sostituiti da quelli del reportage televisivo e lo spazio comprende l'intera Regione, vista come il corpo di un grosso animale da macello appeso, a testa in giù, ai ganci per essere suddiviso in quarti.
Per mezzo dei canti della corale greco-albanese di Lungro, a cui si aggiunge la voce, invecchiata bene, di Riccardo Cucciolla, all'elegia fa eco il pianto per la perdita del fitto legame tra natura ed esseri umani se non anche dei rapporti tra gli stessi individui.
La natura, la terra, la Regione risultano visibilmente sovvertite dal caos creato per un immaginario progresso mai realizzato. E qui la dicono lunga i rumori industriali dei mezzi per il movimento terra o dei grossi TIR che sfrecciano lungo la Salerno-Reggio.
L'unico viatico è nella feste religiose di grossa rinomanza: quella coreografica di Polsi, Madonna da muntagna, quella multietnica dei Santi Medici Cosma e Damiano presso  Riace e quella di San Rocco ,una delle innumerevoli , a Gioiosa Jonica, vissuta dai giovani come una sorta di Woodstock paesana.


lunedì 14 aprile 2014

Robert Aldrich speaks

1918 - 1983

Sono stato aiuto regista per dieci anni e ho avuto la  fortuna di lavorare coi più grandi:  Chaplin, Renoir, Milestone, Losey, Cromwell, ecc.  Descrivo  figure eroiche. Sono contro l'idea  d'un destino tragico, ogni uomo  deve agire anche se è spezzato. Il  sacrificio volontario è il massimo  dell'integrità morale. Il suicidio  è un gesto di rivolta: bisogna pagare il prezzo della lotta.  Mi  ripugna mostrare personaggi  spregevoli senza sfumature; non  si tratta tanto di trovare scuse  quanto spiegazioni.  Ho un  debole per il linguaggio fiorito,  ma durante le prove mi rendo  conto di quanto può esservi d'eccessivo e cerco d'umanizzare.   L'Amore con l' A maiuscola non  è stato mai trattato nei miei film.  È alla base della vita, dell'uomo,  ma l' attaccamento che questi può  avere per un modo di vivere, o per  una causa, può essere più duraturo dell'attaccamento per una donna.          


domenica 13 aprile 2014

Il cinema all'aperto a Messina e dintorni

Le chiamavano Arene

L'Arena Trinacria in via Ettore Lombardo Pellegrino e ...




un'Arena del periodo Littorio non identificata a Villafranca Tirrena (ME) foto Luigi Mittiga.

giovedì 10 aprile 2014

Urbanistica e cinema



La città italiana

Gli italiani hanno un incontestabile vantaggio: la città italiana, che sia natica o moderna, è prodigiosamente fotogenica. Dai tempi dell’antichità l’urbanistica italiana non ha smesso di essere teatrale e decorativa. La vita urbana è uno spettacolo, una commedia dell’arte che gli italiani danno a se stessi. E anche nei quartieri più miserabili quella specie di aggregazione corallica delle case consente, grazie alle terrazze e ai balconi, delle grandi possibilità spettacolari. Il cortile è un palcoscenico elisabettiano in cui lo spettacolo si vede dal basso, in cui sono gli spettatori dei palchi a recitare la commedia.  E’ stato presentato a Venezia un documentario poetico costituito esclusivamente da un montaggio di riprese di cortile. Che dire allora quando le facciate teatrali dei palazzi combinano i loro effetti d’opera con l’architettura da commedia delle case povere? Si aggiunga a tutto questo il sole e l’assenza di nuvole ( nemico n. 1 degli esterni )e si avrà la spiegazione della superiorità del cinema italiano per quanto riguarda gli esterni urbani.

Il cinema italiano secondo André Bazin, op. cit.

mercoledì 9 aprile 2014

mercoledì 2 aprile 2014

Lo chiamavano Antonio das Mortes

OGGI
al Circolo di Cultura Cinematografica " Yasujiro Ozu "


A staple of Brazil's Cinema Novo movement, this psychedelic interpretation of Leone-styled Spaghetti Westerns is a violent carnival of bursting colors and music
http://thirdmanrecords.com/news/view/light-sound-machine-presents-antonio-das-mortes

1
Teatro delle azioni: il sertão.
Per non spingerci lontano possiamo tradurre il vocabolo con badlands ( nel senso di Bruce Springsteen ) e anche … Aspromonte, senza la ricca vegetazione di quest’ultimo.
Protagonisti principali: un sicario al soldo dei latifondisti e l’ultimo dei cangaceiros trasformatosi in guerrigliero rivoluzionario. I cancaceiros furono dei briganti ( come il Musolino ed il Mittiga ) con, a volte, un anima da Robin dei boschi.
Nel cinema ed in Europa essi apparvero nel 1953 al festival di Cannes, portati alla palma da V. de Lima Barreto. Riapparvero, questa volta in Italia, nel 1970, con il fisico del ruolo e la faccia di Tomas Milian sulla scia dei  film Quien Sabe  (1966) di Damiano Damiani, Il Mercenario (1968) di Sergio Corbucci,  Queimada (1969) di Gillo Pontecorvo e per ricordare ancora Tomas Milian Tepepa (1969) di Giulio Petroni ed i due Cuchillo di Sergio Sollima. Nel 1970 il buon Tomas lasciò il Messico rivoluzionario per trasferirsi nel sertão brasiliano. Fece ritorno in Messico, e per l’ultima volta, nel 1972 con Vamos a matar  companeros di Sergio “Django” Corbucci.
I due personaggi maggiori di Antonio das Mortes (O Dragao da Maldade contra o Santo Guerriero, 1969) apparvero dapprima ne Il Dio Nero ed il Diavolo Biondo (Deus e o Diablo na Terra do Sol, 1964) opere di Glauber “Barravento” Rocha.
Nel 1964 in Brasile, Glauber Rocha scopriva il sertão, in Italia Sergio Leone Tolstoi scopriva il western. Penseremmo ad una casualità ma forse non è così semplice da spiegare perché in quegli anni Jean-Luc Godard girava Il Bandito delle 11 (Pierrot le fou, 1965) e Bernardo Bertolucci Prima della rivoluzione, 1964.
Rocha + Leone + Godard + Bertolucci = IL CINEMA
Cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia.
2

In Antonio das Mortes i personaggi avevano il volto di Mauricio do Valle, Antonio, e Lorival Pariz, Coirana.
Da aggiungere che il corpulento e barbuto Mauricio per come appare sulla scena richiama sempre alla mente Demis Roussos che in quegli anni solcava i palchi d’Europa con i suoi Aphrodite’s Childs.
Antonio das Mortes viene assoldato da un proprietario terriero, tirannico nei modi e nei fatti per porre fine ai giorni di Coriana, un carismatico fuorilegge che sostiene di essere la reincarnazione del famigerato cangaceiro Lampiao. I due si affrontano in un duello coreografico con il machete. Coriana ferito mortalmente cade al suolo e nello stesso tempo scoppia il caos tra i suoi numerosi seguaci. Ne consegue anche la crisi ideologica di Antonio das mortes, il quale intuisce che i veri nemici della società non sono i cangaceiros ma i proprietari terrieri, fonte di ogni oppressione.
Come l’ho esposta sembrerebbe la trama classica per uno dei western italiani citati in apertura, con il soggetto di Franco Solina e Giorgio Arlorio, o un qualsiasi prodotto della Hollywood illuminata e progressista.

3

Per fortuna non è così. Sebbene siamo allo scoccare degli anni sessanta dobbiamo tenere conto che Godard ha già dato il meglio di se stesso e nei giovani registi di talento è ancora forte la lezione di Roberto Rossellini.
Glauber Rocha, ancora oggi il più importante regista brasiliano, aveva esposto anche teoricamente quello che doveva essere il cinema del suo paese, in netto contrasto con gli autori del suo paese che lo avevano preceduto, delineando le basi del Cinema Novo.
In Antonio das Mortes si spinge più oltre e per far aderire e coinvolgere un pubblico più vasto fa suo l’evento nazionale riconosciuto in tutto il globo terrestre: il carnevale, caricandolo di simboli, a volte esoterici, difficili da decifrare.
Questo fa venire in mente un autore che non è azzardato accostare a Rocha: Mklos Jancso, il quale dal lato opposto dell’emisfero perveniva agli stessi risultati visivi se non ideologici.
Il film di Rocha, a cavallo tra narrazione mitica e radicalismo politico, non è altro che una festosa danza ipnotica, cromaticamente satura dei colori tropicali accompagnata dai ritmi tribali della musica popolare.
Chi ne esce con le ossa rotte e Antonio das Mortes:  in fondo al film lo troviamo che vaga solitario sull’autostrada, contro il senso di marcia dei pesanti autocarri che trasportano i grossi tronchi ricavati dal massiccio disboscamento della foresta amazzonica. La sua avanzata è ambigua, lo vediamo solo di spalle, sta cercando un senso dentro la propria vita, oppure …